Il fine di profitto del delitto di furto può avere anche natura non patrimoniale?

16 Novembre 2023

La sentenza in commento ha rilevato l'esistenza di contrapposti orientamenti in ordine alla nozione di profitto e ha, dunque, enunciato il principio di diritto risolvendo il contrasto esistente.

Massima

Nel delitto di furto, il fine di profitto che integra il dolo specifico del reato va inteso come qualunque vantaggio anche di natura non patrimoniale perseguito dall'autore.

Il caso

Con sentenza del 23 novembre 2020 la Corte di Appello di Palermo confermava la decisione di primo grado, la quale aveva condannato l'imputato per il delitto previsto dall'art. 624-bis c.p. (furto con strappo) per aver strappato di mano il telefono cellulare ad una donna; tale gesto era da ricondurre ad un movente di ritorsione e di dispetto, dopo che quest'ultima aveva chiamato i carabinieri, richiedendone l'intervento a seguito di un litigio con il suddetto.

Avverso tale Sentenza l'imputato proponeva ricorso per cassazione adducendo due motivi.

In particolare, lamentava erronea applicazione della legge penale, mancanza o illogicità della motivazione e travisamento della prova, rilevando che la Corte d'appello, aderendo ad un orientamento non pacifico, aveva ritenuto sussistente il dolo specifico di profitto richiesto dall'art. 624-bis c.p. nonostante l'agente non avesse conseguito un'utilità economico-patrimoniale, poiché aveva agito al solo scopo di impedire l'arrivo dei carabinieri e non solamente per una sorta di ritorsione nei confronti della persona offesa. Il ricorrente, da una parte sosteneva che solo una nozione di profitto circoscritta alla possibilità di fare uso della res in qualsiasi modo apprezzabile sotto il profilo dell'utilità economico-patrimoniale consente di soddisfare la funzione selettiva e garantistica della tipicità penale, per evitare di allargare a dismisura la sfera del furto; dall'altra, osservava che la condotta dell'imputato era volta ad impedire l'arrivo dei carabinieri e non era dettata soltanto da finalità ritorsive.

Poiché su tale questione risultava un contrasto interpretativo, con ordinanza n. 693 del 18 novembre 2022, la Quinta Sezione penale della Corte di cassazione, rimetteva il ricorso alle Sezioni Unite ai sensi dell'art. 618 c.p.p.

La Suprema Corte con la sentenza di cui si tratta, ha rigettato il ricorso, ritenendo infondato il primo motivo e inammissibile il secondo, e ha condannato il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

La questione

La questione presa in esame è la seguente: se il fine di profitto del reato di furto, caratterizzante il dolo specifico dello stesso, sia circoscritto alla volontà di trarre dalla sottrazione del bene una utilità di natura esclusivamente patrimoniale, ovvero possa consistere anche in un fine di natura non patrimoniale.

Le soluzioni giuridiche

La sentenza in commento ha rilevato l'esistenza di contrapposti orientamenti in ordine alla nozione di profitto, ha enunciato il principio di diritto risolvendo il contrasto esistente e, sulla base di questo, ha dichiarato infondato il ricorso proposto dall'imputato.

La Corte ha proceduto esaminando preliminarmente i diversi orientamenti espressi dalla giurisprudenza di legittimità.

Secondo un primo indirizzo interpretativo consolidato e maggioritario, la nozione di profitto è svincolata dalla natura economica del fine dell'agente potendo, così, contemplare anche un vantaggio non strettamente patrimoniale.

In tema di furto, essa va intesa in senso ampio, così da comprendervi non solo il vantaggio di natura puramente economica, ma anche quello di natura non patrimoniale, realizzabile con l'impossessamento della cosa mobile altrui commesso con coscienza e volontà in danno della persona offesa (Cass. pen., sez. II, n. 40631 del 09/10/2012 - Fattispecie nella quale è stato riconosciuto il fine di profitto in relazione alla sottrazione di un'agendina telefonica dalle mani della vittima, finalizzata ad impedire a quest'ultima di fare una telefonata; Cass. pen., sez. II, n. 9411/1978 - Risponde di furto l'agente che sottragga una cosa mobile altrui al solo fine di far dispetto al suo detentore). Pertanto, nel delitto di furto, il fine di profitto, che integra il dolo specifico del reato, può consistere in una qualsiasi utilità che si intenda ricavare dalla sottrazione della cosa o vantaggio di natura patrimoniale o non patrimoniale, essendo sufficiente che il soggetto attivo (a nulla giuridicamente rilevando la destinazione che egli dà alla cosa sottratta) abbia operato per il soddisfacimento di un qualsiasi interesse anche psichico, e quindi anche per dispetto, ritorsione, vendetta, soddisfazione, piacere o godimento (Cass. pen., sez. IV, n. 4144 del 06/10/2021, n. 13842 del 26/11/2019 e n. 30 del 18/09/2012; Cass. pen., sez. V, n. 11225 del 16/01/2019 e n. 19882 del 16/02/2012; Cass. pen., sez. II, n. 4471/1985, n. 9983/1983 e n. 7263/1976; Cass. pen., sez. I, n. 10432/1977). È dunque rilevante, ai fini dell'integrazione del dolo specifico, qualunque utilità o vantaggio perseguito dall'agente: il fine di profitto è da identificarsi con la soggettiva utilità perseguita dall'agente con l'appropriazione della cosa.

Diversamente, l'orientamento minoritario sostiene che, in tema di furto, il fine di profitto integrante il dolo specifico del reato deve essere interpretato in senso restrittivo, ossia come possibilità di fare uso della cosa sottratta in qualsiasi modo apprezzabile sotto il profilo dell'utilità intesa in senso economico-patrimoniale, laddove il contrario orientamento si presta alla critica di «trascurare il dato letterale e sistematico dell'inserimento del furto nei delitti contro il patrimonio, che costituisce il bene/interesse tutelato dalla norma» e di determinare «un'eccessiva espansione della nozione di profitto estesa fino a raggiungere qualsiasi utilità soggettivamente ritenuta apprezzabile, arrivando ad identificare lo scopo di lucro previsto nella fattispecie astratta con la generica volontà di tenere per sé la cosa», il che «può comportare, in definitiva, l'annullamento della previsione normativa, che implica la necessità del dolo specifico» (Cass. pen., sez. V, n. 25821/2019 - In applicazione del principio, la Corte ha ritenuto insussistente l'elemento soggettivo del reato in un caso nel quale l'imputato aveva asportato due fusibili dalla scatola di derivazione elettrica di una saracinesca del magazzino dell'azienda dove lavorava e svolgeva attività di rappresentante sindacale, al fine di consentire ai colleghi di uscir fuori per porre in essere atti di protesta contro il datore di lavoro; Cass. pen., sez. V, n. 30073/2018 - Nella fattispecie, la Corte non ha ritenuto integrato l'elemento soggettivo del reato di furto nella condotta dell'imputato che aveva sottratto la borsa alla persona offesa solo per finalità "di dispetto, di reazione o come modalità per mantenere il contatto con lei") e di incrementare la propria sfera patrimoniale, sia pure in funzione del perseguimento di ulteriori fini conseguibili (Cass. pen., sez. V, n. 26421/2022 - Fattispecie in cui la Corte ha annullato con rinvio la decisione gravata sul rilievo che non era emerso il dolo specifico, ma solo che la sottrazione alla persona offesa del telefono cellulare e degli occhiali era avvenuta per evitare la richiesta di intervento delle forze dell'ordine).

In analoga prospettiva, un'altra pronuncia della Suprema Corte (Cass. pen., sez. V, n. 40438/2019 - fattispecie in cui la Corte ha escluso potesse essere integrato il fine di profitto nella condotta degli imputati che, a soli fini dimostrativi, si erano appropriati di un rilevante numero di cani di razza per sottrarli al regime di segregazione di uno stabulario) ha affermato il principio di diritto secondo cui, in tema di furto, il fine di profitto deve essere interpretato in senso restrittivo, ossia come finalità di incrementare la sfera patrimoniale dell'agente, sia pure in vista dell'ulteriore obiettivo, perseguito in via mediata, di realizzare un bisogno umano anche solo meramente spirituale; tale pronuncia ha rimarcato come la ratio dell'incriminazione vada individuata non solo nella necessità di evitare "impoverimento altrui, ma anche nell'esigenza di scoraggiare l'arricchimento, o, comunque, l'avvantaggiarsi, dell'agente derivante dalla ruberia. Pertanto, l'onnicomprensiva nozione di profitto oggetto del dolo specifico del delitto di furto, che abbraccia indistintamente sia il vantaggio economico, sia l'utilità, materiale o spirituale, sia il piacere o soddisfazione che l'agente si procuri, direttamente o indirettamente, attraverso l'azione criminosa, tradisce la funzione selettiva e garantistica della tipicità penale, ampliando a dismisura la sfera del furto a discapito di quella del danneggiamento o estendendola a fatti non meritevoli di sanzione penale, pervenendo, in definitiva, ad un'interpretatio abrogans del detto elemento essenziale, degradato ad un profitto in re ipsa, coincidente con il movente dell'azione: movente che sempre esiste, non potendo concepirsi che un uomo agisca se non sospinto da un motivo»; di qui la conclusione che «allo scopo di preservare la funzione delimitatrice della tipicità, assegnata al dolo specifico, quale requisito di fattispecie, dalla teoria generale del reato, occorre che nel delitto di furto esso si identifichi nella finalità del soggetto agente di conseguire un incremento della propria sfera patrimoniale eventualmente anche per la capacità strumentale del bene di soddisfare un bisogno umano, materiale o spirituale, che si profila come fine ulteriore dell'azione».

Le Sezioni Unite hanno ritenuto di aderire al primo e maggioritario orientamento.

Nel motivare tale scelta, la Corte prende in esame il principio dell'interpretazione letterale che attribuisce alla norma il significato che si deduce dalle parole utilizzate ed enunciato dall'art. 12 preleggi, ovvero che nell'applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore; e il principio di determinatezza enunciato dall'art. 25 Cost., che impone espressamente al legislatore di formulare norme concettualmente precise sotto il profilo semantico della chiarezza e dell'intelligibilità dei termini impiegati e che, secondo la Corte costituzionale, assume una duplice direzione, perché non si limita a garantire, nei riguardi del giudice, la conformità alla legge dell'attività giurisdizionale mediante la produzione di regole adeguatamente definite per essere applicate, ma assicura a chiunque "una percezione sufficientemente chiara ed immediata" dei possibili profili di illiceità penale della propria condotta (Ord. n. 243/2018). Le Sezioni Unite osservano, inoltre, che, sempre secondo la Corte costituzionale, l'impiego, nella formula descrittiva dell'illecito, di espressioni sommarie, clausole generali o concetti "elastici", non comporta di per sé un vulnus del principio di determinatezza e tassatività della fattispecie incriminatrice, quando la descrizione complessiva del fatto incriminato consenta comunque al giudice - avuto riguardo alle finalità perseguite dall'incriminazione ed al più ampio contesto ordinamentale in cui essa si colloca - di esprimere un giudizio di corrispondenza della fattispecie concreta alla fattispecie astratta, sorretto da un fondamento ermeneutico controllabile; e, correlativamente, permetta al destinatario della norma di avere una percezione sufficientemente chiara ed immediata del relativo valore precettivo (Sent. n. 278/2019).

Basandosi su tali premesse, la Suprema Corte ha osservato:

  • che la scelta di circoscrivere la nozione di profitto all'ambito strettamente patrimoniale non può trovare fondamento in un significato univoco della parola "profitto" nel linguaggio comune, in quanto questa ricorre in espressioni prive di qualunque correlazione con la sfera del lucro economico, finendo per identificarsi, come attestato nei dizionari di lingua italiana, in un giovamento o vantaggio, sia fisico che intellettuale o morale o pratico; d'altro canto, deve constatarsi “l'assenza, nella ricostruzione dei tratti caratteristici dei delitti contro il patrimonio, di profili semantici univocamente riconducibili ad utilità suscettibili di diretto apprezzamento economico”, mentre deve riscontrarsi “una risalente tradizione che, nel quadro dell'interpretazione dell'ambito applicativo dei delitti contro il patrimonio, contrappone la nozione di profitto a quella di lucro”;
  • che anche la nozione di “patrimonio” comprende rapporti aventi ad oggetto cose prive di un valore puramente economico, così che “non si riesce ad intendere per quale ragione - e specularmente - la nozione di patrimonio debba essere circoscritta, quando venga in rilievo l'incremento perseguito dall'autore della condotta, ai soli vantaggi che quest'ultimo pretenda di trarre dallo scambio del bene sottratto per un controvalore economico”;
  • l'orientamento maggioritario non tradisce la funzione selettiva e garantistica della tipicità penale, in quanto “il profitto rilevante, quale connotato della specifica direzione della volontà che va a svolgere un'ulteriore funzione delimitatrice rispetto al mero profilo oggettivo della condotta di sottrazione e di impossessamento, è quello che, indipendentemente dalla sua idoneità ad essere apprezzato in termini monetari, viene tratto immediatamente dalla costituzione dell'autonoma signoria sulla res e non quello che può derivare attraverso ulteriori passaggi dall'illecito…il profitto discende dall'impossessamento quando si correla alla conservazione, all'uso…, al godimento o al compimento di un qualunque atto dispositivo”; pertanto, «chi distrugge, disperde, deteriora, rende in tutto o in parte inservibile un bene esercita senz'altro atti di dominio, ma ove questi siano fini a se stessi, il profitto che l'autore si ripromette discende da condotte che il legislatore tipizza rispetto ad altre fattispecie incriminatrice e non dal possesso della cosa»;
  • non sussiste la paventata confusione tra movente e dolo specifico, in quanto «la componente naturalistica attiene in entrambi alla direzione psicologica della volontà, laddove ciò che caratterizza il dolo specifico è la selezione normativa di alcune finalità, in vista degli obiettivi di politica legislativa sopra ricordati. Ne discende che il dolo specifico non è che un movente normativamente qualificato, che si colloca al di là della coscienza e volontà del fatto».

Così motivando, la Corte ha enunciato il seguente principio di diritto: «Nel delitto di furto, il fine di profitto che integra il dolo specifico del reato va inteso come qualunque vantaggio anche di natura non patrimoniale perseguito dall'autore».

Osservazioni

La soluzione interpretativa adottata dalle Sezioni Unite mantiene fermo un orientamento maggioritario tradizionale, contrastato solo in tempi recenti da alcune pronunce adottate all'interno di una stessa Sezione, che si pone in linea con una parte, anch'essa minoritaria, della dottrina (v. Fiandaca – Musco, Diritto penale, parte speciale). Deve, altresì, osservarsi che la scelta interpretativa di una nozione di “profitto” elaborata con riferimento allo specifico reato in discussione, è destinata ad avere conseguenze ben più vaste, dovendo, da un lato, garantirsi coerenza e uniformità nel sistema delle fattispecie penalmente rilevanti in materia di delitti contro il patrimonio, e, dall'altro lato, non potendosi ignorare, di fronte a condotte connotate da offensività in concreto, l'assenza di alternative sanzionatorie in caso di furto a “profitto non economico”. Le stesse Sezioni Unite, del resto, non mancano di porre in rilievo, dal punto di vista sistematico, che sussiste un «consolidato e indiscusso orientamento di questa Corte, quanto alla nozione di profitto rilevante ai fini della configurabilità di altri delitti contro il patrimonio»: e ciò a conferma della razionale correlazione del profitto con l'ampia nozione di patrimonio (in questo caso riguardato nella prospettiva dell'autore della condotta che si giova della sua azione). Si è così ritenuto che nel delitto di rapina il profitto può concretarsi in ogni utilità, anche solo morale, nonché in qualsiasi soddisfazione o godimento che l'agente si riprometta di ritrarre, anche non immediatamente, dalla propria azione, purché questa sia attuata impossessandosi con violenza o minaccia della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene (tra le più recenti, si vedano Cass. pen., sez. II, n. 23177/2019, Cass. pen., n. 11467/2015 e Cass. pen., n. 12800/2009). Le decisioni della Corte riaffermano senza divergenze, la tesi che il profitto di rapina non sia perimetrato dall'incremento patrimoniale, inteso quale incremento economicamente stimabile, dell'agente: non deve necessariamente concretarsi in un'utilità ‘materiale', ben potendo essere realizzato anche dal “vantaggio di natura morale o sentimentale che l'agente si riproponga di conseguire”. Sulla base di tali presupposti, sono state ritenute riconducibili al reato di rapina ex art. 628 c.p., ad esempio: la condotta del soggetto che aveva sottratto mediante violenza alla ex fidanzata il telefono cellulare, al fine di rivelare al padre della donna, la relazione sentimentale che questa aveva instaurato con un altro uomo (Cass. pen., sez. II, n. 11467/2015); quella della violenta sottrazione di una borsa all'ex fidanzata, con il fine perseguito di riprendere la cessata relazione di convivenza (Cass. pen., sez. II, n. 23177/2019); quella della sottrazione di un'arma ad una guardia giurata al solo fine di umiliare la vittima (Cass. pen., sez. II, n. 12800/2009); quella il cui fine era di ottenere un bacio in cambio della restituzione di un monile sottratto, integrandosi in questa ipotesi l'utilità, anche solo morale, che qualifica il dolo specifico del reato di rapina, distinguendolo da quello di violenza privata (Cass. pen., sez. II, n. 49265/2012); quella di violenta sottrazione di una pistola alla vittima, ufficiale di polizia giudiziaria, onde evitare di subire l'arresto da parte dello stesso (Cass. pen., sez. I, n. 10432/1977). Analizzando la giurisprudenza di legittimità, non risulta che vi sia mai stato il dubbio sul fatto che nel delitto di rapina, il profitto possa concretarsi in qualsiasi utilità, anche solo morale, o in qualsiasi soddisfazione o godimento che l'agente si riprometta di ritrarre, anche non immediatamente, dalla propria azione. Analogamente, per il reato di ricettazione è costante e pacifica l'affermazione della Corte secondo cui «il profitto, il cui conseguimento integra il dolo specifico del reato di ricettazione, può avere anche natura non patrimoniale» (Cass. pen., sez. II, n. 45071/2021 - fattispecie in tema di ricettazione di una tessera sanitaria, con riferimento alla quale la Corte ha osservato che essa, non associata alla fotografia del titolare, consente l'accesso alle molteplici prestazioni del servizio sanitario; Cass. pen., sez. II, n. 15680/2016 - fattispecie in tema di acquisto di farmaci anabolizzanti provento del delitto previsto dall'art. 9 della legge 14 dicembre 2000 n. 376, al fine di farne uso personale per la modifica della struttura muscolare).

Deve, pertanto, osservarsi che la tipizzazione di tali reati con riferimento al dolo specifico in relazione al profitto, non ha generato alcun contrasto nella giurisprudenza della Suprema Corte che ha da sempre operato, per lungo tempo e in modo costante, una scelta ermeneutica unitaria e coerente con riferimento alla nozione di profitto nelle diverse tipologie dei reati contro il patrimonio, con la conseguenza che la scelta dell'interpretazione restrittiva della nozione di profitto avrebbe imposto un'integrale reinterpretazione di tutte le fattispecie penali che hanno fra i loro requisiti, il dolo specifico di profitto.

D'altro canto, si deve rilevare che l'orientamento minoritario, pur fondato su argomentazioni suggestive, sente l'esigenza di affermare che nel delitto di furto il profitto si identifica nella “finalità del soggetto agente di conseguire un incremento della propria sfera patrimoniale eventualmente anche per la capacità strumentale del bene di soddisfare un bisogno umano, materiale o spirituale, che si profila come fine ulteriore dell'azione” (si veda Cass. pen., sez. V, n. 40438/2019; Cass. pen., sez. V, n. 26421/2022); in tal modo, però, si introduce nel discorso argomentativo, come esattamente rilevato dalle Sezioni Unite, “un'aporia che conduce a incerte soluzioni operative, proprio perché, per un verso, esclude la sussistenza del profitto in caso di vantaggi non patrimoniali (come l'avere agito per intento di vendetta, dileggio, disprezzo e così via) e, per altro verso, non riesce a spiegare quale utilità euristica assuma l'indicazione dei bisogni personali che l'impossessamento dovrebbe soddisfare”, pregiudicando la tenuta logica del discorso argomentativo.

Dunque, individuare il dolo specifico del delitto di furto nel fine di conseguire una specifica utilità della cosa, satisfattiva di un interesse del soggetto non necessariamente di tipo economico-patrimoniale, che l'autore del furto trae immediatamente dalla costituzione dell'autonoma signoria sulla res e non quella che può derivare attraverso ulteriori passaggi dall'illecito, da un lato soddisfa la funzione selettiva di tale elemento dell'illecito, dall'altro lato, non espelle dall'ambito del furto condotte offensive che sarebbe problematico ricondurre ad altre fattispecie penalmente rilevanti, quale ad esempio la violenza privata (art. 610 c.p.).

Del resto, le esemplificazioni di applicazione dell'orientamento maggioritario, accolto dalle Sezioni Unite, valgono a dimostrare quanto affermato.

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