Riduzione in schiavitù e fattori culturali1. Bussole di inquadramentoLa tutela della libertà e della dignità umana La schiavitù, fenomeno disumano e violento che nega la dignità umana finanche nella sua accezione più fondamentale, consiste nel possesso e nello sfruttamento di una persona da parte di un'altra, nella totale assenza di consenso e della possibilità di autodeterminarsi, ovvero di decidere le sorti della propria vita e del proprio futuro. Nella schiavitù, la libertà personale dell'individuo viene completamente annullata mediante la sottoposizione di questo al controllo e alla dipendenza altrui, spesso anche in maniera indiscriminata e violenta. Si tratta di un fenomeno risalente, ma purtroppo ancora presente in diverse parti del mondo, anche se sotto forme diverse da quelle conosciute in passato. Nel corso della storia, la schiavitù, fenomeno dalla tradizione risalente e tutt'oggi in uso in determinate parti del mondo, si è manifestata e continua a manifestarsi in diverse forme, traducendosi in tratta di esseri umani, servitù domestica, lavoro forzato, prostituzione forzata, arruolamento forzato e/o altre pratiche di simile tenore. Le leggi penali contro la schiavitù sono quindi essenziali per prevenire e combattere questo fenomeno, indipendentemente dalle modalità delle sue manifestazioni. Rendendo queste delle fattispecie di reato, il nostro Stato, coerentemente con quanto stabilito in Costituzione, intende quindi intervenire in prima persona nella prevenzione, persecuzione e repressioni di simili prassi, stabilendo inequivocabilmente la necessità di garantire a chiunque quel livello minimo di dignità e libertà personale, che, svincolato da pressioni e determinazioni esterne, costituisce dunque il bene giuridico oggetto di protezione. Alla luce della gravità del reato, l'art. 600 c.p. punisce dunque sia chi riduce una persona in schiavitù o in servitù, sia chi ne favorisce la riduzione, in quanto entrambi partecipi alla violazione dei diritti fondamentali dell'individuo. Nondimeno, la pena prevista è particolarmente severa, contemplando una reclusione fino a venti anni. Ciò premesso, andrebbe considerato che, in realtà, in ogni ordinamento le norme volte a tutelare dal reato di schiavitù, al pari di qualsiasi altra norma (specialmente se di natura penale), sono una diretta esternazione del contesto sociale e culturale dell'ordinamento stesso. I fattori culturali, anzi, possono anche influenzare la definizione di schiavitù stessa. Di conseguenza, poi, viene a modificarsi anche la capacità delle vittime di schiavitù di identificare e segnalare il loro sfruttamento. Senza considerare poi che in alcune culture, le vittime potrebbero sentirsi a disagio nel denunciare il loro sfruttamento a causa della vergogna o della paura di essere rifiutati dalla loro comunità. Ciò può rendere più difficile per le autorità individuare e perseguire i responsabili di questo crimine. Così, quindi, potrebbe capitare che dei soggetti, nel rispetto delle proprie tradizioni e della propria cultura, pongano in essere delle condotte penalmente rilevanti senza la reale intenzione (rectius: elemento soggettivo) di rendersi autori di fattispecie delittuose. I confini tra condotte costituenti fattispecie di riduzione in schiavitù e condotte non rilevanti negli stessi termini è dunque tutt'altro che netto e condiviso da un ordinamento all'altro. La questione poi si complica notevolmente quando soggetti appartenenti a determinate culture si trovino ad attuare determinate condotte in ordinamenti con standard di tutela più elevati. Ciò, ad esempio, è quanto avvenuto a Tizia, straniera minorenne in Italia, allorché i suoi genitori, nel rispetto delle proprie tradizioni e cultura, si accordavano con i genitori di Caio affinché quest'ultimo la sposasse – indipendentemente dal consenso della minore – in cambio di una somma di denaro e la promessa di una vita matrimoniale agiata. La fattispecie di cui all'art. 600 c.p. Al fine di dirimere le questioni sollevate nel caso delineato in sede di inquadramento, deve essere preliminarmente esaminata la fattispecie astrattamente ipotizzabile, ovvero quella di riduzione o mantenimento in schiavitù o in servitù di cui all'art. 600 c.p. È opportuno premettere che la norma nel corso degli ultimi venti anni è stata radicalmente riformata da interventi normativi che, nell'aumentare i limiti edittali delle fattispecie oggetto di divieto, hanno fornito, tanto nel primo quanto nel secondo comma dell'articolo 600, delle definizioni di assoluto rilievo in ordine alla qualificazione del concetto di schiavitù o servitù. Nel primo comma viene infatti stabilito quali condotte integrino il reato in commento. Proprio in virtù del fatto che la riduzione in schiavitù si attua attraverso un pieno possesso del corpo e della volontà di una persona, viene precipuamente stabilito che commette tale delitto “Chiunque esercita su una persona poteri corrispondenti a quelli del diritto di proprietà”, nonché chiunque ponga ovvero mantenga un altro soggetto in uno stato di soggezione continuativa, nell'ambito del quale ci sia la costrizione a prestazioni lavorative o sessuali, all'accattonaggio, alla sottoposizione al prelievo di organi “o comunque al compimento di attività illecite che ne comportino lo sfruttamento”. Il secondo comma della stessa norma, invece, si occupa di definire quali siano le condizioni al ricorrere delle quali è configurabile la condizione di riduzione o mantenimento in stato di schiavitù o servitù: viene così previsto che tale condizione di assoggettamento, paragonabile – come si diceva – al diritto di proprietà, venga ottenuto mediante violenza, minaccia, inganno, abuso di autorità o approfittamento di una situazione di vulnerabilità, di inferiorità fisica o psichica o di una situazione di necessità, o mediante la promessa o la dazione di somme di denaro o di altri vantaggi a chi ha autorità sulla persona Di conseguenza, e come la Cassazione ha sapientemente illustrato (Cass. III, n. 2841/2006), il delitto è inquadrabile all'interno della categoria giuridica del reato di evento a forma vincolata, dal momento che l'evento, consistente nello stato di soggezione in cui la persona è costretta a svolgere determinate prestazioni, deve essere ottenuto dal soggetto agente mediante una delle modalità delineate dalla medesima norma del codice penale. Preme sottolineare come il legislatore abbia previsto tra tali modalità anche la dazione di somme di denaro o di altri vantaggi da parte di chi abbia autorità sulla persona vittima di schiavitù: così facendo, l'ordinamento rivolge la sua tutela anche verso il substrato sociale meno abbiente, storicamente più facilmente soggetto alle vessazioni tipiche della riduzione in schiavitù. 2. Questioni e orientamenti giurisprudenziali
Domanda
I fattori culturali o di costume possono incidere sulla configurabilità del reato di riduzione in schiavitù?
La rappresentazione della condotta nella mente dell'agente e della persona offesa Una volta delineate le condizioni necessarie e sufficienti affinché si configuri il reato di cui all'art. 600 c.p., veniamo ora ad analizzare i profili che attengono al caso descritto in sede di inquadramento e che riguarda la comprensione dell'incidenza dei fattori culturali ai fini dell'integrazione del reato in parola. La questione, più nello specifico, riguarda la possibilità di non ritenere integrata la componente soggettiva in capo a quel soggetto che non ravveda – per il contesto sociale e culturale di provenienza – un disvalore nel porre in essere condotte integranti il reato ex art. 600 c.p. sul versante soggettivo. Come si anticipava, questo potrebbe accadere, per esempio, nel momento in cui una persona, genitore di una minore, si accordi con i genitori di un minore affinché questi si sposino dietro la corresponsione di una somma di denaro da una famiglia all'altra. L'aspetto di maggiore interesse è senz'altro quello relativo alla configurazione della responsabilità penale dell'individuo che, nella convinzione, maturata nel contesto del proprio bagaglio culturale, che le sue condotte non possano in alcun modo integrare il reato di cui all'art. 600 c.p., proceda a porre in essere condotte volte ad annichilire la dignità, la libertà personale e la capacità di autodeterminazione di soggetti terzi. Il piano di difficoltà ermeneutiche è duplice: se da un lato è possibile mettere in dubbio la reale volontà criminale del soggetto agente, dall'altro non è impossibile escludere che, per i medesimi fattori culturali, la vittima di determinate pratiche ritenga impossibile che la stessa possa ricoprire il ruolo di persona offesa. Orientamento della Corte di Cassazione Sul tema, la Corte di Cassazione ha già affermato che fattori culturali o di costume che possano aver mosso il soggetto agente non incidono sulla rilevanza penale delle condotte contestate in ordine al reato di riduzione o mantenimento in schiavitù (Cass. V, n. 23052/2016; Cass. V, n. 18072/2010). Sulla stessa linea si pone la giurisprudenza di legittimità a parere della quale la sottoposizione di una persona ad un atto di compravendita integra di per sé la configurabilità del reato di cui all'art. 600 c.p., in quanto realizza lo sfruttamento e la reificazione della vittima di queste condotte, poste in essere a meri fini economici (Cass. V, n. 35923/2010, Cass. III, n. 33757/2005). 3. Azioni processualiProcedibilità Il reato di riduzione o mantenimento in stato di schiavitù o servitù è procedibile d'ufficio. Improcedibilità delle impugnazioni (e prescrizione del reato) L'ipotesi di reato ha un termine di prescrizione pari ad anni quaranta (cfr. art. 157 c.p.) essendo la pena massima prevista pari a venti anni e alla luce del raddoppio dei termini prescrizionali (cfr. Art. 157, comma 6) previsto per i reati contenuti nella sezione I del capo III del titolo XII del libro II del codice penale. Tale termine, in presenza di eventuali atti interruttivi (cfr. artt. 159,160 e 161 c.p.), può essere aumentato senza i limiti imposti dall'art. 161, comma 2, c.p. A partire dal 1° gennaio 2020 (cfr. art. 2, comma 3, l. n. 134/2021), per tutte le ipotesi previste dalla norma in parola, costituiscono causa di improcedibilità dell'azione penale ex art. 344-bis c.p.p., la mancata definizione: – del giudizio di appello entro il termine di due anni; – del giudizio di cassazione entro il termine di un anno. Tali termini possono essere ulteriormente estesi quando il giudizio d'impugnazione risulta particolarmente complesso in ragione del numero delle parti o del numero o della complessità delle questioni di fatto o di diritto da trattare. In ogni caso, la proroga potrà essere disposta per un periodo non superiore ad un anno nel giudizio di appello ed a sei mesi nel giudizio di cassazione, salva la sospensione prevista dall'art. 344-bis, comma 6, c.p.p. e quanto previsto dalla normativa transitoria (cfr. art. 2, commi 4 e 5, l. n. 134/2021). Arresto e fermo Con riguardo al delitto di cui all'art. 600 c.p.: – l'arresto è obbligatorio in flagranza (cfr. art. 380, comma 2, lett. d) c.p.p.); – il fermo (art. 384 c.p.p.) è consentito. Misure cautelari personali In considerazione del limite edittale pari a venti anni di reclusione, sono applicabili misure cautelari coercitive (artt. 281-286-bis c.p.p.), consentendo l'art. 280, comma 1, c.p.p. di applicare dette misure ai soli delitti per i quali la legge stabilisce la pena della reclusione superiore nel massimo a tre anni; sarà altresì possibile applicare anche la custodia cautelare in carcere essendo previsto dall'art. 280, comma 2, c.p.p., l'applicazione di detta misura in caso di delitti per i quali la legge stabilisce la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni. Sarà poi possibile applicare la misura dell'allontanamento dalla casa familiare (cfr. artt. 282-bis c.p.p.) nel caso in cui i fatti siano commessi in danno di prossimi congiunti o del convivente. Competenza, forme di citazione a giudizio e composizione del tribunale Competenza Nei casi previsti dall'art. 600, commi 1, 2 e 3 c.p., è competente per materia la Corte d'Assise (cfr. art. 5, lett. d-bis) c.p.p.). Udienza preliminare Essendo la pena massima prevista per le ipotesi disciplinate dall'art. 600 superiore a quattro anni di reclusione, si procede con udienza preliminare. Composizione del tribunale Il processo per il reato di cui all'art. 600 c.p. si svolgerà dinanzi alla Corte d'Assise. 4. ConclusioniAlla luce delle modifiche normative registratesi nel corso degli ultimi venti anni, emerge una chiara e rinnovata attenzione da parte del Legislatore per la tutela dei consociati dal reato di riduzione o mantenimento in schiavitù o servitù. Il primo modo in cui tale tutela si concretizza è la previsione di una precisa definizione, tanto sul versante oggettivo quanto su quello oggettivo, delle fattispecie integranti il reato di cui all'art. 600 c.p. Al riguardo, poi, ciò che forse deve interessare di più, anche in virtù dell'interpretazione fornita dalla Corte di legittimità, è la rilevanza da attribuire al movente del soggetto agente quando questo ritenga di non aver infranto alcuna legge dell'ordinamento italiano nel momento in cui ponga in essere condotte perfettamente lecite e tipiche del proprio – straniero – contesto culturale. Ebbene, la Suprema Corte ci informa che fattori culturali e di costume non possono in alcun modo incidere sulla punibilità del reo. Di converso, quindi, la Corte di legittimità ha inteso concedere una tutela rafforzata contro il delitto in commento, stabilendo, in sostanza, che l'integrazione delle previsioni di cui al comma 2 dell'art. 600 avviene indipendentemente dalla percezione di un disvalore sociale in capo al soggetto agente. |