La rilevanza della sentenza di assoluzione penale nel procedimento di prevenzione

Ferdinando Brizzi
02 Novembre 2023

Con questa pronuncia, la Corte di cassazione riafferma un'autonomia “limitata” del procedimento di prevenzione rispetto a quello penale.

Massima

Il giudice della prevenzione deve esaminare la sentenza assolutoria del giudice penale, con specifico riferimento alla parte illustrativa delle ragioni per le quali gli elementi di fatto valorizzati dalla Pubblica accusa non sono stati ritenuti sufficienti a dimostrare la sussistenza del reato associativo originariamente contestato e del connesso metodo mafioso; tale analisi, peraltro, non deve essere concentrata sulla sola persona del proposto, ma deve estendersi alle interrelazioni tra la sua posizione con quella dei sodali assolti. Solo in esito a tale indispensabile ragionato confronto con la motivazione assolutoria del giudice penale, il giudice della prevenzione può, eventualmente, affermare che "i medesimi fatti storici" posti a sostegno delle due pronunce non sono "in contrasto tra loro" e che, insufficienti a dimostrare l'intraneità al sodalizio investigato, possono apprezzarsi come sufficienti a comprovare l'appartenenza a quello stesso sodalizio, e non soltanto la contiguità o vicinanza.

Il caso

Con decreto del 14/09/2022, la Corte di appello di Milano confermava il provvedimento del 25 giugno 2020, con il quale il Tribunale di Milano, Sezione autonoma Misure di Prevenzione, aveva rigettato l'istanza presentata dagli eredi del proposto, volta ad ottenere la revoca della confisca di prevenzione avente ad oggetto due appezzamenti di terreno, confiscati in forza di decreto emesso dal Tribunale di Milano, Sezione autonoma Misure di Prevenzione, in data 26 ottobre 2001, divenuto definitivo il 15 marzo 2005.

Nell'istanza di revoca, avanzata, ratione temporis, ai sensi dell'art. 7 l. n. 1423/1956, , i due eredi avevano addotto, quale "fatto nuovo" determinante l'invalidità genetica della confisca la sentenza pronunciata il 22 dicembre 2016, in sede di rinvio, dalla Corte di appello di Milano (irrevocabile il 6 febbraio 2007), con la quale gli imputati erano stati assolti dal reato di cui all'art. 416-bis c.p., contestato "almeno dal 1994 (in sentenza dal 1995) e fino al 1997", perché il fatto non sussiste.

Ad avviso degli interessati, ancorché in presenza di conferma della condanna per la diversa associazione finalizzata al narcotraffico (contestata dalla fine del 1995 al marzo 1998), l'assoluzione per insussistenza del fatto associativo mafioso avrebbe fatto venir meno la connessione "eziologica e temporale" del reato rispetto alla data di acquisto dei beni in questione, riferita, al 1979.

La Corte di merito, in sintonia con la valutazione del Tribunale, negava che il metro di valutazione della pericolosità sociale del prevenuto potesse dirsi mutato in forza della sentenza di assoluzione, che, tra l'altro, per il proposto era stata preceduta dalla dichiarazione di non doversi precedere per morte dell'imputato, né aveva ritenuto che questa assoluzione avesse avuto conseguenza sulla ragionevolezza temporale dell'ablazione, pur tenendo conto che gli acquisiti del defunto si erano perfezionati nel 1979.

La questione

I citati eredi hanno proposto ricorso per cassazione, deducendo la violazione dell'art. 7 l. n. 1423/1956 e dell'art. 2-ter l. n. 575/1965, tenuto conto del paradigma legale di cui agli artt. 4 e 16 d.lgs. n. 159/2011.

In estrema sintesi, è stato contestato, nel ricorso, che, all'esito dell'assoluzione del proposto dalla imputazione associativa mafiosa, la Corte di merito potesse ritenere corretta la considerazione della persistente pericolosità sociale "esistenziale" del de cuius sulla scorta del concetto di appartenenza.

E, in ogni caso, è stato ritenuto eccentrico che si sia considerata ancora in termini di ragionevolezza temporale l'evenienza di una presunzione di pericolosità estesa, pur dopo l'assoluzione, al periodo, assai risalente, in cui erano avvenuti gli acquisti immobiliari.

Il Procuratore generale presso la Corte di cassazione, nella sua requisitoria scritta, ha concluso per la declaratoria di inammissibilità del ricorso.

Le soluzioni giuridiche

Il ricorso, tuttavia, è stato ritenuto fondato, anche se per ragioni, in parte, diverse da quelle dedotte dai ricorrenti.

I supremi giudici, premesso che nel procedimento di prevenzione, secondo il disposto dell'art. 4 l. n. 1423/1956, richiamato dall'art. 3-ter, comma 2 l. n. 575/1965, (disposizioni confermate dall'art. 10, comma 3 d.lgs. n. 159/2011), il ricorso per cassazione è ammesso soltanto per violazione di legge, essendo quindi, esclusa dal novero dei vizi deducibili in sede di legittimità l'ipotesi dell'illogicità manifesta di cui all'art. 606 c.p.p., lett. e), con riferimento ai temi d'interesse, hanno rammentato, in linea generale, che, attesa l'autonomia tra processo penale e procedimento di prevenzione, il giudice può utilizzare elementi probatori e indiziari tratti dai procedimenti penali e procedere ad una nuova ed autonoma valutazione dei fatti ivi accertati, al fine di giungere ad un'affermazione di pericolosità generica o qualificata del proposto ex art. 4 d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, purché dia atto in motivazione delle ragioni per cui essi siano da ritenere sintomatici della attuale pericolosità del proposto medesimo (tra le più recenti, Cass. pen., sez. II, n. 15704/2023, Ruffini, Rv. 284488; v. anche Cass. pen., sez. un., n. 18/1997, Pisco, Rv. 210042).

Proprio in virtù dell'autonomia tra i due procedimenti, è stato affermato che l'assoluzione, in sede penale, dal reato di associazione per delinquere di stampo mafioso non preclude un'autonoma valutazione, da parte del giudice della prevenzione, dei profili di pericolosità soggettiva del proposto, ove risulti adeguatamente motivata in fatto la permanenza dell'inquadramento del soggetto in una delle categorie tipizzate di cui al d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, artt. 1 e 4 (Cass. pen., sez. II, n. 23813/2020, Greco, Rv. 279805; Cass. pen., sez. I, n. 24707/2018, Oliveri, Rv. 273361).

È stato precisato, in argomento, che la misura ablatoria può essere revocata solo ed esclusivamente se il processo penale abbia accertato, nel merito, l'assoluta estraneità del proposto ai fatti reato sulla base dei quali, essendo stato ritenuto pericoloso, era stata ordinata la confisca (Cass. pen., sez. II, n. 31549/2019, Simply Soc. Coop., Rv. 277225).

Quanto al concetto di "appartenenza" ad una associazione mafiosa, rilevante per l'applicazione delle misure di prevenzione, Sez. U, "Gattuso" (Cass. pen., sez. un., n. 111/2017, dep. 2018, Rv. 271512) insegna che in esso va ricompresa la condotta che, sebbene non riconducibile alla "partecipazione", si sostanzia in un'azione, anche isolata, funzionale agli scopi associativi, con esclusione delle situazioni di mera contiguità o di vicinanza al gruppo criminale. Con la medesima decisione, si è statuito che anche nei confronti di indiziati di appartenere ad associazioni di tipo mafioso è necessario accertare il requisito della "attualità" della pericolosità del proposto (in motivazione la Corte ha precisato che solo nel caso in cui sussistano elementi sintomatici di una "partecipazione" del proposto al sodalizio mafioso, è possibile applicare la presunzione semplice relativa alla stabilità del vincolo associativo, purché la sua validità sia verificata alla luce degli specifici elementi di fatto desumibili dal caso concreto e la stessa non sia posta quale unico fondamento dell'accertamento di attualità della pericolosità).

Dopo questa ricognizione giurisprudenziale, la sentenza in commento ricorda che la pericolosità sociale, oltre ad essere presupposto ineludibile della confisca di prevenzione, è anche "misura temporale" del suo ambito applicativo; ne consegue che, con riferimento alla c.d. pericolosità generica, sono suscettibili di ablazione soltanto i beni acquistati nell'arco di tempo in cui si è manifestata la pericolosità sociale, mentre, con riferimento alla c.d. pericolosità qualificata, il giudice dovrà accertare se questa investa, come ordinariamente accade, l'intero percorso esistenziale del proposto, o se sia individuabile un momento iniziale ed un termine finale della pericolosità sociale, al fine di stabilire se siano suscettibili di ablazione tutti i beni riconducibili al proposto ovvero soltanto quelli ricadenti nel periodo temporale individuato (Cass. pen., sez. un., n. 4880/2014, dep. 2/2/2015, Spinelli ed altro, Rv. 262605).

Tanto premesso, i supremi giudici hanno ritenuto che la Corte di appello di Milano, pur avendo operato corretto richiamo ai principi che, in astratto, governano la materia sottoposta al loro vaglio, non ne abbiamo fatto, poi, esatta applicazione al caso di specie, nelle sue connotazioni concrete, pervenendo, conclusivamente, a una decisione deprivata di un segmento argomentativo decisivo conseguente ad un errore metodologico di approccio.

È stato rilevato, invero, che a pag. 12 del provvedimento, nel concludere sul punto della confermata pericolosità sociale del proposto, la Corte territoriale ha affermato, "in virtù della totale autonomia dei procedimenti in questione", che «la pronuncia assolutoria e irrevocabile della Corte d'appello non ha ribaltato, né tantomeno destrutturato, il giudizio di pericolosità svolto dal giudice della prevenzione nel decreto di confisca. Infatti, entrambe le pronunce si sono fondate sui medesimi fatti storici che, analizzati nella loro oggettività, non sono in contrasto tra loro. Pertanto, gli indizi sorti dall'analisi e dalla valutazione di tali fatti storici lasciano permanere in capo all'originario proposto una pericolosità sociale qualificata ai sensi dell'art. 4, lett. a) d.lgs. n. 159/2011, con riferimento al delitto di cui all'art. 416-bis c.p.».

Tale passaggio argomentativo, cruciale nell'economia complessiva della motivazione, sottende, in primo luogo, una interpretazione del principio di autonomia dei procedimenti di tipo "assolutista", nel senso, cioè, propugnatore di una sua applicazione anche nei casi, come quello di specie, in cui, come ammesso dalla stessa Corte decidente, "entrambe le pronunce si sono fondate sui medesimi fatti storici".

Trattasi, tuttavia, ad avviso della Cassazione, di assunto inconciliabile con l'insegnamento della giurisprudenza di legittimità, alla luce del quale la revoca della confisca di prevenzione (oggi revocazione d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, ex art. 28, lett. b)) non consegue automaticamente all'intervenuta assoluzione, con sentenza definitiva, del proposto da una delle imputazioni a suo carico, salvo che il fatto escluso in sede penale sia esattamente lo stesso posto a fondamento del giudizio di pericolosità (Cass. pen., sez.II, n. 15650/2019, Husovic, Rv. 275778).

In un caso peculiare come quello all'esame della Cassazione, caratterizzato dall'assoluzione in sede penale dei coimputati del proposto dall'accusa di partecipazione ad associazione per delinquere di stampo mafioso e dalla esclusione della circostanza aggravante di cui all'art. 416-bis.1 c.p., nella sua declinazione del metodo mafioso, la Corte di merito, prima di poter eventualmente pervenire ad un giudizio di conferma della pericolosità sociale qualificata del proposto, in funzione della confisca, avrebbe dovuto confrontarsi, in modo adeguato, con il novum allegato dai richiedenti la revoca della misura patrimoniale, costituito, appunto dalla sentenza di assoluzione in sede penale di cui si è detto.

Il giudice della prevenzione avrebbe dovuto esaminare la sentenza assolutoria del giudice penale, con specifico riferimento alla parte illustrativa delle ragioni per le quali gli elementi di fatto valorizzati dalla Pubblica accusa non erano stati ritenuti sufficienti a dimostrare la sussistenza del reato associativo originariamente contestato e del connesso metodo mafioso; tale analisi, peraltro, non avrebbe dovuto essere concentrata come ha fatto la Corte di appello sulla  sola persona del proposto, ma avrebbe dovuto estendersi alle interrelazioni tra la sua posizione con quella dei sodali assolti.

Solo in esito a tale indispensabile ragionato confronto con la motivazione assolutoria del giudice penale, il giudice della prevenzione avrebbe potuto, eventualmente, affermare che "i medesimi fatti storici" posti a sostegno delle due pronunce non fossero "in contrasto tra loro" e che, insufficienti a dimostrare l'intraneità al sodalizio investigato, potessero apprezzarsi come sufficienti a comprovare l'appartenenza a quello stesso sodalizio, e non soltanto la contiguità o vicinanza.

L'affermazione conclusiva di "non contrasto" fra gli stessi fatti storici posti alla base delle due pronunce, penale e di prevenzione, pertanto, è stata ritenuta dai giudici della Cassazione un'affermazione "apparente", perché carente dell'indispensabile, e logicamente antecedente, sviluppo argomentativo che avrebbe dovuto giustificarla, previo confronto con le ragioni della sentenza assolutoria.

Tali lacune motivazionali hanno imposto l'annullamento del decreto impugnato, con rinvio per nuovo giudizio alla Corte di appello di Milano, che «dovrà procedere, di nuovo, alla valutazione della eventualmente persistente (anche dopo la pronuncia assolutoria in sede penale) pericolosità sociale, qualificata o meno, di [proposto], in funzione della confisca dei beni di cui si chiede la revoca, valutazione che dovrà essere operata secondo la metodologia indicata e, all'esito della quale, in caso di ritenuta conferma della pericolosità, dovrà affrontarsi il successivo tema, oggi da considerarsi assorbito, della correlazione temporale della pericolosità medesima in coincidenza con la data dell'acquisto dei beni confiscati».

Osservazioni

La sentenza in commento è stata depositata all'indomani del provvedimento interlocutorio CEDU, 28 luglio 2023, ric. n. 29614/16, Cavallotti c. Italia: la vicenda processuale che dovrà essere oggetto di successiva valutazione ha visto infatti, al contempo, l'assoluzione dei ricorrenti principali dall'accusa di partecipazione ad associazione mafiosa e la contestuale confisca di parte considerevole del loro patrimonio (e di quello dei loro familiari) sulla base dei una loro ritenuta pericolosità qualificata (derivante nel caso di specie proprio dal sospetto di appartenenza all'associazione stessa), oltre che della mancata prova dell'origine lecita dei beni in questione.

Dopo aver in tal modo descritto i tratti essenziali della vicenda, la Corte ha pertanto invitato le parti ad esprimersi compiutamente sulle possibili violazioni della Convenzione da essa emergenti. Il primo profilo richiamato attiene pertanto all'eventuale violazione della presunzione di innocenza (articolo 6 § 2 della Convenzione), rispetto alla quale ci si chiede appunto se l'intervenuta confisca abbia avuto come suo effettivo presupposto la colpevolezza dei ricorrenti (ovverosia la loro ritenuta appartenenza all'associazione mafiosa).

La Corte ha invitato le parti a dedurre anche in merito all'effettiva qualificazione della stessa come sanzione penale (criminal “penalty” or “punishment”) in considerazione della giurisprudenza europea consolidatasi sul punto, adombrando in tal senso la possibile violazione dell'articolo 7 della Convenzione alla luce dell'avvenuta assoluzione dei Cavallotti dall'accusa di partecipazione ad associazione mafiosa e del conseguente ricorso ad un provvedimento di confisca pur in assenza di una loro effettiva responsabilità.

Il provvedimento in esame si è altresì soffermato con particolare attenzione sulla possibile violazione del diritto di proprietà, così come riconosciuto dall'articolo 1 del protocollo n.1 della Convenzione 1 Protocollo 1 della Convenzione in forza del quale “nessuno può essere privato della sua proprietà se non per causa di pubblica utilità e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale”: la Corte EDU sottolinea con estrema chiarezza che una simile interferenza nel libero godimento dei beni sino a quel momento detenuti (“peaceful enjoyment of possessions”) deve comunque risultare necessaria e proporzionata (“necessary and proportionate”), ed ha invitato conseguentemente le parti ad approfondire una serie di aspetti, quali in particolare:

a) la dubbia ragionevolezza di un giudizio di pericolosità qualificata a fronte della già avvenuta assoluzione dei ricorrenti da analoga imputazione;

b) la concorrente necessità di ricondurre la titolarità di tutti i beni confiscati proprio ai ricorrenti principali, piuttosto che ai loro effettivi intestatari, sulla base di una valutazione oggettiva delle risultanze probatorie e non in forza di un mero sospetto;

c) l'esigenza che la provenienza illecita di detti beni risulti a sua volta dimostrata sempre sulla base di una valutazione oggettiva delle risultanze probatorie e non in forza di un mero sospetto, tenendo in debito conto anche il momento in cui i ricorrenti li hanno acquisiti;

d) l'eccessivo onere probatorio posto eventualmente a carico dei ricorrenti in relazione alla richiesta di dimostrare la legittima provenienza di beni da loro acquisiti molti anni prima;

e) l'effettiva possibilità offerta ai medesimi in giudizio di esporre argomentazioni a loro difesa e la concreta disamina delle stesse.

Proprio per tale motivo non può che salutarsi favorevolmente questa ennesima pronuncia della Cassazione che riafferma un'autonomia “limitata” del procedimento di prevenzione rispetto a quello penale, diversamente da quanto troppo frequentemente opinato dai giudici di merito con motivazioni in questo caso ritenute “inesistenti”, quasi che nel giudizio preventivo sia consentita un'indebita “revisione” degli esiti raggiunti nel ben più garantito giudizio di cognizione penale: non a caso nella sentenza si censura con chiare parole la visione definita “assolutista” dell'autonomia cui ha fatto ricorso il giudice di merito.

In realtà, nessuna norma di diritto positivo autorizza una lettura tanto dilatata dell'autonomia, trattandosi per di più di una nozione di chiara matrice pretoria. A ben vedere, il legislatore, nel porre all'art. 29 d.lgs. n. 159/2011, il principio dell'indipendenza dell'azione di prevenzione rispetto a quello penale, non pare in alcun modo aver posto l'autonomia del procedimento di prevenzione rispetto a quello penale in termini di revisione “di fatto” del secondo rispetto al primo, come pare abbiano opinato i giudici di Milano: l'indipendenza ivi menzionata evoca senza dubbio l'idea della mancanza di pregiudizialità all'avvio del procedimento di prevenzione derivante dal mancato esercizio dell'azione penale.

Nulla di più.

Anzi è vero piuttosto il contrario: quando il legislatore ha inteso parlare di autonomia un di giudizio rispetto ad un altro lo ha fatto espressamente.

Sia sufficiente il rimando all'art. 8 d.lgs. 231/2011, non a caso, espressamente intitolato: autonomia della responsabilità dell'ente. E il legislatore dettaglia tale autonomia in quanto la responsabilità dell'ente sussiste in due espressi casi: anche quando l'autore del reato non è stato identificato o non è imputabile, nonché quando il reato si estingue per una causa diversa dall'amnistia. 

In questo caso è stato dunque il legislatore, non solo ad aver posto il principio dell'autonomia della responsabilità dell'ente rispetto a quella della persona fisica che agisca nell'interesse o per conto dell'ente, ma anche ad averne delimitato i confini.

Ed infatti la giurisprudenza formatasi sull'art. 8 d.lgs. 231/2001, per legittimare le proprie decisioni, non deve far ricorso, come avviene in ambito di prevenzione, a massime tralaticie sfornite, come detto, di qualsivoglia appiglio normativo, ma fonda le proprie decisioni proprio sul chiaro tenore letterale della norma di cui all'art. 8. Si veda da ultimo Cass. pen., sez. III, n. 27148/2023: «l'autonomia della responsabilità dell'ente rispetto a quella penale della persona fisica che ha commesso il reato-presupposto, prevista dall'art. 8, d.lgs. n. 8 giugno 2001, n. 231, deve essere intesa nel senso che, per affermare la responsabilità dell'ente, non è necessario il definitivo e completo accertamento della responsabilità penale individuale, ma è sufficiente un mero accertamento incidentale, purché risultino integrati i presupposti oggettivi e soggettivi di cui agli artt. 5, 6, 7 e 8 del medesimo decreto, tale autonomia operando anche nel campo processuale».

Dunque, l'autonomia pensata dal legislatore non è certamente declinata in termini di non consentita revisione degli esiti di un procedimento penale conclusosi con esito assolutorio per la persona fisica, essendo pur sempre richiesto un accertamento incidentale della responsabilità individuale.

Proprio la cd. “visione “assolutista” è destinata ad ulteriormente soccombere a seguito della riforma Cartabia che ha introdotto l'art. 578 ter c.p.p. nel dichiarato proposito di farsi carico della sorte dei beni in sequestro ed impedirne la reintroduzione nel circuito criminale. Al riguardo si legge nella Relazione su novità normativa. La “Riforma Cartabia”. Corte suprema di Cassazione, Ufficio del Massimario, Servizio penale, Rel.: n.2/2023 Roma, 5 gennaio 2023, che la norma di nuovo conio stabilisce la perdurante efficacia, nelle more del termine per l'attivazione del procedimento di prevenzione, della misura ablatoria, istituendo un collegamento tra procedimento penale e procedimento di prevenzione per effetto del quale il bene già confiscato potrà essere oggetto di misura di prevenzione patrimoniale ai sensi del d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159. Si determinerà, di conseguenza, il trasferimento del procedimento ad impulso di parte in sede di prevenzione, mediante ordinanza con la quale dovrà darsi conto delle ragioni che giustificano la trasmissione degli atti per l'emissione della misura di prevenzione. Si legge nel documento che, se, in astratto, si pone l'alternativa tra svolgimento di un'istruttoria ad hoc da parte dell'accusa (ai sensi dell'art. 19, d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159) e l'adozione della misura sulla base del contenuto del fascicolo processuale della cognizione, sembra fondato ritenere che, di regola, il compendio istruttorio frutto dell'attività processuale di primo grado sarà idoneo a supportarne l'emissione, senza necessità, quindi, di compiere accertamenti ulteriori.

Appare dunque evidente che non solo non esiste alcun appiglio legislativo all'autonomia dell'azione di prevenzione rispetto a quella penale in termini di possibilità di revisione del giudizio penale da parte del giudice di prevenzione, ma vige la regola opposta.

Ed è proprio il Massimario della Cassazione che, nell'analizzare il novum normativo, parla espressamente di necessario collegamento tra procedimento penale e procedimento di prevenzione tanto che solo laddove il compendio istruttorio raccolto in sede penale sia completo sarà possibile trasporre l'azione ablatoria in sede di prevenzione.

Quindi nel nostro diritto positivo non solo non è consentita alcuna lettura “assolutista” dell'autonomia del procedimento di prevenzione rispetto a quello penale, come sostenuto nella sentenza in commento, ma, ammesso che di autonomia possa parlarsi, è pur sempre un'autonomia alquanto “limitata”.

Sotto questo profilo si rivelerà di estrema importanza il pronunciamento della CEDU sotto tutti i profili sopra evidenziati ed in particolare in riferimento alla possibile violazione della presunzione di innocenza.

Riferimenti

Francesco Compagna, CEDU, Misure di Prevenzione: was the interference necessary and proportionate?, 1 Agosto 2023, penaledp.it

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