Alle Sezioni Unite la configurabilità, nel procedimento di correzione di errore materiale, della soccombenza ai fini della liquidazione delle spese

30 Ottobre 2023

La Suprema Corte esamina la questione della configurabilità, nell'ambito del procedimento di correzione di errori materiali, ove la parte non ricorrente si costituisca e resista all'istanza di correzione, così contrapponendo il proprio interesse a quello proprio della parte ricorrente, di una situazione di soccombenza che impone al giudice di provvedere sulle spese processuali ex art. 91 c.p.c.

Massima 

Vanno rimessi gli atti al Primo Presidente perché valuti l'opportunità di investire le Sezioni Unite sulla questione di massima di particolare importanza se, in tema di procedimento di correzione di errori materiali, ove la parte non ricorrente si costituisca e resista all'istanza di correzione, così contrapponendo il proprio interesse a quello proprio della parte ricorrente, si configuri, all'esito del giudizio, una situazione di soccombenza che impone al giudice di provvedere sulle spese processuali, ai sensi dell'art. 91 c.p.c.

Il caso

Proposta istanza di correzione di errore materiale, questa veniva dichiarata inammissibile dal giudice adito, sul rilievo che essa avesse erroneamente investito un error in judicando, scaturente da un'attività valutativa del giudice e non già un mero errore materiale; di conseguenza, veniva condannato l'istante a rimborsare alla controparte le spese del procedimento di correzione.

Avverso la statuizione sulle spese contenuta nell'ordinanza di reiezione dell'istanza di correzione, il soccombente proponeva ricorso straordinario per Cassazione.

La questione 

Viene così sottoposta alla Suprema Corte la questione circa la possibilità del configurarsi, nell'ambito del procedimento di correzione di errori materiali, ove la parte non ricorrente si costituisca e resista all'istanza di correzione, così contrapponendo il proprio interesse a quello proprio della parte ricorrente, di una situazione di soccombenza che impone al giudice di provvedere sulle spese processuali ex art. 91 c.p.c.

Le soluzioni giuridiche

La terza sezione civile della Corte di cassazione, dopo aver vagliato positivamente l'ammissibilità del ricorso straordinario ex art. 111 Cost,  ha disposto la trasmissione degli atti al Primo Presidente affinché valuti l'opportunità di assegnare il ricorso alle Sezioni Unite, poiché la questione in esso contenuta, oggetto di contrasto tra un orientamento prevalente e un orientamento minoritario,  involge l'interpretazione di norme processuali ed assurge a questione di massima di importanza tale da porre l'evidente esigenza di un orientamento uniforme.

Osservazioni

Quanto alla pregiudiziale questione concernente l'ammissibilità del ricorso, è opinione consolidata che sia ammissibile, avverso l'ordinanza che dispone la correzione di errore materiale ex art. 288 c.p.c., il ricorso straordinario per cassazione ai sensi dell'art. 111 Cost., avente ad oggetto la statuizione di condanna di una delle parti al pagamento delle spese del procedimento di correzione.

Detta statuizione, difatti, ha carattere non solo decisorio, ma anche definitivo, in quanto non impugnabile con il rimedio di cui all'ultimo comma del citato art. 288 c.p.c., il quale è preordinato in via esclusiva al controllo della legittimità dell'uso del potere di correzione sotto l'aspetto dell'intangibilità del contenuto concettuale del provvedimento corretto (cfr. Cass. civ. 12 maggio 2023, n. 12966; Cass. civ. 22 febbraio 2017, n. 4610; Cass. civ. 20 aprile 2006, n. 9311).

La Corte precisa che, poiché ai sensi dell'art. 288, comma 4, c.p.c. si desume che l'interesse a questa impugnazione va individuato in relazione al contenuto del provvedimento corretto e sussiste soltanto se ed in quanto si deduca l'illegittima modifica del contenuto concettuale originario della pronuncia, «il rimedio è proponibile per ottenere a questo unico scopo una verifica dell'avvenuto esercizio del potere di correzione entro i limiti di legge» (Cass. civ. 20 aprile 2006, n. 9311). In altre parole, il rimedio di cui all'art. 288, comma 4, c.p.c. è consentito solo ove la doglianza attenga all'esorbitanza del potere correttivo rispetto ai confini connessi alla sua ratio: rimuovere la divergenza tra il giudizio espresso e la sua espressione letterale, senza necessità di un'attività volta alla ricostruzione del pensiero e della volontà del giudice, facilmente individuabile, senza margine di incertezza.

Diverso è il caso in cui la censura esaminata concerna la statuizione di condanna al pagamento delle spese relative al procedimento di correzione. In una tale ipotesi, non è ammessa l'impugnazione ex art. 288, comma 4, c.p.c. mentre è invece consentito il ricorso straordinario per cassazione ai sensi dell'art. 111 Cost.

Il vizio relativo alla decisione in punto di spese, in quanto non riguardante le parti corrette di una sentenza, ma la stessa ordinanza di correzione, può essere infatti censurato con il rimedio del ricorso per cassazione, avendo riguardo a tale aspetto l'ordinanza di correzione carattere non solo decisorio, ma anche definitivo, perché funzionalmente estraneo alla correzione della sentenza da errori od omissioni.

Passando poi all'esame della questione di particolare rilevanza posta all'attenzione della Corte, merita di essere preliminarmente osservato come il procedimento di correzione degli errori materiali o di calcolo, così come previsto dagli artt. 287-288 ss. c.p.c., alla stregua di un'interpretazione strettamente letterale della norma, sarebbe diretto a porre rimedio ad un errore meramente formale della sentenza, derivante da una divergenza evidente e facilmente riscontrabile tra l'intendimento del giudice e la sua esteriorizzazione, con esclusione di tutto ciò che attiene al processo formativo della volontà.

Coerentemente, tale procedimento ed il relativo provvedimento mediante il quale la sentenza può essere corretta, avrebbero natura meramente amministrativa, sicché, alla luce di tale premessa e di una tale interpretazione strettamente letterale della disposizione oggetto d'esame, un primo orientamento, assolutamente maggioritario, corrispondente al tradizionale indirizzo seguito dalla stessa Suprema Corte, ritiene che nel procedimento di correzione degli errori materiali ex artt. 287 ss. e 391 bis c.p.c.non sarebbe ammissibile alcuna statuizione sulle spese processuali ex art. 91 c.p.c, trattandosi per l'appunto di un procedimento avente natura meramente amministrativa ed, in quanto tale, mancante di una parte soccombente in senso proprio (cfr. da ultimo, Cass. civ. 14 settembre 2023, n. 25566; sulla stessa scia, ex multis Cass. civ. 22 giugno 2020, n. 12184; Cass. civ. 6 novembre 2019, n. 28610; Cass. civ. 19 marzo 2018, n. 6701; Cass. civ. 18 novembre 2016, n. 23578; Cass. civ. 17 settembre 2013, n. 21213).

In altri termini, nel procedimento di cui all'art. 287 c.p.c. - correzione degli errori materiali – alla stregua della lettera della norma, non sarebbe ammessa, in ogni caso, alcuna pronuncia in ordine alle spese giudiziali, in quanto, trattandosi di procedimento in camera di consiglio, in materia di “giurisdizione volontaria”, mancherebbe un provvedimento conclusivo di un procedimento contenzioso suscettibile di determinare una posizione di soccombenza.

In altre parole, in tale procedimento, alla luce del combinato disposto degli artt. 287 e 391-bis c.p.c, la natura ordinatoria e sostanzialmente amministrativa del provvedimento di accoglimento o di rigetto dell'istanza di correzione non consentirebbe di riconoscere la presenza dei presupposti richiesti dall'art. 91 c.p.c. che pongono riferimento, per una pronuncia di condanna, ad un procedimento contenzioso idoneo a determinare una posizione di soccombenza. Addirittura, la giurisprudenza, conformemente, ritiene che in sede di procedura di correzione dell'errore materiale, la modifica della statuizione sulle spese legali, quale conseguenza della correzione della decisione principale cui detta statuizione accede, sia ammissibile, in quanto coerente con i principi di celerità e di ragionevole durata che informano il processo (Cass. civ., ord., 20 maggio 2021, n. 13854).

Per la decisione in commento, però, l'orientamento tradizionale, che non ammette alcuna statuizione sulle spese processuali ex art. 91 c.p.c. nel procedimento di correzione di errore materiale, neppure qualora la parte non ricorrente si costituisca in giudizio resistendo all'istanza, parrebbe tuttavia superabile proprio alla luce dell'evoluzione della riflessione dottrinale e dell'elaborazione giurisprudenziale sulla giurisdizione volontaria e sui rapporti con la giurisdizione contenziosa.

Anzitutto, non sembrerebbe condivisibile la perdurante qualificazione del procedimento di correzione degli errori materiali come attività meramente “amministrativa” (quindi, “non giurisdizionale”). Ciò anche alla luce di numerose pronunce che ampliano l'ambito di operatività del rimedio in esame, prevedendo la possibilità di far ricorso a tale procedimento, non soltanto per ovviare ad un difetto immediatamente evincibile di corrispondenza tra l'ideazione del giudice e la sua materiale estrinsecazione, «ma anche in funzione integrativa, in ragione della necessità di introdurre nel provvedimento una statuizione obbligatoria conseguenziale a contenuto determinato, ossia una statuizione obbligatoria di carattere accessorio, anche se a contenuto discrezionale» (cfr. Cass. civ., ord., 14 febbraio 2019, n. 4319).

A ben vedere, il carattere strettamente amministrativo del procedimento trovava il suo fondamento teorico nella tradizionale concezione che all'attività giurisdizionale in senso stretto o contenziosa dovesse contrapporsi quell'attività, pur devoluta ad organi giurisdizionali, ma priva di un contrasto di interessi tra le parti per non avere quale suo oggetto un vero e proprio diritto soggettivo. 

Oggi, tuttavia, tale classica distinzione ha perduto la sua importanza, sia sotto il profilo teorico, sia sotto il profilo dei concreti risvolti applicativi.

In secondo luogo, ad avviso del S.C., neppure pare condivisibile il rilievo secondo cui l'inquadramento del procedimento in questione come procedimento in camera di consiglio in materia di giurisdizione volontaria implicherebbe la mancanza dei presupposti richiesti dall'art. 91 c.p.c., ai fini della statuizione sulle spese, giacché, al contrario, «né la funzione volontaria del procedimento, né la sua struttura camerale, possono dirsi incompatibili con la presenza di un reale contrasto di interessi tra le parti in conflitto, che, in quanto tale – realizzatosi attraverso la costituzione della parte non ricorrente e la sua resistenza all'istanza - deve essere composto nel pieno ed indefettibile rispetto del principio del contraddittorio».

Invero, l'art. 91 c.p.c. intende senz'altro riferirsi, per consolidata giurisprudenza, a qualsiasi provvedimento che, nel risolvere contrapposte pretese, definisce il procedimento, e ciò indipendentemente dalla natura e dal rito del procedimento medesimo, con la conseguenza che non può escludersi l'applicazione di siffatta norma anche nei provvedimenti di natura camerale non contenziosa (cfr. Cass. civ. 26 giugno 2006, n. 14742).

D'altronde, ad avviso del S.C., ai fini del regolamento delle spese del processo civile, infatti, la “soccombenza” costituisce applicazione del principio di causalità, nel senso che la condanna alle spese non avviene a titolo di risarcimento danni – non essendo il comportamento del soccombente assolutamente illecito, ma semplice esercizio di un proprio diritto – ma è conseguenza obiettiva della soccombenza. Proprio alla luce di ciò, sembrerebbe potersi applicare, anche al caso di specie, il principio consolidato secondo cui la pronuncia di condanna alle spese del giudizio, in quanto conseguenziale ed accessoria, può essere legittimamente emessa dal giudice a carico del soccombente anche d'ufficio, in mancanza di una esplicita richiesta del litigante risultato vittorioso.

Proprio sulla scia di tali riflessioni, pare trovare terreno fertile il principio sancito da una isolata pronuncia della Corte – che si contrappone all'orientamento tradizionale di cui sopra – secondo cui, al principio generale in virtù del quale il procedimento di correzione degli errori materiali non dà luogo alla liquidazione delle spese, in mancanza di una parte soccombente in senso proprio, fa eccezione l'ipotesi in cui questa opponga resistenza all'istanza e, dunque, si ponga, al contrario, quale parte soccombente in senso tecnico (Cass. civ. 5 luglio 2019, n. 18221).

Secondo tale pronuncia, l'orientamento tradizionale – alla stregua del quale il procedimento di correzione degli errori materiali non dà luogo alla liquidazione delle spese – troverebbe pieno fondamento limitatamente all'ipotesi in cui la parte non ricorrente non si costituisca in giudizio o, seppur costituendosi, non sollevi alcun'opposizione all'istanza di correzione. Invero, solo in questo caso non si determinerebbe alcuna controversia tra le parti e, pertanto, all'esito della statuizione del giudice, quale essa sia, non sarebbero distinguibili la parte vittoriosa e la parte soccombente.

Al contrario, nella diversa ipotesi in cui la parte non ricorrente si costituisca, resistendo all'istanza di correzione, così contrapponendo il proprio interesse a quello proprio della parte ricorrente, non potrebbe assolutamente ritenersi che il procedimento resti “non contenzioso”, poiché tra le parti si determinerebbe il sorgere di una controversia circa la sussistenza o meno dei presupposti dell'invocata correzione e, in seguito alla statuizione del giudice, si configurerebbe, senz'altro, una parte vittoriosa ed una parte soccombente in senso proprio. 

Non sembra, altresì, ipotizzabile che la configurabilità di una soccombenza in senso tecnico resti esclusa per il sol fatto che, con l'istanza di correzione, la parte non agisca in giudizio a tutela di un proprio diritto soggettivo sostanziale, ma ponga in essere un mero atto di impulso, affinché il giudice eserciti il potere - dovere di correzione. Difatti, la circostanza che l'accertamento giudiziale non abbia per oggetto il dovere del giudice di provvedere su un diritto soggettivo sostanziale della parte non sembrerebbe escludere affatto la possibilità che le parti in conflitto siano a loro volta portatrici di interessi privati confliggenti, che trovano il loro soddisfacimento o sacrificio mediante il provvedimento giudiziale nella misura in cui vengano, o meno, a coincidere con l'interesse superiore da esso attuato, così determinando, senz'altro, una situazione di soccombenza in senso tecnico, che giustificherebbe l'operatività della regola di cui all'art. 91 c.p.c., e dunque l'obbligo del giudice di provvedere sulle spese, in ossequio alla ratio della disposizione stessa.

Pertanto, in questa peculiare ipotesi il mancato regolamento delle spese a norma dell'art. 91 c.p.c., ossia l'omessa liquidazione delle spese processuali, non integrerebbe una mera omissione emendabile con la procedura di correzione dell'errore materiale, perché la pronuncia non sarebbe affetta da una mera mancanza di documentazione della volontà del giudice, comunque implicitamente desumibile, ma dalla mancanza di un giudizio sull'attività difensiva svolta dalla parte vittoriosa, con la conseguenza che la relativa omissione integrerebbe un vizio di omessa pronuncia, riparabile soltanto con l'impugnazione.

Proprio sulla questione di non semplice soluzione, ma di fondamentale importanza pratica - circa l'ammissibilità dell'istanza di correzione di errore materiale di una sentenza, se nel provvedimento il Giudice ometta di decidere in merito alle spese legali del giudizio presupposto e sulla possibilità o meno di impugnare il provvedimento di rigetto dell'istanza di correzione - è tornata a pronunciarsi la Corte di Cassazione. La Suprema Corte, con la sentenza 21 giugno 2023, n. 17836, ha sancito che, a fronte della mancata liquidazione delle spese nel dispositivo della sentenza, sebbene in parte motiva il giudice abbia espresso la propria volontà di porle a carico della parte soccombente, la parte interessata è legittimata a far ricorso alla procedura di correzione degli errori materiali per ottenerne la quantificazione; «il mancato regolamento delle spese di un procedimento contenzioso da parte del giudice che avrebbe dovuto provvedervi, in sentenza o in altro provvedimento decisorio emesso a definizione del procedimento, integra un vizio di omessa pronunzia riparabile solo con l'impugnazione, solamente quando il giudice non abbia statuito sulle spese nemmeno in parte motiva». In altri termini: se dalla motivazione del provvedimento emerge la statuizione sulle spese, omessa in dispositivo, si potrà procedere alla correzione dell'errore materiale; se nulla dice anche la motivazione, bisognerà censurare la decisione per omessa pronuncia.

Riferimenti 

Balena, Istituzioni di Diritto Processuale Civile, II, Bari, 2019;

Mandrioli-Carratta, Diritto Processuale Civile, II, Torino, 2023;

Lupano, Responsabilità per le spese e condotte delle parti, Torino, 2013;

Giordano, Spese del processo, Milano, 2012;

D'Apollo, Le Spese Processuali, Milano, 2011.

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