Chance e perdita anticipata della vita: la Cassazione con la sentenza n. 26851/2023 fa il punto (ma i dubbi restano)

Daniela Zorzit
24 Novembre 2023

Il Focus mira ad approfondire alcune questioni oggetto della sentenza della Cass. n. 26851/2023 con specifico riferimento alla linea di confine tra “anticipata morte” e “perdita di chance di sopravvivenza”; l’analisi prende le mosse dai seguenti interrogativi: vi sono delle differenze rispetto a quanto affermava la Cassazione nella nota sentenza Cass. n. 5641/2018? La conferma della risarcibilità iure successionis della perdita della possibilità di vivere più a lungo crea qualche antinomia di sistema (rispetto al ripudio del danno tanatologico)? Qual è l’ambito di applicazione della perdita di chance? La Cassazione ne ha forse ridisegnato i confini?

Il quadro di riferimento

Con la sentenza n. 26851 del 19 settembre 2023 (per un ampio commento si vedano F. Martini e M. De Filippis,“Il danno da perdita anticipata della vita e il danno da perdita di chance di sopravvivenza” in questa Rivista), la Cassazione trae spunto da una vicenda relativa alla tardiva diagnosi di malattia tumorale per fissare alcuni punti fermi, attraverso una <<ricognizione delle possibili ipotesi, analoghe a quelle oggetto del caso di specie, che possa più agevolmente consentire una ricostruzione in fatto dei presupposti di una corretta liquidazione del danno da parte del giudice di merito>>.

Il primum movens delle presenti note è racchiuso nel passaggio centrale della decisione, paragrafo 4.5. lettere a, b, c, in cui la Corte traccia le coordinate che segnano il discrimen tra la chance e la perdita anticipata della vita:

<<a) nel caso di perdita anticipata della vita (una vita che sarebbe comunque stata perduta per effetto della malattia) sarà risarcibile il danno biologico differenziale (nelle sue due componenti, morale e relazionale: art. 138 nuovo testo c.a.p.), sulla base del criterio causale del "più probabile che non": l'evento morte della paziente, verificatasi in data X, si sarebbe verificata, in assenza dell'errore medico, dopo il tempo (certo) X+Y, dove Y rappresenta lo spazio temporale di vita non vissuta: il risarcimento sarà riconosciuto, con riferimento al tempo di vita effettivamente vissuto - e non a quello non vissuto, che rappresenterebbe un risarcimento del danno da morte (riconoscibile, viceversa, iure proprio, ai congiunti) stante l'irrisarcibilità del danno tanatologico - in tutti i suoi aspetti, morali e dinamico-relazionali, intesi tanto sotto il profilo della (eventuale) consapevolezza che una tempestiva diagnosi e una corretta terapia avrebbero consentito un prolungamento (temporalmente determinabile) della vita che va a spegnersi, quanto sotto quello della invalidità permanente "differenziale" (la differenza, cioè, tra le condizioni di malattia effettivamente sopportate e quelle, migliori, che sarebbero state consentite da una tempestiva diagnosi e da una corretta terapia);

b) il danno da perdita di chance di sopravvivenza sarà invece risarcito, equitativamente, volta che, da un lato, vi sia incertezza sull'efficienza causale della condotta illecita quoad mortem, ma, al contempo, vi sia certezza eziologica che la condotta colpevole abbia cagionato la perdita della possibilità di vivere più a lungo (possibilità non concretamente accertabile nel quantum né predicabile quale certezza nell'an, a differenza che nell'ipotesi sub a). La valutazione equitativa di tale risarcimento non sarà, dunque, parametrabile, sia pur con le eventuali decurtazioni, né ai valori tabellari previsti per la perdita della vita, né a quelli del danno biologico temporaneo;

c) il danno da perdita anticipata della vita e il danno da perdita di chance di sopravvivenza, di regola, non saranno né sovrapponibili né congiuntamente risarcibili, pur potendo eccezionalmente costituire oggetto di separata ed autonoma valutazione qualora l'accertamento si sia concluso nel senso dell'esistenza di un danno tanto da perdita anticipata della vita, quanto dalla possibilità di vivere ancora più a lungo, qualora questa possibilità non sia quantificabile temporalmente, ma risulti seria, concreta e apprezzabile, e sempre che entrambi i danni siano riconducibili eziologicamente (secondo i criteri rispettivamente precisati) alla condotta colpevole dell'agente>>.

Proviamo dunque a considerare le singole ipotesi, al fine di verificare se la costruzione proposta dalla Corte sia del tutto cristallina o se, per converso, presenti qualche ombra.

Ipotesi sub a): nessun risarcimento iure successionis per la perdita degli anni di vita

La prima situazione considerata (sub a) è quella di un “nesso pieno” tra condotta del sanitario ed evento. In altri termini: è certo (ossia “più probabile che non”, secondo la regola che vale in ambito civile vd. Cass. 16 ottobre 2007 n. 21619) che, se il sanitario fosse stato perito e diligente (avesse per es. correttamente refertato la lastra e quindi immediatamente rilevato la neoformazione), Tizia non sarebbe morta (poniamo) nel 2023, ma nel 2028 (il caso è quello di una malattia comunque letale, da cui cioè non si guarisce, rispetto alla quale però la diagnosi tempestiva avrebbe, in base alle statistiche per quel tipo di pazienti, consentito una sopravvivenza per es. di ulteriori cinque anni).

In tale evenienza – precisa la Corte – potranno essere liquidati: il danno biologico differenziale (id est: se le cure fossero state iniziate senza indugio, le condizioni di salute non si sarebbero aggravate, es. il carcinoma non sarebbe aumentato di volume e l'intervento chirurgico di rimozione sarebbe stato meno demolitivo), e quello morale, costituito anche dalle sofferenze correlate alla acquisizione della consapevolezza della anticipazione della propria morte.

La Cassazione sottolinea con enfasi che nella specie non vi sarà assolutamente spazio per un risarcimento iure successionis del pregiudizio rappresentato dalla perdita (nel caso, di cinque anni) di vita poiché, come noto, nell'attuale sistema della responsabilità civile il danno tanatologico non trova riconoscimento (Cass. SS. UU. 15350/2015).

Questa puntualizzazione assume, a parere di chi scrive, rilievo primario nell'economia della motivazione perché sembra “correggere il tiro” o comunque sgombrare il campo da un possibile equivoco, suggerito alla mente dell'interprete dalla famosa sentenza Cass. n. 5641/2018: in quella decisione la Suprema Corte, nel definire lo statuto della perdita di chance, aveva predisposto una sorta di mappa, individuando una serie di “casi tipo” ed enunciando, per ciascuno di essi, le regole applicative; tra questi vi era la lettera b) (par. 4), che qui si riporta integralmente (il corsivo è di chi scrive):

<<b)La condotta colpevole ha cagionato non la morte del paziente (che si sarebbe comunque verificata) bensì una significativa riduzione della durata della sua vita ed una peggiore qualità della stessa per tutta la sua minor durata. In tal caso il sanitario sarà chiamato a rispondere dell'evento di danno costituito dalla minor durata della vita e dalla sua peggiore qualità, senza che tale danno integri una fattispecie di perdita di chance   senza, cioè, che l'equivoco lessicale costituito dal sintagma “possibilità di una vita più lunga e di qualità migliore” incida sulla qualificazione dell'evento, caratterizzato non dalla “possibilità di un risultato migliore”, bensì dalla certezza (o rilevante probabilità) di aver vissuto meno a lungo, patendo maggiori sofferenze fisiche e spirituali>>.

Il caso è perfettamente sovrapponibile a quello considerato da Cass. 26851/2023 par. 4.5 lett. a) più sopra esaminato. Ma qui la Corte sembrava aver (ri)aperto le porte al danno tanatologico; a questo faceva pensare l'assunto secondo cui, ove la condotta del medico abbia causato la morte “anticipata”, "Il sanitario sarà chiamato a rispondere dell'evento di danno costituito dalla minor durata della vita e dalla sua peggior qualità".

L'inciso induceva a ritenere che il riferimento fosse a un danno da “minor durata della vita” che, al pari di quello costituito “dalla sua peggior qualità” (quest'ultimo sicuramente biologico), dovesse essere riconosciuto iure successionis, tanto più che, nel prosieguo del passaggio, la Cassazione spiegava che tale pregiudizio sarebbe <<caratterizzato dalla certezza (o rilevante probabilità) di aver vissuto meno a lungo>>. Dunque si profilava un diritto al risarcimento (per gli anni di vita persi) che matura(va) direttamente in capo al paziente e che si trasmette(va) agli eredi?

Il sospetto era rafforzato dal rilievo per cui doveva escludersi che il Collegio avesse inteso alludere alle poste spettanti iure proprio ai congiunti (per la prematura scomparsa del proprio caro), dato che questa evenienza risultava descritta con ben altra formulazione alla lettera a) (par. 4), laddove si precisava che (il corsivo è di chi scrive) se <<la condotta (commissiva o più spesso omissiva) colpevole tenuta dal sanitario ha cagionato la morte del paziente (..) in tal caso l'evento (..) sarà attribuibile al sanitario, chiamato a rispondere del danno biologico cagionato al paziente e del danno da lesione del rapporto parentale cagionato ai familiari>>.

Con la pronuncia qui in rassegna il Supremo Collegio fa dunque definitiva chiarezza, cancellando ogni dubbio e sottolineando in modo fermo e deciso che il dictum di Cass. SS. UU. 15350/2015 (e precedenti conformi) non è in discussione: se il medico ha cagionato l'anticipato exitus, il paziente non acquisirà né trasmetterà agli eredi alcun diritto al risarcimento per gli anni di vita persi (essendo il compendio limitato al cd. biologico differenziale per il tempo di effettiva sopravvivenza). Resta fermo, per altro verso, il danno iure proprio (per la perdita del congiunto) riconoscibile ai famigliari.

Su questo ultimo profilo Cass. 26851/2023 si sofferma con particolare enfasi, specificando altresí (corsivi e sottolineature nel testo originario) che: <<Esemplificando, causare la morte d'un ottantenne sano, che ha dinanzi a sè cinque anni di vita sperata, non diverge, ontologicamente, dal causare la morte d'un ventenne malato che, se correttamente curato, avrebbe avuto dinanzi a sè ancora cinque anni di vita.

L'unica differenza tra le due ipotesi sta nel fatto che, nel primo caso, la vittima muore prima del tempo che gli assegnava la statistica demografica, mentre, nel secondo caso, muore prima del tempo che gli assegnava la statistica e la scienza clinica: ma tale differenza non consente di pervenire ad una distinzione "morfologica" tra le due vicende, così da affermare la risarcibilità soltanto della seconda ipotesi di danno.

E' possibile, dunque, discorrere (risarcendolo) di "danno da perdita anticipata della vita", con riferimento al diritto iure proprio degli eredi, solo definendolo il pregiudizio da minor tempo vissuto ovvero da valore biologico relazionale residuo di cui non si è fruito, correlato al periodo di tempo effettivamente vissuto, secondo i parametri di cui si dirà (infra, sub 4.4. e ss.)>>.

Il rilievo è perfettamente lineare e la precisazione pare più che opportuna: non vi è dubbio che, nel caso sin qui considerato di “anticipata perdita della vita”, il medico ha causato la morte. Sussiste dunque il nesso tra condotta ed exitus perché, applicando il criterio della “condicio sine qua non”, si arriva alla seguente conclusione: se la condotta fosse stata perita, il decesso non si sarebbe verificato hic et nunc, ma cinque anni piú tardi (a titolo esemplificativo: Tizia, affetta da neoplasia, avrebbe certamente avuto altri cinque anni davanti a sé se la diagnosi fosse stata tempestiva e le cure fossero iniziate subito).

Sul punto si veda per es. Cass. Pen. Sez. IV, 16 novembre 2017, n. 7659, in “RischioSanità”, 17 maggio 2018: <<Sussiste il nesso di causalità tra l'omessa adozione, da parte del medico, di misure atte a rallentare o bloccare il decorso della patologia e il decesso del paziente, allorché risulti accertato secondo il principio di contro/fattualità, condotto sulla base di una generalizzata regola di esperienza o di una legge scientifica, universale o statistica, che la condotta doverosa avrebbe inciso positivamente sulla sopravvivenza del paziente, nel senso che l'evento non si sarebbe verificato ovvero si sarebbe verificato in epoca posteriore o con modalità migliorative, anche sotto il profilo dell'intensità della sintomatologia dolorosa>>.

Il fatto che Cass. 26851/2023 abbia rimarcato il concetto potrebbe segnare un altro punto di distacco rispetto a quanto affermava Cass. 5641/2018 : in quest'ultima decisione la Corte tratteggiava, al par. 4, la differenza tra il caso – indicato sub a) - del medico che, con la sua condotta colpevole, “ha cagionato la morte” di un soggetto che, altrimenti, sarebbe perfettamente guarito e quello - sub b) - della omessa diagnosi che, se tempestiva, avrebbe consentito al malato oncologico di sopravvivere (per es. solo) altri cinque anni; in relazione a questa seconda ipotesi la Cassazione osservava (il corsivo è di chi scrive): <<La condotta colpevole ha cagionato non la morte del paziente (che si sarebbe comunque verificata) bensí una significativa riduzione della durata della sua vita ed una peggiore qualitá della stessa per tutta la sua minore durata>>.

E dunque, contrariamente a quanto si legge in Cass. 5641/2018, anche nel caso della “anticipata perdita della vita” di cui alla lettera b) il medico “ha cagionato la morte”. Questa è la ragione per cui - spiega Cass. 26851/2023 – deve essere ben chiaro che non vi sará alcuno spazio per il risarcimento iure successionis degli anni di vita persi (nell'esempio cinque), perché si tratterebbe di un danno tanatologico.

A ben vedere, l'unica differenza strutturale tra l' “uccisione” e l'ipotesi di “anticipata perdita della vita” di cui discorre la Suprema Corte riguarda il quantum del risarcimento spettante iure proprio ai familiari dato che il compendio dovrà essere parametrato al (minor) “tempo di presumibile godimento del rapporto con il congiunto” (in altri termini, nell'esempio si tratta di rispondere al seguente interrogativo: “per quanto avresti potuto beneficiare del rapporto affettivo con il tuo caro se il medico non avesse sbagliato la diagnosi? solo per altri cinque anni”).

Ma questo principio parrebbe già discendere dalle regole generali tanto che la Cassazione lo aveva enunciato al di fuori dell'ambito della med – mal (si vedano Cass. 13546/2006 ; Cass. 31 maggio 2003 n. 8827, il corsivo è di chi scrive): <<il pregiudizio da uccisione consiste non già nella violazione del rapporto familiare quanto piuttosto nelle conseguenze che dall'irreversibile venir meno del congiunto e dalla definitiva preclusione delle reciproche relazioni interpersonali discendono. E proiettandosi esso nel futuro, assume al riguardo rilievo la considerazione del periodo di tempo nel quale si sarebbe presumibilmente esplicato quel godimento del congiunto che l'illecito ha reso invece impossibile>>.

Ed anzi, una volta preso atto della sostanziale identità delle fattispecie (nell'una e nell'altra il medico ha provocato il decesso), resta da chiedersi se sia proprio necessario continuare a parlare di “danno da perdita anticipata della vita”, come tale “risarcibile iure proprio agli eredi” (Cass. 26851/2023 § 4.3 punto 3 lett. a), con riguardo appunto alle vicende di omessa diagnosi di malattie in sé letali) dato che con la stessa “etichetta” ben potrebbe indicarsi il caso di Mevio, di 45 anni e perfettamente in salute, che spira dopo essere stato travolto sulle strisce pedonali da un automobilista distratto.

Il paradigma è sempre lo stesso: quello di una azione (od omissione) che causa la morte (che non si sarebbe verificata hic et nunc, ma più tardi) e che dunque priva i congiunti dell'affetto del proprio caro.

Del resto, in tutti i casi di exitus ascrivibile al comportamento di terzi ben potrebbe dirsi che vi è stata una condotta che ha “ridotto la vita probabile”: e gli anni verosimilmente “perduti” potrebbero essere quelli indicati da un CTU chiamato a stimare la possibilità di sopravvivenza di un malato oncologico in base allo “stadio” della patologia; ma anche, analogamente, per un soggetto sano, quelli risultanti dalle statistiche demografiche sulla popolazione in generale.

E quindi anche per i famigliari del passante investito dalla vettura, e di quelli di qualunque altra persona vittima di un illecito, si configura un “danno da perdita anticipata della vita” (rispetto all'etá media Istat) che altro non sarebbe se non, appunto, un pregiudizio da uccisione.

L'impressione, insomma, è che attraverso l'uso di un linguaggio forzatamente “tecnico” si aggiungano complicazioni (in una materia già molto difficile) di cui, forse, si potrebbe fare a meno.

Occorre ora capire se, dopo i chiarimenti forniti da Cass. 26851/2023, il quadro sia davvero chiaro. Ad avviso di chi scrive, sullo sfondo si addensa qualche contraddizione. Se ne parlerà nel prossimo paragrafo.

Ipotesi sub b) Sì al risarcimento iure successionis del danno da perdita di chance di sopravvivenza

Allineandosi ai precedenti, la Cassazione definisce la chance come ipotesi “rovesciata” rispetto al caso sub a) sopra trascritto, nel senso che essa si configura quando non ricorrono i presupposti per affermare che “è più probabile che non” che la condotta del medico abbia cagionato la morte: in altri termini, non è certo, ma è solo possibile che (ove il sanitario fosse stato perito) Tizia, affetta da neoplasia, sarebbe sopravvissuta più a lungo. La perdita di questa opportunità costituisce danno risarcibile iure hereditatis : <<il paziente può aver patito, in relazione al tempo di vita vissuto (e trasmesso agli eredi) un danno da perdita delle chance di sopravvivenza>>.

In questo modo la Suprema Corte conferma l'orientamento consolidato che riconosce un risarcimento iure successionis laddove la condotta negligente del sanitario abbia privato il paziente di mere chance di sopravvivenza.

Se si guarda la giurisprudenza di merito, la casistica è molto ampia (tra le tante: Trib. Ferrara 18 giugno 2018, n. 476 in One legale, per un caso in cui le possibilità di vivere più a lungo erano del 40%; Trib. Livorno 19 marzo 2018, n. 332 in www.rivistaresponsabilitamedica.it, per un caso in cui le possibilità di sopravvivenza erano del 25%; Trib. Milano 4 settembre 2017 in Danno e Resp., 2, 2018, 174, ove le aspettative di vita a cinque anni del paziente erano tra il 25-30%).

Da notare che le modalità di quantificazione variano notevolmente: in alcune pronunce si pone a base del conteggio l'importo spettante in caso di morte del congiunto, cui viene applicata una riduzione in ragione dell'età del de cuius e della sopravvivenza stimata (così Trib. Milano 28 dicembre 2016 n.14161 inedita); in taluni casi è il Magistrato a fissare, secondo la propria valutazione discrezionale, un importo per ogni punto percentuale di chance perduta (così Trib. Como, 31 maggio 2013 n. 1185 inedita), oppure per ogni giorno di sofferenza finché il paziente è spirato (così Trib. Treviso, sez. dist. Montebelluna, 27 aprile 2011 inedita); vi sono poi sentenze che, per determinare il risarcimento corrispondente alle possibilità di maggior sopravvivenza perdute, utilizzano come parametro il valore della ITT pro die da Tabella di Milano (così per es. Trib. Rieti, 10. febbraio 2020, n. 82 www.rivistaresponsabilitamedica.it).

Questo variegato panorama si giustifica anche in considerazione del fatto che la Cassazione non ha mai indicato parametri precisi, essendosi limitata ad evidenziare la necessità di una valutazione equitativa.

A mero titolo esemplificativo, è utile soffermarsi, per i fini che qui interessano, sulla decisione del l'importo riconosciuto a titolo di danno da perdita di chance iure hereditario è di Euro 15.836,00

Il Giudice ha prima stimato equitativamente il valore di un anno di vita (suddividendo la somma tabellare corrispondente alla IP del 100% per l'età di 77 anni del paziente) e lo ha poi moltiplicato per quelli perduti, applicando infine un abbattimento in ragione dell'entità della chance ( IP al 100% di un uomo di 77 anni = Euro 762.097,00 da Tabella del Tribunale di Milano; vita media residua secondo percentuali ISTAT: ulteriori 4 anni; Euro 762.097 : etá del defunto 77 = Euro 9.897,00, valore di un anno di vita; Euro 9.897,00 per gli anni di vita perduti, ossia 4 = Euro 39.588,00; poiché però il paziente aveva solo il 40% di possibilità di sopravvivere, la somma viene proporzionalmente decurtata : 40% di Euro 39.588,00 = Euro 15.836,00).

Dunque: ciò che viene liquidato è, in sostanza, il “valore” degli anni di vita perduti, adeguatamente “ridimensionato” in ragione della entità delle possibilità andate distrutte (lo stesso metodo di liquidazione risulta applicato da Tribunale di Livorno 19 marzo 2018 n. 332, inedita, nonché da Tribunale di Lucca, 14 agosto 2020 n. 733 reperibile on line).

Ed ecco allora il paradosso: in caso di “morte anticipata” (per usare le parole di Cass. 26851/2023), quando cioè è certo (“più probabile che non”) che la condotta omessa dal medico avrebbe evitato il decesso intervenuto hic et nunc, non vi sarà spazio per la liquidazione di un danno iure hereditario per gli anni futuri “sfumati” (es. è sicuro che, se la diagnosi fosse stata tempestiva, il paziente avrebbe vissuto altri cinque anni; nessun risarcimento per tale perdita).

Se, invece, il malato avesse avuto solo il 30 o il 40% di chance di vivere più a lungo (ove il sanitario avesse operato diligentemente), ebbene, in tal caso si aprirebbero le porte per il ristoro, sempre iure hereditario, del pregiudizio non patrimoniale consistente nel sacrificio di tale possibilità (= valore dei cinque anni perduti, proporzionalmente abbattuto in ragione dell'entità della chance, come nell'esempio sopra citato del Tribunale di Ferrara).

Se si guarda la situazione dal punto di vista del paziente, le conseguenze appaiono singolari perché questi, nel primo caso, non acquista né trasmette alcun diritto al risarcimento per la perdita della vita (id est degli anni futuri che avrebbe avuto innanzi a sé se la condotta fosse stata diligente); nel secondo invece sì (sub specie di privazione non della certezza, ma di una mera possibilità di sopravvivenza). Il che, in verità, pare poco giustificabile poiché in relazione al medesimo “bene” (la vita), si nega la tutela, iure successionis, nelle ipotesi più gravi (nesso certo) e la si riconosce in quelle più lievi (chance).

Pare dunque cogliere nel segno l'acuta obiezione che una parte della giurisprudenza di merito ha sollevato:<< (..) la risarcibilità della chance confligge con l'assunto, ribadito da Cass. sez. un. n. 15350/2015, secondo cui la lesione (sotto forma di perdita) del diritto alla vita (per causa di morte) non è risarcibile. Se non si può risarcire il diritto alla vita, nemmeno di può risarcire la sopravvivenza mancata, breve o lunga che sia, certa o possibile che sia>> (Tribunale di Monza 5 dicembre 2017; analogamente, del medesimo Giudice estensore, Tribunale di Monza 20-22 dicembre 2015, n. 3168 inedita).

A questo punto, tornando alla sentenza della Cassazione n. 26851/2023, lo sguardo cade su un breve periodo racchiuso nella lettera b) del par. 4.5 (per come trascritto in apertura delle presenti note), laddove, con riferimento al danno da perdita di chance di sopravvivenza, si precisa:<<La valutazione equitativa di tale risarcimento non sarà, dunque, parametrabile, sia pure con eventuali decurtazioni, né ai valori tabellari previsti per la perdita della vita, né a quelli del danno biologico temporaneo>>.

Il passaggio è, a parere di chi scrive, oscuro: a parte il fatto che non si comprende quali sarebbero mai “i valori tabellari previsti per la perdita della vita” (forse si allude al metodo di liquidazione utilizzato per esempio dalla menzionata sentenza del Tribunale di Ferrara 476/2018 che fa riferimento alla IP del 100%?), la Corte sembra non condividere i “metodi” variamente utilizzati dai Giudici di merito (di cui si è dato brevemente conto più sopra, e tra i quali figura anche l'impiego del parametro della di ITT pro die personalizzata) ; peccato però che non si preoccupi di indicare i criteri (alternativi) che dovrebbero guidare l'operazione.

Forse la Cassazione vuole dire che la quantificazione deve essere sganciata dal “valore” attribuibile agli anni di vita (possibilmente) persi? e che non ha nulla a che vedere con il danno biologico? Occorre far riferimento ad altri indici? Ma quali?

Nell'articolazione di questo inciso (che non viene successivamente sviluppato e finisce per restare un mero accenno) si nasconde forse il germe di un futuro cambiamento? Come a dire: il contenuto, l'oggetto del danno, ciò che viene compensato non è “il valore intrinseco del tempo di vita che potresti aver perso” ma è, poniamo, qualcosa di diverso, è, per esempio, la sofferenza morale per la consapevolezza di aver visto sfumare una opportunità positiva?

Certo è che, se si arrivasse a concepire la perdita di chance come un danno morale a tutti gli effetti, si accederebbe ad una ricostruzione completamente diversa perché non si avrebbe più una “perdita di possibilità” quale bene (astratto) che viene inciso dall'azione od omissione, ma una sofferenza che è direttamente “causata” dalla condotta del medico; come a dire: “l'imperizia del sanitario mi ha privato di una opportunità positiva, e ciò mi provoca dolore nell'animo”.

Qui avrebbe senso dire che la liquidazione non deve più essere agganciata al “valore degli anni perduti” (come invece accaduto nel caso del Tribunale di Ferrara più sopra citato), trattandosi di un pregiudizio ontologicamente diverso.

Non è però questa la direzione lungo la quale si è mossa fin qui la giurisprudenza; né, a onor del vero, pare che Cass. 26851/2023 (nel breve passaggio in parola) si sia spinta così avanti da scardinare i tradizionali punti di appoggio su cui si regge la chance.

La dimensione della chance: l'insanabile incertezza

Nella ricostruzione della giurisprudenza, la chance risulta concepita come perdita di una possibilità, che è già entrata nel patrimonio della vittima e che è sfumata per effetto dell'illecito (o dell'inadempimento) altrui.

Si tratta – spiega Cass. 5641/2018 -, di una situazione ben diversa rispetto al caso in cui vi è un vero e proprio collegamento sul piano eziologico tra condotta ed evento.

Nella fattispecie esaminata da Cass. 5641/2018, in caso di tempestivo approccio terapeutico Tizia avrebbe avuto il 65% di possibilità di sopravvivere per altri cinque anni: ebbene, secondo la Suprema Corte qui non è corretto parlare di perdita di chance poiché l'azione del medico ha cagionato il decesso (anticipato): è infatti “più probabile che non” (65%) che, se la diagnosi fosse stata fatta in modo diligente, l'exitus non si sarebbe verificato hic et nunc ma cinque anni piú tardi.

Sarà invece questione di “chance” se “il vantaggio” sperato e non ottenuto era solo possibile, cioè si collocava sotto il 51% di probabilità (sia pure inteso, questo tetto, in senso elastico). Al di sopra di tale “valore limite”, invece, si ha sempre nesso “pieno”, si può, cioè, sostenere che quella determinata azione ha provocato l'evento o, detto altrimenti, che il soggetto è stato effettivamente privato di un “bene”, di un “risultato”, che avrebbe “certamente” ottenuto, e la cui perdita gli deve essere integralmente risarcita. 

In questo senso sono emblematiche le decisioni di merito: la chance viene presa in esame (e liquidata) dai Giudici sempre e solo nei casi in cui il paziente aveva una possibilità (di vivere più a lungo, se non addirittura di guarire) inferiore alla soglia del 50+1 (es. la sopra citata decisione del Tribunale di Ferrara del 18 giugno 2018, n. 476 per un caso in cui le possibilità di vivere più a lungo erano del 40% ; Trib. Livorno 19 marzo 2018, n. 332 per un caso in cui le possibilità di sopravvivenza erano del 25%; Trib. Milano 4 settembre 2017 ove le aspettative di vita a cinque anni del paziente erano tra il 25-30%; Trib. Milano n. 1416/2016: il paziente aveva la possibilità, stimata nel 32,5%, di sopravvivere per altri 5 anni ove la diagnosi fosse stata tempestiva).

Ed è proprio questo, a parere di chi scrive, il “limite” della figura in esame.

Si vuole con ció dire che, muovendo dall'analisi delle vicende discusse nelle aule di giustizia, sorge spontaneo un dubbio e prende corpo una riflessione capace di mettere in crisi l'intero sistema. Invero, a voler ragionare secondo una logica binaria, si dovrebbe arrivare a questa conclusione: sostenere che, in assenza della condotta negligente del medico, il paziente avrebbe avuto il 30% di chance di sopravvivere altri cinque anni, altro non significa se non affermare che vi era il 70% di possibilità che il malato morisse comunque o, in altri termini, che è “più probabile che non” che sarebbe egualmente deceduto hic et nunc.

Il che vuol dire, in definitiva, che manca il rapporto eziologico (secondo i parametri di accertamento che valgono nella responsabilità civile vd. Cass. 16 ottobre 2007, n. 21619) e che, quindi, non vi è spazio per alcun risarcimento. La condotta omissiva del sanitario si rivelerebbe come “neutra” appunto perché il decesso si sarebbe “certamente” verificato lo stesso.

Ed anzi, in applicazione del principio posto da Cass. 18392/2017 e ribadito da Cass. 11.11. 2019 n. 28991 e succ. conformi, posto che spetta al paziente dare la prova del nesso, nei casi in cui il CTU concluda dicendo che vi era solo, per es., un 20% o 30% per cento di possibilità di maggiore sopravvivenza, si dovrebbe dire che l'attore non ha assolto il proprio onere (risultando anzi provato il contrario, cioé che la condotta del convenuto non ha avuto alcuna incidenza sulla morte) e che quindi la domanda risarcitoria va rigettata.

Insomma, la regola dovrebbe essere quella per cui il nesso o c'è oppure no: tertium non datur. E tutte le volte in cui vi è la chance (che appunto si colloca sotto al 50+1) si dovrebbe appunto concludere che non c'è alcun rapporto tra azione/omissione e morte.

Ciononostante, l'orientamento tradizionale riconosce, in tali ipotesi, il diritto al risarcimento per la perdita di una “possibilità” perché – si sostiene – il paziente aveva comunque una opportunità, che era entrata nel suo patrimonio ed è stata “distrutta” dall'azione od omissione del medico.

Occorre però notare che la Cassazione nella sentenza n. 5641/2018 sembrerebbe aver introdotto un correttivo, allorquando, dopo aver spiegato nel corso della motivazione che la chance consiste nella “possibilità perduta di un risultato migliore e soltanto eventuale”, ha precisato che l'ambito di applicazione della figura sarebbe quello in cui (par. 4 lett. e, il corsivo è di chi scrive) <<le conclusioni della CTU risultano, cioè, espresse in termini di insanabile incertezza rispetto all'eventualità di maggior durata della vita e di minori sofferenze , ritenute soltanto possibili alla luce delle conoscenze scientifiche e delle metodologie di cura del tempo. Tale possibilità – i.e. tale incertezza eventistica (la sola che consenta di discorrere legittimamente di chance perduta), sarà risarcibile equitativamente, alla luce delle circostanze del caso, come possibilità perduta (..)>>. Negli stessi termini si è espressa anche Cass. 11.11. 2019 n. 28993.

Ora, a voler essere rigorosi, l'“insanabile incertezza” dovrebbe ricorrere nel solo caso in cui non è assolutamente possibile dire se la condotta del medico ha cagionato o no la morte (in questi termini le osservazioni di R. Pucella, Il nesso di causalità: un ostacolo antico per problemi (anche) nuovi, in www.rivistaresponsabilitamedica.it).

Un esempio valga a chiarire il concetto: se vi era il 20% di possibilità di sopravvivere altri cinque anni (ove il sanitario fosse stato perito), si dovrebbe dire che “è più probabile che non” che l'exitus si sarebbe verificato lo stesso nel giorno in cui si è effettivamente prodotto (hic et nunc).

E dunque: non si avrebbe qui una <<insanabile incertezza rispetto all'eventualità di maggior durata della vita>> poiché è certo (80%) che Tizia sarebbe comunque morta nel 2023 e non nel 2028.

Quando, allora, sussiste una “incertezza” davvero “insanabile”? Vien da rispondere: solo quando la scienza non è in grado di dare risposte (non può dire che Tizia sarebbe sopravvissuta di più, ma non può nemmeno escluderlo perché non esistono dati a sufficienza) o – che poi è la stessa cosa – quando ricorre il caso del  “fifty/fifty”, ossia quando le probabilità che l'evento sia dipeso dalla colpa dell'operatore sono pari  a quelle che assistono l'ipotesi contraria (es.  a livello statistico, in caso di tempestiva diagnosi ed avvio delle cure, su 100 pazienti 50 si salvano e vivono altri cinque anni, 50 invece muoiono in poco tempo per l'inesorabile decorso della malattia).

E dunque se quella introdotta da Cass. 5641/2018 (seguita da Cass. 11 novembre 2019 n. 28993) fosse davvero una precisazione che ha lo scopo di limitare l'ambito di rilevanza della chance, si dovrebbe dire che essa non può più trovare applicazione quando il CTU indica la percentuale di sopravvivenza in un numero che arriva sotto alla soglia del 50% (per esempio: 10 o 20 o 30%).

Qui, a rigore, la domanda dovrebbe essere rigettata anche sotto il profilo della perdita di chance perché è “più probabile che non” (nell'esempio: 90, 80, 70 %), che la condotta non abbia provocato l'evento, ossia è certo che Tizia sarebbe comunque morta nel 2023 (e non nel 2028): non c'è, insomma, una “insanabile incertezza”.

Se però si guarda la giurisprudenza successiva a Cass. 5641/2018 e a Cass. 28993/2019 si noterà che i Tribunali hanno continuato ad utilizzare i consueti schemi; non sembra cioè che sia stato percepito alcun cambiamento (nel senso appunto di limitare l'operatività della chance ai veri e propri casi di “insanabile incertezza”): così per es. il Tribunale di Rovigo 26 luglio 2022 ha riconosciuto iure successionis  il risarcimento per la perdita di chance in una situazione in cui in cui la possibilità di sopravvivenza del paziente era del 21%; o, ancora, nel caso deciso dal Tribunale di Lecce 24.11.2021 la possibilità di un miglior risultato terapeutico era del 30%.

Sembrerebbe più vicina alla “insanabile incertezza” la fattispecie sottoposta al Tribunale di Milano n. 1100 del 9 febbraio 2022 in cui si è riconosciuto il risarcimento del danno per una perdita di chance di sopravvivere più a lungo del 45,45% (l'ipotesi parrebbe dunque avvicinabile, per la sottilissima linea di confine, a quella del 50/50 ove appunto non è possibile né affermare né escludere che la condotta ha cagionato la morte anticipata).

Ebbene, tornando all'esame della sentenza in commento, sembra che Cass. n. 26851/2023 abbia inteso rafforzare l'idea per cui la chance trova applicazione solo quando vi è una insanabile incertezza.

Si legga la lettera b) del par. 4.5 :<<b)il danno da perdita di chance di sopravvivenza sarà invece risarcito, equitativamente, volta che, da un lato, vi sia incertezza sull'efficienza causale della condotta illecita quoad mortem (..)>>.

Si veda anche la contrapposizione descritta nei seguenti passaggi :<<a) se è certo che l'errore medico abbia causato la morte anticipata del paziente, si ricadrà nell'ipotesi di cui sopra sub 1.a: il paziente può aver patito (e trasmesso agli eredi) un danno biologico (differenziale), e un danno morale da lucida consapevolezza della morte imminente, ma non un danno da perdita anticipata della vita, risarcibile soltanto (..) iure proprio agli eredi (..);b) se è incerto che l'errore medico abbia causato la morte del paziente, il paziente può avere patito, in relazione al tempo di vita vissuto (e trasmesso agli eredi), un danno da perdita delle chance di sopravvivenza, ma non un danno da “perdita anticipata della vita”>>.

Ebbene: quando <<è incerto che l'errore medico abbia causato la morte del paziente>>? Verrebbe da rispondere: non quando vi era, per es., il 20 % di possibilità di vivere più a lungo perché qui si dovrebbe dire che era “più probabile che non” che il malato sarebbe deceduto lo stesso hic et nunc (dunque, esemplificando: sarebbe certo (80%) che l'omissione del sanitario, che ha male interpretato la lastra, non ha causato la morte occorsa il 10.05.2023 dato che l'exitus si sarebbe comunque verificato ,anche se non ci fosse stato l'errore e le cure fossero iniziate subito, in quella stessa data e non cinque anni più tardi).

Se il CTU invece dicesse: “l'omessa (colposa) diagnosi ha fatto perdere alla paziente il 50% di possibilità di vivere altri cinque anni”, si dovrebbe allora affermare che <<è incerto che l'errore medico abbia causato la morte>> perché le possibilità che Tizia vivesse altri cinque anni (se il medico fosse stato perito e diligente) erano identiche a quelle di morire. Lo stesso dicasi laddove il CTU concluda affermando che “le conoscenze scientifiche attuali non consentono né di affermare con certezza né di escludere con certezza che la corretta diagnosi avrebbe potuto allungare la vita della paziente di altri cinque anni, essendo ciò possibile”.

Sembrerebbe allora che la portata della chance sia stata fortemente ridimensionata potendo essa trovare applicazione solo in un numero limitato di casi, quando esista davvero un insuperabile dubbio (50/50) circa l'efficacia causale della condotta colposa rispetto alla “perdita anticipata della vita”.  

Questa, almeno, è l'impressione di chi scrive (pur nella difficoltà di orientarsi in un contesto che è caratterizzato da una notevole complessità, già anche solo a livello espressivo e semantico e nel quale ben potrebbe annidarsi il rischio di una non corretta interpretazione). E chissà che la Corte non intervenga nuovamente per scongiurare ogni possibile abbaglio.

Quando la perdita di chance può “convivere” con il danno da anticipata morte

La Cassazione precisa che in linea di principio perdita di chance e danno da anticipata morte sono logicamente incompatibili perché la prima può esistere solo quando mancano i presupposti della seconda (se è “certo” che Tizia sarebbe sopravvissuta altri cinque anni non v’è spazio per la chance perché ricorre un vero e proprio nesso tra condotta ed evento morte).

Vi è però un caso in cui le due figure possono (eccezionalmente) cumularsi; volendo semplificare, leggendo la sentenza pare potersi dire che detta ipotesi ricorra quando il Ctu abbia ad esprimersi in questi termini: “è certo che, se il medico fosse stato perito e diligente ed avesse subito rilevato la neoplasia, Tizia sarebbe vissuta altri cinque anni; vi è invece incertezza in merito al fatto che la paziente avrebbe potuto vivere altri tre anni (in aggiunta ai cinque), essendo ciò solo possibile”.

Conclusioni

La chance è figura dibattuta, controversa, e per certi aspetti “spinosa” perché rischia di creare qualche contraddizione interna al sistema (con riguardo, in particolare, al danno per la perdita della possibilità di vivere più a lungo). Negli ultimi anni la Cassazione sembrerebbe aver ulteriormente affinato i caratteri dell’istituto, attraverso un approfondito, attento e meticoloso percorso di elaborazione, sì da smussarne gli angoli e trovare la giusta collocazione.

La sentenza in esame ha ritenuto necessario chiarire alcuni aspetti e porre una linea di demarcazione per evitare equivoci, confermando che non vi è spazio per il danno tanatologico. Non sembra, tuttavia, che il quadro finale sia cristallino, profilandosi anzi qualche increspatura nell’ottica della coerenza di sistema (in relazione in particolare alla risarcibilità iure successionis della perdita della possibilità di sopravvivenza).

Per altro verso, se non ci si inganna, la decisione in commento parrebbe confermare l’idea per cui l’operatività della chance è limitata ai casi (verosimilmente poco numerosi nella realtà) di “insanabile incertezza”, per tali intendendosi le ipotesi di confine in cui la “scienza non può rispondere”, nel senso che il CTU non è in grado di dire se la condotta del medico ha cagionato la “perdita anticipata della vita”, ma non può nemmeno escluderlo (50%/50% come si è cercato di chiarire più sopra).

E se è vero che l’ambito di applicazione deve essere circoscritto alle situazioni di autentico dubbio (in cui appunto il criterio del “più probabile che non” non può funzionare), allora forse la chance finisce con l’assolvere appieno quella funzione di strumento <<di politica del diritto>> finalizzato a <<temperare equitativamente il criterio risarcitorio dell’all or nothing>> che Cass. 5641/2018 le ha assegnato. Attraverso di essa si offre alla vittima una soluzione più equa laddove sia certo che la condotta del medico ha privato il paziente del 50% di possibilità di ottenere un risultato migliore. Qui il rigetto della domanda (per la mancata prova in punto nesso) potrebbe sembrare un rimedio eccessivo, che non tiene conto del fatto che la pretesa della vittima ha (almeno) il 50 per cento di fondamento.

In questa dimensione, la perdita di chance sembrerebbe acquisire un ruolo che in qualche modo è paragonabile a quello svolto da un sistema indennitario (del tipo di quelli esistenti in altri ordinamenti per la cd. alea terapeutica). Una soluzione che, nello spirito dell’orientamento di legittimità (se qui rettamente interpretato) parrebbe rispondere a quella che può definirsi come la ricerca di una “equilibrata risposta di giustizia” per attenuare la rigidità delle regole vigenti in una materia (la responsabilità medica) che deve quotidianamente fare i conti con la mancanza di certezze scientifiche.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.

Sommario