La contestazione “in fatto” dell’aggravante prevista dall’art. 602-ter, comma 1, lett. b), c.p.

Angelo Salerno

1. Bussole di inquadramento

Il delitto di riduzione in schiavitù

Il delitto di riduzione o mantenimento in schiavitù o servitù, è punito dall'art. 600 c.p., il cui testo è stato oggetto di plurimi interventi legislativi, dapprima con la l. n. 228/2003, quindi con l. n. 108/2010 e, da ultimo, con l. n. 24/2014.

La norma incriminatrice tutela la libertà personale, quale complesso di diritti e di libertà connaturati alla persona, oltre che la dignità della persona, compromessa dalla sua reificazione mediante le condotte punite dall'art. 600 c.p.

Si tratta di un reato comune, sebbene particolari rapporti tra il reo e la persona offesa possano assumere rilevanza quali circostanze aggravanti.

L'art. 600 c.p. punisce due distinte condotte, che integrano il delitto di schiavitù e quello di riduzione o mantenimento in servitù.

La prima fattispecie criminosa consistente nell'esercizio su una persona di poteri corrispondenti a quelli del diritto di proprietà e presenta struttura di reato di mera condotta. Perché il delitto sia perfezionato è sufficiente l'esercizio di taluno dei poteri inerenti al diritto di proprietà, tra cui la giurisprudenza di legittimità annovera la “vendita ad altri di un essere umano, atteso che in tal modo egli esercita sullo stesso un potere corrispondente al diritto di proprietà” (Cass. V, n. 10784/2012). I giudici di legittimità hanno altresì ritenuto responsabile del delitto non solo chi venda un'altra persona ma altresì colui che la acquista, trattandosi di un comportamento che, a prescindere dall'eventuale consenso della persona offesa, comporta la degradazione della persona a mera res, su cui vengono esercitati poteri corrispondenti al diritto di proprietà (Cass. V, n. 37315/2019).

Si tratta di un reato a forma libera, rispetto al quale è tuttavia necessario che la condotta si protragga nel tempo, richiedendo il legislatore un “esercizio dei poteri”, che implica la necessità di una pluralità di condotte, secondo lo schema del reato abituale.

Non è invece necessaria una soggezione totale, potendo assumere rilievo anche comportamenti intervallati da momenti di benevolenza o di momentanea libertà della persona offesa (Cass. V, n. 13125/2000).

Il secondo delitto punito dall'art. 600 c.p. consiste invece nella condotta di riduzione o mantenimento in servitù, che si verifica allorché il soggetto agente ingeneri nella persona offesa uno “stato di soggezione continuativa, costringendola a prestazioni lavorative o sessuali ovvero all'accattonaggio o comunque al compimento di attività illecite che ne comportino lo sfruttamento ovvero a sottoporsi al prelievo di organi”.

Tale fattispecie è a forma vincolata, richiedendo che il reo abbia agito con violenza, minaccia, inganno, abuso di autorità o approfittamento di una situazione di vulnerabilità, di inferiorità fisica o psichica o di una situazione di necessità, o mediante la promessa o la dazione di somme di denaro o di altri vantaggi a chi ha autorità sulla persona.

Si tratta di condotte che intervengono ai danni di una persona che ha già subito in precedenza condotte di privazione della libertà per mano di soggetto diverso dall'autore del reato, il quale a propria volta mantiene attuale tale condizione illecita.

L'elemento soggettivo del reato è il dolo generico nei casi di cui al comma 1 e di mantenimento in schiavitù o servitù mentre, in relazione alla condotta di riduzione in schiavitù, la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto che essa sia caratterizzata da una finalità di sfruttamento, per il perseguimento di prestazioni lavorative forzate o inumane, di prestazioni sessuali non libere, di accattonaggio coatto, di obblighi “di fare” imposti mediante violenza fisica o psichica (Cass. V, n. 10426/2015).

Le circostanze aggravanti ex art. 602-ter c.p.

L'art. 602-ter c.p., introdotto con l. n. 108/2010, con cui è stata ratificata la Convenzione del Consiglio d'Europa sulla lotta contro la tratta di essere umani del 2005, prevede una serie di circostanze speciali, che riguardano le fattispecie della Sezione I del Capo III, tra cui l'art. 600 c.p., rispetto al quale trovano applicazione i commi 1, 5, 6, e 7 dell'articolo.

Il comma 1 dell'art. 602 ter c.p. prevede tre circostanze aggravanti ad effetto speciale, che ricorrono quando il delitto sia commesso ai danni di un minore, ovvero risulti diretto allo sfruttamento della prostituzione o al fine di sottoporre la persona offesa al prelievo di organi, e infine quando il fatto determini un grave pericolo per la vita o l'integrità fisica o psichica della persona offesa.

Ai sensi dei commi 5 e 6, dell'art. 602-ter c.p., introdotti con l. n. 172/2012, inoltre, “la pena è aumentata dalla metà ai due terzi se il fatto è commesso in danno di un minore degli anni sedici” (comma 5) ovvero “se il fatto è commesso da un ascendente, dal genitore adottivo, o dal loro coniuge o convivente, dal coniuge o da affini entro il secondo grado, da parenti fino al quarto grado collaterale, dal tutore o da persona a cui il minore è stato affidato per ragioni di cura, educazione, istruzione, vigilanza, custodia, lavoro, ovvero da pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio nell'esercizio delle loro funzioni ovvero ancora se è commesso in danno di un minore in stato di infermità o minorazione psichica, naturale o provocata” (comma 6).

Infine, ai sensi del comma 7, la pena è aumentata dalla metà ai due terzi della pena, “se il fatto è commesso mediante somministrazione di sostanze alcoliche, narcotiche, stupefacenti o comunque pregiudizievoli per la salute fisica o psichica del minore, ovvero se è commesso nei confronti di tre o più persone”.

La l. n. 172/2012 ha inoltre introdotto l'art. 600-septies1 c.p., che disciplina una circostanza attenuante speciale (applicabile a tutti i delitti della Sezione I del Capo III), con riduzione della pena da un terzo alla metà “nei confronti del concorrente che si adopera per evitare che l'attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori, ovvero aiuta concretamente l'autorità di polizia o l'autorità giudiziaria nella raccolta di prove decisive per l'individuazione o la cattura dei concorrenti”.

2. Questioni e orientamenti giurisprudenziali

Domanda
È legittima la contestazione “in fatto” dell'aggravante prevista dall'art. 602-ter, comma 1, lett. b), c.p.?

Orientamento dominante della Corte di Cassazione

È legittima la contestazione “in fatto” dell'aggravante prevista dall'art. 602-ter, comma 1, lett. b), c.p., relativa alla finalizzazione dei delitti di tratta di persone e riduzione in schiavitù e servitù allo sfruttamento dell'attività di prostituzione, non trattandosi di aggravante a contenuto valutativo, purché nell'imputazione sia chiaramente evidenziata tale finalità.

La Corte di Cassazione si è di recente pronunciata in merito alla legittimità della contestazione dell'aggravante di cui all'art. 602-ter, comma 1, lett. b), c.p., in relazione al delitto ex art. 600 c.p., in assenza di un espresso richiamo alla norma, mediante cioè contestazione “in fatto” dell'aggravante (Cass. V, n. 1104/2022).

La lett. b) dell'art. 602-ter c.p. prevede un aumento di pena, da un terzo alla metà, se i fatti sono diretti allo sfruttamento della prostituzione o al fine di sottoporre la persona offesa al prelievo di organi.

Sul punto, i giudici di legittimità hanno evidenziato che, per poter ritenere legittima la rimodulazione della fattispecie contestata all'imputato in quella – aggravata – oggetto di decisione, è necessario il rispetto del principio del contraddittorio in relazione alla qualificazione giuridica dei fatti, come richiesto dall'art. 111 Cost. e dall'art. 6CEDU, come interpretato con la sentenza Drassich c. Italia della Corte EDU (Corte EDU, 11 dicembre 2007, Drassich c. Italia).

La riqualificazione del fatto può avvenire anche in sentenza, senza una preventiva interlocuzione delle parti, a differenza del mutamento del fatto, che ricorre invece a fronte di una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si riassume l'ipotesi astratta prevista dalla legge, in modo che si configuri un'incertezza sull'oggetto dell'imputazione da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti della difesa (Cass. S.U., n. 36551/2010).

Fuori da tali ipotesi è dunque sufficiente la contestazione in fatto di un'aggravante, purché però non si tratti di una circostanza a contenuto “valutativo”, categoria in presenza della quale le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno invece richiesto la contestazione formale in diritto dell'aggravante (Cass. S.U., n. 24906/2019).

Qualora invece, come nel caso dell'aggravante ex art. 602-ter, comma 1, lett. b), si tratti di una circostanza che non implica alcun elemento di valutazione giuridica, essendo invece collegata alla mera constatazione di un fatto, deve ritenersi legittima la sua contestazione “in fatto”, purché nell'imputazione sia chiaramente evidenziata la finalità della condotta criminosa allo sfruttamento della prostituzione o a sottoporre la persona offesa al prelievo di organi (Cass. V, n. 1104/2022)

3. Azioni processuali

Ulteriori attività difensive

Per la fattispecie in esame si possono esperire le seguenti ulteriori attività difensive: Istanza di revoca o sostituzione di misura cautelare (art. 299); Richiesta di riesame di un'ordinanza che applica una misura coercitiva (art. 309); Appello contro un'ordinanza in materia cautelare (art. 310); Richiesta di giudizio abbreviato (art. 438, comma 1); Richiesta dell'indagato di applicazione della pena nel corso delle indagini preliminari (art. 447, comma 1).

ProcedibilitàPer il delitto di riduzione o mantenimento in schiavitù o in servitù si procede sempre d'ufficio.

Improcedibilità delle impugnazioni (e prescrizione del reato)

Il termine-base di prescrizione è pari a venti anni (cfr. art. 157 c.p.), aumentabile, in presenza del sopravvenire di eventi interruttivi, fino ad un massimo di venticinque anni (cfr. artt. 160 e 161 c.p.), oltre i periodi di sospensione (cfr. artt. 159 e 161 c.p.).

Con riferimento ai fatti commessi a partire dal 1° gennaio 2020, ai sensi dell'art. 161 bis c.p., il termine di prescrizione cessa definitivamente con la pronuncia della sentenza di primo grado, fermo restando che, nel caso di annullamento che comporti la regressione del procedimento al primo grado o a una fase anteriore, la prescrizione riprende il suo corso dalla data della pronunzia definitiva di annullamento.

A partire dal 1° gennaio 2020 (cfr. art. 2, comma 3, l. n. 134/2021), inoltre, per tutti i casi di riduzione o mantenimento in schiavitù o in servitù costituiscono causa di improcedibilità dell'azione penale ex art. 344-bis c.p.p., la mancata definizione:

– del giudizio di appello entro il termine di due anni;

– del giudizio di cassazione entro il termine di un anno;

salva proroga per un periodo non superiore ad un anno nel giudizio di appello ed a sei mesi nel giudizio di cassazione quando il giudizio d'impugnazione risulta particolarmente complesso in ragione del numero delle parti o del numero o della complessità delle questioni di fatto o di diritto da trattare;

salva sospensione nei casi previsti dall'art. 344-bis, comma 6, c.p.p.;

salva diversa modulazione dei predetti termini in applicazione della normativa transitoria (cfr. art. 2, commi 4 e 5, l. n. 134/2021).

Misure precautelari e cautelari

Arresto e fermo

Con riguardo al reato di riduzione o mantenimento in schiavitù o in servitù:

– è sempre consentito l'arresto obbligatorio in flagranza di reato (art. 380 c.p.p.);

– è sempre consentito il fermo (art. 384 c.p.p.).

Misure cautelari personali

In relazione al delitto di riduzione o mantenimento in schiavitù o in servitù sono applicabili misure cautelari coercitive (artt. 281-286-bis c.p.p.), poiché l'art. 280, comma 1, c.p.p. consente l'applicazione delle predette misure ai soli delitti per i quali la legge stabilisce la pena della reclusione superiore nel massimo a tre anni; è altresì applicabile anche la misura della custodia cautelare in carcere, poiché l'art. 280, comma 2, c.p.p. consente l'applicazione della predetta misura ai soli delitti per i quali la legge stabilisce la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni.

Competenza, forme di citazione a giudizio e composizione del tribunale

Competenza

In tutti i casi di riduzione o mantenimento in schiavitù o in servitù è competente per materia la Corte d'Assise (cfr. art. 5 c.p.p).

Citazione a giudizio

Per il delitto di riduzione o mantenimento in schiavitù o in servitù si procede con udienza preliminare.

Composizione del tribunale

Il processo per il reato di riduzione o mantenimento in schiavitù o in servitù si svolgerà sempre innanzi alla Corte d'Assise.

4. Conclusioni

Confermando i principi di diritto di recente affermati dalle Sezioni Unite, in ordine alla contestazione in fatto delle circostanze aggravanti, la Corte di Cassazione ha ribadito la distinzione tra circostanze a contenuto valutativo e non, ritenendo legittima la contestazione in fatto dell'aggravante ex art. 602-ter, comma 1, lett. b), c.p.

Secondo i giudici di legittimità, infatti, l'aggravante in questione richiede la mera constatazione della sussistenza o meno di una delle finalità ivi contemplate, senza alcun profilo valutativo, sicché è sufficiente una chiara esposizione del fine perseguito dal soggetto agente nel commettere i fatti ex art. 600 c.p., perché l'aggravante possa ritenersi legittimamente contestata in fatto, pur senza richiamare il su citato art. 602-ter c.p.

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