I confini tra i delitti di violenza privata e rapina

Angelo Salerno

1. Bussole di inquadramento

Il delitto di violenza privata

Il delitto di violenza privata è disciplinato dall'art. 610 c.p., il cui comma 1 prevede che “chiunque, con violenza o minaccia, costringe altri a fare, tollerare od omettere qualche cosa è punito con la reclusione fino a quattro anni”.

Il delitto in esame tutela libertà morale, nella specie di libertà di autodeterminazione, contro le condotte violente o minacciose volte a condizionare l'altrui volontà.

Si tratta di un reato comune, la cui condotta criminosa consiste nel costringere altri a fare, tollerare od omettere qualcosa, mediante l'utilizzo di violenza o minaccia.

Per “violenza”, secondo la dottrina maggioritaria e la giurisprudenza prevalente (tra le altre, Cass. V, n. 40291/2017) non devono intendersi le sole condotte consistenti nell'impiego di energia fisica (vis corporis corpori data) nei confronti di una persona (c.d. violenza propria) ma altresì qualsiasi mezzo idoneo a privarla coattivamente della libertà di determinazione e di azione, costringendola a fare, tollerare od omettere qualcosa contro la propria volontà (c.d. violenza impropria). Tra questi rientrano anche mezzi insidiosi quali la narcosi o l'ipnosi ovvero ogni altra condotta che comunque impedisca alla persona offesa ad autodeterminarsi.

La giurisprudenza di legittimità, aderendo a tale interpretazione estensiva della nozione di violenza, ha ritenuto integrato il delitto ex art. 610 c.p. anche a fronte di un'aggressione a persone terze, legate tuttavia alla vittima da particolari vincoli di parentela o solidarietà, tali da condizionarne la libertà di decisione, escludendo che sia necessario un contatto fisico tra soggetto agente e persona offesa (Cass. V, n. 7592/2011).

È stato infatti affermato che “ai fini della configurabilità del reato in questione, il requisito della violenza si identifica in qualsiasi mezzo idoneo a privare coattivamente l'offeso della libertà di determinazione e di azione” (Cass. V, n. 1913/2018).

Con riferimento invece alla nozione di minaccia, è necessaria la prospettazione di un male ingiusto la cui verificazione dipenda dalla volontà del soggetto agente, tale da porre la persona offesa davanti alla scelta se aderire all'imposizione dell'agente oppure sottostare all'inflizione del male prospettato.

Si tratta di una condotta a forma libera, che può essere realizzata in forma espressa o implicita o anche tacita, purché risulti idonea in concreto a coartare l'altrui volontà, finanche quando diretta contro una persona diversa dal soggetto coartato (Cass. V, n. 29261/2017).

Perché possano ravvisarsi gli estremi del delitto di violenza privata, occorre che la condotta violenta o minacciosa abbia determinato la costrizione della vittima a fare, tollerare, o omettere qualcosa, contestualmente o successivamente alla percezione della minaccia o all'esercizio della violenza.

Laddove gli effetti di fare e omettere qualcosa si riferiscono comportamento della persona offesa, la tolleranza consiste nel lasciar compiere ad altri una certa azione, subendola passivamente.

Si tratta di eventi alternativi, rispetto ai quali è necessario l'accertamento del nesso causale che li lega alla condotta violenta o minacciosa del soggetto agente. Al riguardo è stato a più riprese evidenziato dalla Corte di Cassazione (Cass. V, n. 6208/2021) che il delitto in esame non è configurabile qualora gli atti di violenza e di natura intimidatoria integrino essi stessi l'evento naturalistico del reato, ossia il “pati” cui la persona offesa sia costretta, come nel caso in cui l'imputato aveva fisicamente aggredito la vittima, tenendola schiacciata contro la portiera dell'auto, senza che fosse apprezzabile, quale evento derivante dalla condotta, “un 'aliquid' diverso dal fatto concretante la violenza” (Cass. V, n. 1215/2015).

Il delitto è punito a titolo di dolo generico che non richiede il concorso di un fine particolare, che costituisce l'antecedente psichico della condotta, cioè il movente del comportamento tipico descritto dalla norma penale (Cass. V, n. 2220/2023).

Trattandosi di un reato istantaneo, si perfeziona nel momento e nel luogo in cui si verifichi la condotta coartata, effetto della violenza o minaccia esercitate dal soggetto agente (Cass. V, n. 1174/2021), giungendo a consumazione quando cessi la situazione di costrizione.

Trattandosi di un delitto di evento, a forma libera, il tentativo è configurabile nella duplice forma del tentativo incompiuto, quando non sia portata a termine la condotta violenta o minacciosa per cause indipendenti dalla volontà del reo, e del tentativo compiuto, quando cioè la violenza o la minaccia siano state realizzate ma non abbiano sortito l'effetto di coartazione sulla volontà della persona offesa.

La Corte di Cassazione ha precisato al riguardo che, stante la natura di reato a forma libera del delitto di violenza privata, la desistenza volontaria, che presuppone un tentativo incompiuto, non è configurabile una volta che siano posti in essere gli atti da cui origina il meccanismo causale capace di produrre l'evento, rispetto ai quali può invece operare, se il soggetto agente tiene una condotta attiva che valga a scongiurare l'evento, la diminuente per il cosiddetto recesso attivo (Cass. V, n. 17241/2020).

Le circostanze aggravanti

Il comma 2 dell'art. 610 c.p. prevede che il delitto di violenza privata sia punito più gravemente nei casi di cui all'art. 339 c.p., richiamando così le circostanze aggravanti stabilite per i delitti exartt. 336 e 337 c.p. e, segnatamente, quando la violenza sia commessa con armi, o da persona travisata, o da più persone riunite, o la minaccia sia compiuta con scritto anonimo, o in modo simbolico, o valendosi della forza intimidatrice derivante da segrete associazioni, esistenti o supposte.

Ai sensi dell'art. 339-bis c.p., introdotto con l. n. 150/2017, il delitto in esame è aggravato, con aumento di pena da un terzo alla metà, se la condotta di presenta natura ritorsiva ed è commessa ai danni di un componente di un Corpo politico, amministrativo o giudiziario a causa del compimento di un atto nell'adempimento del mandato, delle funzioni o del servizio. Tale disposizione non si applica tuttavia qualora sia stato lo stesso amministratore ad avere dato causa dell'intimidazione eccedendo con atti arbitrari i limiti delle sue attribuzioni, secondo una previsione analoga a quella di cui al già esaminato art. 393-bis c.p.

2. Questioni e orientamenti giurisprudenziali

Domanda
Qual è il discrimen tra i delitti di violenza privata e di rapina?

Orientamento dominante della Corte di Cassazione

Sussiste il delitto di rapina e non quello di violenza privata quando la condotta di violenza o minaccia, anche se diretta verso persona diversa dal detentore della res, abbia costretto la persona offesa a subirne la sottrazione e sia stata realizzata al fine di conseguire un ingiusto profitto mediante l'impossessamento non meramente temporaneo della cosa.

Il delitto di violenza privata presenta carattere sussidiario rispetto ad altre fattispecie penali che consistano nella coartazione, mediante violenza o minaccia, della persona offesa, presentando tuttavia elementi specializzanti.

Il legislatore ha infatti inteso offrire, attraverso la fattispecie residuale di violenza privata una più ampia tutela alla libertà di autodeterminazione della persona offesa, fuori dei casi delle più gravi ipotesi delittuose speciali, tra cui, a titolo esemplificativo, i reati di estorsione, violenza sessuale o concussione.

Con particolare riferimento al delitto di rapina, di cui all'art. 628 c.p., la giurisprudenza di legittimità ha tradizionalmente individuato il discrimen tra le due fattispecie nell'elemento soggettivo del reato, affermando che il delitto di violenza privata ha carattere generico e sussidiario e resta escluso, in base al principio di specialità, qualora sussista il fine di procurarsi un ingiusto profitto (dolo specifico) che rende configurabile una ipotesi delittuosa più grave, quale quella di rapina (Cass. II, n. 275/1986). Perché possa ravvisarsi un concorso apparente di norme occorre, in questo caso, che la persona offesa, mediante violenza o minaccia, sia costretta a subire la sottrazione della res di sua appartenenza, di cui si impossessi il soggetto agente, con configurazione del più grave delitto di rapina, allorché la condotta sia realizzata al fine di trarne un ingiusto profitto.

Sul punto, la Corte di Cassazione ha ritenuto che il profitto può concretarsi in qualsiasi utilità, anche solo morale, nonché in qualsiasi soddisfazione o godimento che l'agente si riprometta di ritrarre, anche non immediatamente, dalla propria azione, purché questa sia attuata impossessandosi con violenza o minaccia della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene. È stato così ritenuto che anche il fine di ottenere “un bacio” in cambio della restituzione di un monile sottratto alla persona offesa integrasse l'ingiusto profitto, in termini di utilità, anche solo morale, che qualifica il dolo specifico del reato di rapina, distinguendolo così dal delitto di violenza privata (Cass. II, n. 49265/2012). Su tale orientamento è tuttavia destinata ad incidere la decisione delle Sezioni Unite, cui è stata rimessa la questione – sebbene in relazione al dolo specifico del delitto di furto – se l'ingiusto profitto “debba essere inteso solo come finalità dell'agente di incrementare la sfera patrimoniale, sia pure in funzione del perseguimento di ulteriori fini conseguibili, ovvero se possa anche consistere nella volontà di trarre un'utilità non patrimoniale dal bene sottratto” (Cass. V, ord. n. 693/2023).

Ulteriore profilo distintivo dei due delitti è stato individuato dai giudici di legittimità nel carattere temporaneo o meno della sottrazione, evidenziando il delitto di violenza privata potrà configurarsi solo quando la persona offesa sia stata costretta, con violenza o minaccia, a consegnare un proprio bene per un uso meramente momentaneo. Laddove invece ne perda il controllo, anche durante l'utilizzo da parte del soggetto agente, che consegua l'autonoma disponibilità della cosa, sarà ravvisabile la più grave fattispecie di rapina (Cass. II, n. 16819/2019).

Riguardo invece al soggetto passivo del reato, la Corte ha ritenuto che possa ritenersi sussistente il delitto di rapina anche quando la minaccia o la violenza siano dirette nei confronti di una persona diversa dal titolare della res sottratta, purché però “tra la violenza e l'impossessamento interceda un nesso di causalità tale che abbia carattere di immediatezza, sicché l'impossessamento sia derivazione diretta della violenza stessa” (Cass. I, n. 1771/1993). Qualora invece tra le condotte intercorra un lasso di tempo tale da interrompere il nesso di contestualità e di immediatezza richiesto per il delitto di rapina, la condotta violenta o minacciosa diretta verso persona diversa dal detentore della cosa integrerà gli estremi della violenza privata. Qualora invece le condotte si presentino come un'azione unitaria, che culmina con l'impossessamento della res mediante la violenza o la minaccia rivolta a persona diversa, anche al fine di impedire al titolare della res di recuperarla o di richiedere l'intervento delle forze dell'ordine (nei casi quindi di rapina impropria) sarà ravvisabile il delitto di rapina (Cass. III, n. 2828/1999).

Domanda
Il prelievo di ovociti contro la volontà della persona offesa integra il delitto di rapina o di violenza privata?

Orientamento meno recente della Corte di Cassazione

L'espianto di ovociti dall'utero di una donna, realizzato in ambiente ospedaliero contro la sua volontà, da personale medico, configura il delitto di violenza privata e non quello di rapina.

La Corte di Cassazione è stata chiamata a pronunciarsi in merito alla configurabilità del delitto di violenza privata ovvero di rapina, a fronte della condotta del sanitario che, in ambiente ospedaliero, proceda all'espianto di ovociti contro la volontà della donna.

Un primo orientamento ha escluso in radice che, in siffatte ipotesi, possano ravvisarsi gli estremi del delitto di rapina, sul presupposto che gli ovociti, benché destinati ad essere espulsi o trasformati mediante la fecondazione, fanno parte del circuito biologico dell'essere umano e non possono essere considerati “cose mobili” solo temporaneamente detenute dalla donna all'interno del suo corpo (Cass., sez. fer., n. 39541/2016).

È stato pertanto ritenuto che la condotta del sanitario integri il delitto di violenza privata, allorché la persona offesa sia stata costretta, mediante la condotta da qualificarsi in termini di violenza, poiché contraria alla volontà della donna, a subire il predetto espianto.

Orientamento più recente della Corte di Cassazione

L'espianto di ovociti dall'utero di una donna, contro la sua volontà e al fine di trarne un ingiusto profitto, configura il delitto di rapina e non di violenza privata.

Più di recente, la Corte di Cassazione ha invece superato l'obiezione di fondo su cui reggeva l'orientamento contrario alla possibilità di ravvisare gli estremi del delitto di rapina, affermando che gli ovociti, una volta distaccati dal corpo umano, divengono “cose mobili” detenute dalla donna, e, quindi, sono passibili di sottrazione e impossessamento.

Ne consegue che, qualora l'espianto sia realizzato con violenza, contro la volontà della donna e mediante costrizione alla sedazione, e il fatto sia stato commesso al fine di trarne un ingiusto profitto, in specie mediante l'utilizzo in trattamenti di procreazione medicalmente assistita in favore di terzi, si configura il delitto di rapina (Cass. II, n. 37818/2020).

La Corte muove dunque dal presupposto opposto della natura di cose mobili degli ovociti e ribadisce il criterio distintivo dei due delitti, insito nel fine di ingiusto profitto che anima la condotta tipica.

3. Azioni processuali

Ulteriori attività difensive

Per la fattispecie in esame si possono esperire le seguenti ulteriori attività difensive: Querela (art. 336); Richiesta di riesame di un'ordinanza che applica una misura coercitiva (art. 309); Appello contro un'ordinanza in materia cautelare (art. 310); Memoria difensiva (art. 419, comma).

ProcedibilitàA partire dal 30 dicembre 2022 e con effetti retroattivi, il delitto di violenza privata è divenuto procedibile a querela di parte, a seguito dell'introduzione del nuovo comma 3 dell'art. 610 c.p. con d.lgs. n. 150/2022, c.d. Riforma Cartabia.È tuttavia fatto salvo il caso in cui ricorrano le circostanze di cui all'art. 339 c.p., in presenza delle quali si procederà d'ufficio, così come quando la persona offesa sia incapace per età o per infermità.Il regime di procedibilità a querela di parte, salve le eccezioni indicate, opera anche per i fatti commessi in data anteriore all'entrata in vigore della riforma, con necessità di procedere – ove non sia stata già presentata – a sporgere querela nel termine di tre mesi a decorrere dal 30 dicembre 2022 o dal momento successivo in cui la persona offesa abbia avuto consapevolezza del fatto.

Improcedibilità delle impugnazioni (e prescrizione del reato)

Per tutti i casi di violenza privata, circostanziata o meno, il termine-base di prescrizione è pari a sei anni (cfr. art. 157 c.p.), aumentabile, in presenza del sopravvenire di eventi interruttivi, fino ad un massimo di sette anni e sei mesi (cfr. artt. 160 e 161 c.p.), oltre i periodi di sospensione (cfr. artt. 159 e 161 c.p.).

Ai sensi dell'art. 161-bis c.p., il corso del termine di prescrizione cessa definitivamente con la pronunzia della sentenza di primo grado ma, in caso di annullamento che comporti la regressione del procedimento al primo grado o a una fase anteriore, la prescrizione riprende il suo corso dalla data della pronunzia definitiva di annullamento.

A partire dal 1° gennaio 2020 (cfr. art. 2, comma 3, l. n. 134/2021), per tutti i casi di violenza privata costituiscono causa di improcedibilità dell'azione penale ex art. 344-bis c.p.p., la mancata definizione:

– del giudizio di appello entro il termine di due anni;

– del giudizio di cassazione entro il termine di un anno;

salva proroga per un periodo non superiore ad un anno nel giudizio di appello ed a sei mesi nel giudizio di cassazione quando il giudizio d'impugnazione risulta particolarmente complesso in ragione del numero delle parti o del numero o della complessità delle questioni di fatto o di diritto da trattare;

salva sospensione nei casi previsti dall'art. 344-bis, comma 6, c.p.p.;

salva diversa modulazione dei predetti termini in applicazione della normativa transitoria (cfr. art. 2, commi 4 e 5, l. n. 134/2021).

Misure precautelari e cautelari

Arresto e fermo

Con riguardo al reato di violenza privata, comunque circostanziato:

– non è previsto l'arresto obbligatorio in flagranza di reato (art. 380 c.p.p.);

– è consentito l'arresto facoltativo in flagranza di reato (art. 381, comma 2, c.p.p.);

– non è mai consentito il fermo (art. 384 c.p.p.).

Misure cautelari personali

Per determinare la pena agli effetti dell'applicazione delle misure cautelari personali, ai sensi dell'art. 278 c.p.p., si tiene conto delle sole circostanze aggravanti ad effetto speciale (es. art. 339-bis c.p.).

Il delitto di violenza privata consente l'applicazione di misure cautelari coercitive (artt. 281 – 286-bis c.p.p.), poiché l'art. 280, comma 1, c.p.p. ammette l'applicazione delle predette misure ai soli delitti per i quali la legge stabilisce la pena della reclusione superiore nel massimo a tre anni; non è invece applicabile la misura della custodia cautelare in carcere, poiché l'art. 280, comma 2, c.p.p. consente l'applicazione della predetta misura ai soli delitti per i quali la legge stabilisce la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni.

Competenza, forme di citazione a giudizio e composizione del tribunale

Competenza

In tutti i casi di violenza privata è competente per materia il tribunale (cfr. art. 6 c.p.p.), che decide in composizione monocratica (cfr. artt. 33-bis e 33-ter c.p.p.).

Citazione a giudizio

Per la violenza privata si procede con citazione diretta a giudizio del P.M., ex art. 550, comma 1, c.p.p., anche se aggravata ai sensi del comma 2 dell'art. 610 c.p.

Si procede invece con udienza preliminare, in luogo che con citazione diretta del P.M. a giudizio, soltanto se sia contestata la circostanza aggravante di cui all'art. 339-bis c.p., o in ogni altro caso in cui sussista una circostanza ad effetto speciale.

Composizione del tribunale

Il processo per il delitto di violenza privata, aggravata o meno, si svolgerà sempre dinanzi al tribunale in composizione monocratica.

4. Conclusioni

Tra le fattispecie che pongono questioni interpretative in ordine alla perimetrazione dell'ambito operativo del delitto di violenza privata si colloca il delitto di rapina, in relazione ai casi in cui la violenza o la minaccia siano dirette a costringere la persona offesa a subire la sottrazione di una res, con conseguente impossessamento da parte del soggetto agente.

La giurisprudenza di legittimità, in linea con la dottrina maggioritaria, ha ravvisato il discrimen tra le due fattispecie nell'elemento soggettivo del reato, con particolare riferimento al dolo specifico di trarre per sé o per altri un ingiusto profitto, che caratterizza il delitto di rapina. Come anticipato, tale nozione è destinata ad essere rimodulata allorché le Sezioni Unite, investite di recente della questione, si pronunceranno in merito alla sua estensione ai casi di vantaggio non patrimoniale.

È stato pertanto ravvisato un rapporto di specialità tra i delitti, che impone ai sensi dell'art. 15 c.p. l'applicazione del reato di rapina, ogni qualvolta il fatto sia animato dal fine di ingiusto profitto.

Ulteriori linee di confine tra i delitti attengono al carattere temporaneo o meno dell'impossessamento, non essendo prevista la punibilità a titolo di rapina nei casi di uso momentaneo della res (a differenza di quanto accade per il furto d'uso), nonché alla natura dell'oggetto materiale del reato, che deve poter qualificarsi come cosa mobile altrui.

Particolare interesse suscita, al riguardo, il caso di espianto di ovociti contro la volontà della donna, su cui si è registrato un contrasto nella giurisprudenza di legittimità in ordine alla possibilità di qualificare il materiale biologico in questione come “cosa mobile”.

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