Memoria difensiva avverso il ricorso intentato da un familiare per il riconoscimento degli utili dell'impresa familiare (art. 230-bis c.c.)InquadramentoL'art. 230-bis c.c., assicura una tutela minimale ed inderogabile ai familiari che prestano attività lavorativa nell'impresa di un loro congiunto; attribuisce, in particolare, ai coniugi e familiari entro il terzo grado ed agli affini entro il secondo grado, che prestano stabilmente attività lavorativa nell'impresa del loro congiunto, il diritto di partecipare alla ripartizione degli utili, e di altre poste attive patrimoniali, nonché di partecipare alle decisioni amministrative e gestionali relative all'impresa. Il minimum di tutela previsto dalla norma è inderogabile pattiziamente; la quota di ognuno dei familiari aventi diritto non può essere alienata a soggetti esterni al nucleo familiare. A ciascun familiare che partecipa all'impresa familiare è garantito il diritto di prelazione ex art. 732 c.c. FormulaTRIBUNALE CIVILE DI ... [1] SEZ. LAV. MEMORIA DIFENSIVA EX ART. 416 C.P.C.[2] Nell'ambito del giudizio iscritto al n. R.G. ... innanzi al Giudice Dott. ... PER Ditta individuale ... in pers. del l.r. ... C.F./P.I. ... con sede legale in ... alla via ... [3] nonché contro il Sig. ... in proprio n. a ... il ..., C.F. ... residente in ..., alla Via ... n. ..., e Sig. ..., nato a ... il ..., C.F. ... residente in ..., alla via ... n. ..., e le Sig.re ... nata a ... il ..., C.F. ... residente in ..., alla via ... n. ..., e ... nata a ... il ..., C.F. ... residente in ..., alla Via ... n. ..., tutti elettivamente domiciliati in ... via ... n. ... presso lo studio dell'Avv. ... che li rappresenta e difende in forza di procura a margine/in calce al presente atto, - resistenti - CONTRO Sig. ... nato a ... il ..., C.F. ... residente in ..., alla via ... n. ..., elettivamente domiciliato presso lo studio dell'Avv. ...; - ricorrente - FATTO Con ricorso depositato in data ..., il Sig. ... adiva Codesto Tribunale affinché accogliesse le seguenti conclusioni: “a. Riconoscere ed accertare la sussistenza di un'impresa famigliare tra il ricorrente ed i resistenti; b. Riconoscere a favore del ricorrente una partecipazione nell'impresa familiare non inferiore al 15%; c. Condannare la ditta individuale ... in pers. del l.r. ed il Sig. ... in proprio al pagamento in favore del Sig. ... della somma di Euro ..., a titolo di mantenimento, ovvero alla maggior o minor somma che l'Ill.mo Giudice adito riterrà equa, oltre interessi legali in misura di legge; d. Condannare la ditta individuale ... in pers. del l.r. ed il Sig. ... in proprio al pagamento in favore del Sig. ... alla corresponsione degli utili prodotti dal 1° febbraio 20 ... al 1° marzo 20 ..., nonché all'avviamento in misura proporzionale alla collaborazione prestata in tale lasso di tempo dal ricorrente, oltre interessi legali in misura di legge. Con vittoria di spese, diritti ed onorari del presente procedimento. Salvo ogni altro diritto”. A supporto il ricorrente esponeva: - di essere figlio del Sig. ... e della Sig.ra ... e fratello del Sig. ... e della Sig.ra ...; - che il padre è titolare di un esercizio commerciale che opera nel campo della ristorazione con sede in ... via ... n. ... denominato ... - che al fine di contenere i costi si esercizio, il Sig. ... si è avvalso della collaborazione esclusiva dei suoi congiunti; precisamente: la moglie, madre del ricorrente, Sig.ra ... svolge quotidianamente l'attività di cassiera e mantiene la contabilità della pizzeria; il figlio ..., nonché fratello del ricorrente, coadiuva di giorno il padre nei rapporti con i fornitori ed aiuta in sala di sera; la figlia ... nonché sorella ricorrente, svolge quotidianamente collaborazione in sala; - che anche lui ha collaborato alla gestione della pizzeria aiutando in sala, in modo continuativo, quotidiano, dal 1° febbraio 20 ... al 1° marzo 20 ...; - che in data ..., nacque un alterco tra lui ed il padre, durante il quale questi gli disse che avrebbe dovuto trovarsi un'altra occupazione lavorativa, perché la pizzeria non garantiva ricavi sufficienti a sostenere tutti i figli; che quando sarebbe andato in pensione, l'avrebbe ceduta al figlio primogenito ... sia perché l'ha sempre aiutato nella gestione, sin da piccolo, sia perché vi dedica più ore di lavoro giornaliere rispetto a lui; - che a seguito di questa discussione il padre ed il fratello del ricorrente hanno impedito l'accesso in pizzeria al ricorrente, il quale ha preso atto della situazione ed ha deciso di cercare una nuova occupazione, senza successo sino ad ora. - che si è in presenza di un'impresa famigliare ex art. 230-bis c.c. tra il Sig. ... titolare della pizzeria ed i suoi congiunti stretti (moglie ed i tre figli, tra cui il ricorrente); - che il padre non gli ha mai versato il mantenimento né gli ha corrisposto gli utili prodotti dalla pizzeria fino al giorno in cui gli ha intimato di cessare la collaborazione. Per l'effetto concludeva chiedendo che venisse riconosciuta l'impresa familiare con attribuzione in suo favore di una quota di partecipazione agli utili ed agli altri diritti patrimoniali pari almeno al 15% e che il padre, in proprio e quale titolare della ditta individuale gli corrispondesse la somma di Euro ... a titolo di mantenimento, oltre alla partecipazione agli utili dell'impresa familiare, ed all'avviamento. *** Con il presente atto si costituiscono in giudizio i resistenti sopra individuati, impugnando il ricorso avversario e contestando la domanda in quanto infondata in fatto e per i seguenti motivi di DIRITTO Si solleva in via preliminare eccezione di prescrizione del diritto. Invero, i crediti patrimoniali previsti dall'art. 230-bis, c.c. si prescrivono nel termine di dieci anni (Cass. n. 20273/2010 e Cass. n. 16477/2009). Orbene, come lo stesso ricorrente ammette, la sua collaborazione si è interrotta in data 1° marzo 20 ...; al momento del deposito del ricorso in cancelleria, avvenuto in data 15 marzo 20 ..., il suddetto termine decennale pertanto era già spirato. Per mero tuziorismo difensivo, si intende argomentare anche sulla infondatezza nel merito della pretesa avversaria. Si contesta la ricostruzione dei fatti posta a base del ricorso introduttivo ed in particolare che il Sig. ... abbia collaborato nell'impresa famigliare. Senza con ciò invertire l'onere di allegazione e prova, si riferisce che il ricorrente solo saltuariamente, e precisamente il sabato sera, oppure in occasioni particolari, quando vi era maggiore affluenza di persone in pizzeria, ha offerto il suo contributo in sala servendo ai tavoli. In realtà il Sig. ... ha sempre svolto l'attività di meccanico (ad es.) presso l'officina del Sig. ... percependo regolare retribuzione. Quindi la sua collaborazione alla gestione della pizzeria era talmente saltuaria da non integrare i presupposti previsti dall'art. 230-bis c.c., per godere dei diritti patrimoniali previsti per i famigliari che collaborano nell'impresa famigliare in modo continuativo. Infatti, l'alterco cui fa riferimento il ricorrente nacque proprio su quest'aspetto. In famiglia si stava discutendo sull'opportunità di trasformare la ditta individuale del padre in una s.n.c. allargandone la compagine societaria ai due figli maggiori; al che intervenne il ricorrente accampando diritti di partecipazione ed il padre si infuriò intimandogli di non presentarsi più in pizzeria, dal momento che la sua collaborazione era limitata solo al sabato sera, oltre a qualche occasione particolare, e che aveva fatto altre scelte lavorative, svolgendo ormai da anni l'attività di meccanico, a differenza dei altri figli, che hanno messo a disposizione il loro tempo e le loro energie lavorative esclusivamente nell'azienda di famiglia. Nella denegata ipotesi in cui il Tribunale dovesse accogliere la domanda del ricorrente, deve sicuramente essere rigettata quella avente ad oggetto il mantenimento. Infatti l'art. 230-bis c.c. attribuisce sul punto un diritto di natura assistenziale fondato sulla solidarietà famigliare, e non retributiva, come si evince dalla formulazione della norma, che ne subordina la corresponsione al tenore di vita della famiglia, e non all'andamento dell'azienda, come previsto, invece, per la partecipazione agli utili ed agli altri diritti patrimoniali. Ciò chiarito, il Sig. ... ha sempre vissuto in casa coi genitori, che hanno provveduto al suo sostentamento materiale, acquistandogli vestiti, beni di prima necessità ed anche voluttuari, come l'acquisto di un cellulare e di una motocicletta (ad es.), per cui tale domanda deve certamente essere rigettata, perché il ricorrente ha sempre goduto del mantenimento del padre, ancorché tale obbligo sia stato assolto non col pagamento di una somma mensile predeterminata, ma con l'acquisto di tutto quanto fosse per lui necessario. Sempre nella denegata ipotesi in cui il Tribunale dovesse accogliere la domanda avversaria, la partecipazione del ricorrente all'impresa famigliare deve essere riconosciuta in una misura nettamente inferiore a quella richiesta. Allo scopo occorre precisare che il titolare impiega tutto il suo tempo per gestire la pizzeria, unitamente al primo figlio che lo coadiuva giornalmente nei rapporti con i fornitori ed i terzi; anche la moglie, Sig.ra ... vi si dedica di giorno, per la tenuta della contabilità, e di sera, svolgendo mansioni di cassiera. La figlia della coppia, Sig.ra ..., offre un apporto lavorativo inferiore alla metà, limitato alle ore serali, aiutando in sala e servendo ai tavoli. Il ricorrente ha lavorato invece solo saltuariamente, come detto. Appare evidente che al titolare, alla moglie ed al primogenito deve riconoscersi una partecipazione nell'impresa di poco superiore al doppio della figlia, proporzionato al maggior impegno lavorativo destinato all'azienda; seguendo questa prospettiva, attribuendo a ciascuno dei tre la quota del 27,5%, alla figlia spetterà una partecipazione pari al 12,5%; il residuo, pari al 5% degli utili, potrà al limite essere attribuito al ricorrente, poiché si tratta di una misura perfettamente parametrata alla reale quantità di attività lavorativa che egli ha dedicato alla pizzeria rispetto ai suoi congiunti. *** Alla luce di quanto detto, la domanda del ricorrente è del tutto infondata e va rigettata. P.T.M. Voglia il Tribunale adito, In via preliminare, dichiarare prescritti i crediti patrimoniali vantati dal ricorrente; Nel merito rigettare la domanda avversaria; In subordine, in caso di accoglimento della domanda avversaria, escludere il suo diritto a conseguire il mantenimento; riconoscergli una partecipazione all'impresa familiare pari al massimo al 5%; con vittoria di spese. In via istruttoria [4] : ci si oppone all'ammissione dei mezzi istruttori articolati ex adverso, ivi compresa la CTU. In via gradata, nella ipotesi di ammissione dei mezzi istruttori articolati da controparte, si chiede l'ammissione dell'interrogatorio formale del ricorrente e la prova per testi sui seguenti capitoli di prova con i testi Sigg.ri .... 1) Vero che ...; 2) Vero che ...; 3) Vero che .... Si deposita: 1. ...; 2. .... Luogo e data ... Firma ... PROCURA Delego a rappresentarmi e difendermi nel presente giudizio l'Avv. ..., eleggendo domicilio nello studio dello stesso in ..., via ... e conferendo al medesimo ogni più ampia facoltà di legge. Per autentica della sottoscrizione Firma Avv. ... 1. È competente il Giudice del lavoro di uno dei luoghi indicati nell'art. 413, comma 2, c.c. 2. si rammenta che con DM del 7 agosto 2023, n. 110 recante “Regolamento per la definizione dei criteri di redazione, dei limiti e degli schemi informatici degli atti giudiziari con la strutturazione dei campi necessari per l'inserimento delle informazioni nei registri del processo, ai sensi dell'articolo 46 delle disposizioni per l'attuazione del codice di procedura civile” pubblicato in GU Serie Generale n.187 del 11-08-2023 ed entrato in vigore in data 26/08/2023 sono stati indicati dal Ministero della Giustizia i criteri di redazione degli atti processuali delle parti private e dei Giudici. Si precisa nell'art 3 che l'esposizione deve essere contenuta nel limite massimo di: a) 80.000 caratteri, corrispondenti approssimativamente a 40 pagine nel formato di cui all'articolo 6, quanto all'atto di citazione e al ricorso, alla comparsa di risposta e alla memoria difensiva, agli atti di intervento e chiamata di terzi, alle comparse e note conclusionali, nonché agli atti introduttivi dei giudizi di impugnazione; b) 50.000 caratteri, corrispondenti approssimativamente a 26 pagine nel formato di cui all'articolo 6, quanto alle memorie, alle repliche e in genere a tutti gli altri atti del giudizio; c) 10.000 caratteri, corrispondenti approssimativamente a 5 pagine nel formato di cui all'articolo 6, quanto alle note scritte in sostituzione dell'udienza di cui all'articolo 127-ter del codice di procedura civile, quando non è necessario svolgere attività difensive possibili soltanto all'udienza. Nel successivo art 5 si precisa che i suddetti limiti dimensionali possono essere superati se la controversia presenta questioni di particolare complessità, anche in ragione della tipologia, del valore, del numero delle parti o della natura degli interessi coinvolti, ovvero nel caso di proposizione di una domanda riconvenzionale, di una chiamata di terzo, di un atto di integrazione del contraddittorio, di un atto di riassunzione o di un'impugnazione incidentale. Altro importante criterio di redazione degli atti è contenuto nell'art.6 rubricato “tecniche redazionali” ove si invita l'utilizzo di caratteri di dimensioni di 12 punti; con interlinea di 1,5 e con margini orizzontali e verticali di 2,5 centimetri, con esclusione dell'inserimento di note. 3. In tutti gli atti introduttivi di un giudizio, compresa l'azione civile in sede penale e in tutti gli atti di prima difesa devono essere indicati, le generalità complete della parte, la residenza o sede, il domicilio eletto presso il difensore ed il C.F., oltre che della parte, anche dei rappresentanti in giudizio (art. 23, comma 50, d.l. n. 98/2011, conv., con modif., in l. n. 111/2011). 4. Trovando applicazione il rito del lavoro, vi è un onere di completezza degli atti introduttivi anche con riferimento alle richieste istruttorie, che devono essere formulate, a pena di decadenza, con gli stessi. CommentoPremessa L'impresa familiare è un istituto introdotto dalla legge di riforma del diritto di famiglia n. 151/1975 con il quale il legislatore valorizza la partecipazione del coniuge e dei famigliari nell'impresa gestita da un loro congiunto, garantendo loro diritti patrimoniali, così superando il principio di presunzione di gratuità delle prestazioni lavorative rese in favore di un parente, enucleato dalla giurisprudenza tradizionale. Il legislatore disciplina l'impresa familiare nell'art. 230-bis c.c., ma non ne offre una definizione. La discussione dottrinale e giurisprudenziale sul punto ha portato all'affermazione di due indirizzi contrapposti: l'uno che rinviene nell'impresa familiare una struttura plurisoggettiva; l'altro che sostiene abbia natura individuale. Questa seconda posizione è stata infine avallata dalle S.U. della Cassazione con la sentenza n. 23676/2014 per la quale il complesso dei diritti patrimoniali ed amministrativi è incompatibile con la disciplina normativa che governa i fenomeni societari; infatti il diritto alla partecipazione del familiare agli utili ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell'azienda, anche in ordine all'avviamento, è ricollegato alla quantità e qualità del lavoro prestato, anche al di fuori dell'impresa, e non alla quota di partecipazione, come richiederebbe la disciplina societaria. Nessuna norma del diritto societario consente ad un socio di reclamare diritti sui beni acquisiti al patrimonio sociale, e tanto meno sugli incrementi aziendali, ivi compreso l'avviamento, quando la società opera regolarmente; in terzo luogo, ancor più confliggente con regole imperative del sottosistema societario appare il riconoscimento di diritti corporativi al familiare del socio, tale da introdurre un inedito metodo collegiale maggioritario - integrato con la presenza dei familiari dei soci - nelle decisioni concernenti l'impiego degli utili, degli incrementi, della gestione straordinaria e degli indirizzi produttivi; e finanche la cessazione dell'impresa stessa: disciplina che contrasta con la distribuzione delle responsabilità decisionali all'interno di una società, che le vedono riservate, di volta in volta, agli amministratori o ai soci, in forme e secondo competenze distintamente previste (il più delle volte da norme inderogabili), in funzione del tipo societario, ma univoche nell'esclusione di soggetti estranei alla compagine sociale. A tal proposito si è precisato che al fine di distinguere il rapporto subordinato reso da un familiare rispetto alla partecipazione all'impresa familiare si è precisato che la presenza di indici sintomatici quali l'osservanza di un orario di lavoro, nella specie coincidente con quello di apertura del negozio al pubblico -, la presenza costante, la corresponsione di un compenso a cadenze fisse possono condurre a configurare l'esistenza di rapporto di tipo subordinato e non mera partecipazione all'attività del familiare in virtù dei motivi di assistenza personale legati ad un'ipotetica impresa familiare (Cass. n. 4535/2018). Ed ancora, siffatta conclusione appare confortata dalla natura residuale dell'impresa familiare, che ne escluderebbe l'applicazione nel caso in cui sia configurabile tra i familiari un rapporto riconducibile ad uno schema societario (in questo senso, Cass. n. 11533/2020 e Trib. Bergamo sez. lav., 7 aprile 2020, n. 330). Dall'inciso “salvo che non sia configurabile un diverso rapporto” si ricava il carattere residuale della disposizione, nel senso che il complesso di diritti patrimoniali ed amministrativi previsto dalla norma trova applicazione se il rapporto di lavoro tra familiare ed imprenditore non sia inquadrabile in un altro istituto giuridico, nel qual caso il rapporto sarà regolato secondo la specifica disciplina giuridica per esso prevista (es. rapporto di lavoro subordinato; rapporto societario, anche di fatto, associazione in partecipazione, ecc.). I diritti sanciti per i familiari lavoratori nell'art. 230-bis c.c., costituiscono un minimum di tutela inderogabile in peius e derogabile solo in melius. L'inciso “salvo diverso rapporto” deve essere interpretato restrittivamente nel senso che è inibito all'imprenditore di configurare un tipo di rapporto lavorativo con il suo famigliare idoneo ad eludere la disciplina garantista prevista dalla norma, prevedendovi pattiziamente un livello inferiore di diritti (ad es. rapporto di lavoro gratuito); ove ciò dovesse accadere, la clausola sarebbe nulla per violazione di una norma imperativa, e verrebbe sostituita dalla disciplina dell'art. 230-bis c.c. L'impresa familiare è priva di definizione normativa; deve considerarsi, quindi, quale fenomeno giuridicamente rilevante non riconducibile ad uno schema giuridico tipizzato (la cui disciplina, altrimenti, troverebbe applicazione). Non costituisce in altre parole una figura giuridica che si contrappone e distingue dalle tipologie codificate di società, da un lato, e dall'imprenditore individuale (art. 2082 ss. c.c.) dall'altro, ma rileva quale “fatto materiale” rilevante per l'attribuzione di diritti ai familiari dell'imprenditore per il sol fatto che questi prestano stabilmente attività lavorativa in favore del congiunto. Principi questi espressi icasticamente dalla Corte di Cassazione sent. n. 24560/2015 «L'impresa familiare di cui all'art. 230-bis c.c. appartiene solo al suo titolare, anche nel caso in cui alcuni beni aziendali siano di proprietà di uno dei familiari, in ciò differenziandosi dall'impresa collettiva, come quella coltivatrice, la quale appartiene per quote, eguali o diverse, a più persone, e dalla società, con la quale è incompatibile» e più recentemente nell'ord. n. 10161/2021 e poco prima nell'ord. n. 34222/2019 ove si è aggiunto che la natura individuale dell'impresa familiare comporta che ne sia titolare soltanto l'imprenditore, in conseguenza la posizione degli altri familiari, che prestano il loro apporto sul piano lavorativo, assume rilevanza esclusivamente nei rapporti interni, restando esclusa la configurabilità di un'ipotesi di litisconsorzio necessario nei giudizi promossi da o contro il congiunto titolare dell'impresa. Costituzione Ne consegue che l'impresa familiare non necessita di alcun atto costitutivo; la sua costituzione si perfeziona automaticamente con la prestazione di attività lavorativa nell'impresa da parte di uno o più familiari, fermo restando, naturalmente, che i familiari possono consacrare in una scrittura privata la regolamentazione dei diritti (ad es. la ripartizione degli utili) connessi alla prestazione lavorativa singolarmente prestata. Un accordo in tal senso, anche se consacrato in una scrittura privata, non ha efficacia costitutiva, ma semplicemente probatoria e semplifica l'onere probatorio per il singolo familiare nel giudizio che dovesse intentare innanzi al Giudice del lavoro nei confronti dell'imprenditore per conseguire gli utili a lui spettanti e che gli sono negati al momento dell'estinzione dell'impresa. L'art. 230-bis, comma 3, c.c., trova applicazione con riferimento al coniuge, ai parenti entro il terzo grado ed affini entro il secondo, conseguendone che la prestazione lavorativa eseguita nell'impresa familiare da parenti oltre il terzo grado non rientra nel campo di applicazione della norma ed il suddetto parente dovrà attivare altri strumenti giuridici per tutelare il suo diritto alla retribuzione resa in assenza di contratto (come l'art. 2041 c.c.). Tale conclusione discende dal fatto che il comma 4 dell'art. 230-bis c.c. non include il convivente di fatto di uno dei congiunti dell'imprenditore nel novero dei soggetti che possono rivendicare i diritti patrimoniali previsti dalla disposizione in commento. Ed infatti le pronunce giurisprudenziali più risalenti hanno postulato l'inapplicabilità della disciplina dell'impresa familiare, modulata sul presupposto dell'esistenza di una famiglia legittima, al convivente di fatto, considerando l'art. 230-bis c.c. norma eccezionale, come tale insuscettibile di applicazione analogica (Cass. nn. 4204/1994, 22405/2004). È da registrare, tuttavia, sul punto l'apertura della giurisprudenza di legittimità ad un'interpretazione estensiva ed evolutiva della norma volta ad attribuire i diritti patrimoniali anche ai conviventi di fatto, In particolare, nell'Ordinanza n. 2123/2023, la Cassazione, sez. lavoro, richiamando i principi espressi dalla Corte Costituzionale nelle sentenze nn. 476/1987, 170/1994, 485/1992 ove si è sottolineato “...che l'introduzione dell'istituto dell'impresa familiare risponde alla meritoria finalità di dare tutela al lavoro comunque prestato negli aggregati familiari...” (Corte Cost.), ed in sentenza n. 237/1986 ove si è precisato che l'art. 2 della Costituzione debba riferirsi anche “...alle convivenze di fatto, purché caratterizzate da un grado accertato di stabilità...” (Corte Cost.) attribuendo rilevanza giuridica al rapporto di convivenza more uxorio, ha osservato che “...non si tratta di porre sullo stesso piano coniugio e convivenza more uxorio ma di riconoscere un particolare diritto alla convivente more uxorio e ripristinare ragionevolezza all'interno di un istituto che non può considerarsi eccezionale quanto piuttosto avente una funzione suppletiva, essendo diretto ad apprestare una tutela minima e inderogabile a quei rapporti di lavoro comune che si svolgono negli aggregati familiari...”; che in un contesto sociale che vede il costante incremento delle convivenze di fatto, considerati sia gli interventi della Corte Costituzionale e il modificato panorama legislativo dopo l'introduzione della legge n. 76/2016, “...l'esclusione del convivente more uxorio che per lungo tempo abbia lavorato nell'impresa familiare dell'altro convivente pare porsi in contrasto non solo con gli artt. 2 e 3 Cost. (come interpretati in materia dalla Corte Costituzionale) ma soprattutto con la giurisprudenza della Corte EDU e con il diritto UE ...”; che pertanto “...l'esclusione del solo o della sola ... convivente more uxorio dalla applicazione dell'art. 230-bis c.c. appare non corrispondente alla “inclusiva” ratio dell'istituto rapportata alle mutate condizioni di vita, nel suddetto ambito materiale...”; sulla base di tali premesse ha rimesso alle Sezioni Unite Civili della Cassazione, la risoluzione della seguente questione di particolare importanza: “Se l'art. 230-bis, comma 3, c.c. possa essere evolutivamente interpretato (in considerazione dell'evoluzione dei costumi nonché della giurisprudenza costituzionale e della legislazione nazionale in materia di unioni civili tra persone dello stesso sesso) in chiave di esegesi orientata sia agli artt. 2,3,4 e 35 Cost. sia all'art. 8 CEDU come inteso dalla Corte di Strasburgo, nel senso di prevedere l'applicabilità della relativa disciplina anche al convivente more uxorio, laddove la convivenza di fatto sia caratterizzata da un grado accertato di stabilità”. Naturalmente la questione rimessa alle S.U. riguarda i rapporti sorti antecedentemente all'introduzione nell'ordinamento dell'art. 230-ter c.c. per effetto dell'art. 1, comma 46, l. n. 76/2016 (in G.U. n. 118/2016), in vigore dal 5 giugno 2016 che ha formalmente regolato i diritti patrimoniali nell'impresa familiare al convivente more uxorio. Prestazione lavorativa del familiare Il presupposto oggettivo consiste nella prestazione di lavoro in modo continuativo all'interno dell'impresa del convivente; quindi la norma non opera in caso di collaborazioni occasionali o saltuarie, ma per la collaborazione duratura che comporti un impegno costante del lavoratore volto a soddisfare un interesse durevole dell'imprenditore (Cass. n. 19925/2014; Cass. n. 20157/2005). Dalla formulazione della norma, non emerge che la prestazione di lavoro debba necessariamente essere svolta a tempo pieno, o con carattere di esclusività e prevalenza, dovendosi soltanto concretizzare in un apporto continuativo all'impresa da parte dei familiari. A tal fine è stato precisato che la continuità dell'apporto richiesto dall'art. 230-bis c.c., per la configurabilità della partecipazione all'impresa familiare non esige la continuità della presenza in azienda, richiedendo invece soltanto la continuità dell'apporto (Cass. n. 13849/2002). Per altro verso, la prestazione può esplicarsi in qualunque attività manuale o intellettuale, di natura esecutiva o direttiva, senza però, sconfinare in una cogestione dell'impresa o in un rapporto di lavoro che presenti gli indici tipici della subordinazione, che farebbero sorgere rispettivamente un rapporto di tipo societario o di lavoro subordinato, esclusi dal campo di applicazione della norma. Dal campo di applicazione dell'art. 230-bis c.c., vanno escluse le attività lavorative rese dai familiari del congiunto in altre forme produttive, come ad es. la collaborazione nello studio professionale (commercialista, avvocato). La dimensione dell'impresa può indifferentemente essere piccola, media o grande, e l'oggetto sociale può essere di qualsiasi tipo, ad eccezione delle attività per le quali è prevista una particolare forma societaria (ad es. bancarie e assicurative). L'art. 230-bis c.c., equipara l'attività di lavoro svolta dal coniuge o familiare nella famiglia e quello svolto nell'impresa familiare. Si tratta di una previsione che esalta la nuova considerazione in cui vengono tenute la donna ed il lavoro casalingo nello spirito della riforma del 1975, ma che pone al contempo numerosi dubbi applicativi. Appare convincente l'impostazione secondo cui il diritto alla percezione degli utili dell'impresa del marito operi in favore della moglie casalinga allorquando l'assolvimento del lavoro domestico in via esclusiva e full time della sola moglie consenta l'inserimento a tempo pieno di un altro familiare nell'organizzazione dell'impresa o permetta anche allo stesso imprenditore di dedicarsi totalmente all'esercizio della sua impresa. Se da tali eventi scaturisce un incremento di produttività dell'azienda, anche la moglie deve goderne degli utili, dal momento che l'ha reso possibile sottraendo del tutto il marito o uno dei figli dall'assolvimento di compiti domestici, facendo recuperare tempo da dedicare all'azienda di famiglia. Affinché detta connessione operi, il lavoro casalingo della moglie non deve essere configurato quale adempimento del dovere di contribuzione alla famiglia ex art. 143, comma 3, c.c., ma deve risultare il frutto di un'autonoma scelta, che comporti da un lato la rinuncia preventiva della moglie a ricercare altre possibilità lavorative e, dall'altro, sia finalizzata ad agevolare l'attività nell'impresa di famiglia degli altri componenti del nucleo familiare (cfr. Cass. n. 89/1995). Diritti patrimoniali Per quanto concerne il contenuto dei diritti previsti dalla norma, occorre soffermarsi in primo luogo sul diritto al mantenimento che ha per oggetto la somministrazione di quanto necessario a soddisfare le normali esigenze di vita del familiare lavoratore, da intendersi non già nel ristretto senso di mezzi strettamente indispensabili, bensì di mezzi in grado di assicurare un'esistenza libera e dignitosa. Tale diritto, che deve essere prestato secondo le condizioni patrimoniali della famiglia dell'imprenditore fa sì che tutti i lavoratori familiari, anche se non conviventi con il datore e non facenti parte, in senso stretto, della sua famiglia, siano trattati in maniera egualitaria. Il mantenimento si estende alla famiglia dell'avente diritto ed è identico per tutti i familiari ed è proporzionato alla condizione patrimoniale della famiglia e non dell'impresa, indipendentemente dall'entità del rapporto lavorativo. Il mantenimento non ha natura corrispettiva, ma alimentare ed assistenziale ed il suo fondamento si basa sulla solidarietà familiare (cfr. Cass. n. 4057/1992). Infatti il dato letterale attribuisce corrispettività solo alla partecipazione agli utili ed agli incrementi aziendali in proporzione al lavoro prestato, differentemente dal mantenimento che spetta a tutti i familiari in misura paritaria secondo la condizione patrimoniale della famiglia nel suo complesso, e non secondo l'andamento aziendale. Per partecipazione agli utili deve intendersi la differenza di valore del patrimonio aziendale nel momento attuale rispetto ad un momento iniziale. Ancorché la norma non subordini espressamente la partecipazione agli utili al presupposto dell'accertamento dell'incremento della produttività aziendale per effetto dall'apporto procurato dall'attività lavorativa del convivente, la Cassazione ritiene che si tratti di un presupposto necessario la cui prova spetta al famigliare ricorrente. Recentemente la Cassazione con ord. n. 1401/2021 ha precisato che la quota di partecipazione agli utili e agli incrementi del familiare va determinata, sulla base della quantità e qualità del lavoro svolto dal predetto, e non della sua effettiva incidenza causale sul loro conseguimento, in relazione al valore complessivo dell'impresa che si connota come entità dinamica soggetta a variazioni in funzione dell'andamento del mercato; ne deriva che, nella liquidazione della quota del familiare al momento della cessazione, va inclusa anche la rivalutazione di un fattore della produzione riferibile a cause estranee all'attività svolta dal partecipante, che si sia tradotto in un aumento di redditività dell'impresa medesima, ed analogamente i fattori di decremento dei beni che abbiano riflessi sulla produttività – conforme a Cass. sez. lav., n. 27108/2017. In giurisprudenza di merito si è orientato in tal senso il Trib. Roma 18 febbraio 2019). Si ritiene, altresì che non è obbligatoria la distribuzione periodica degli utili al termine di ogni esercizio finanziario ma possa essere differita ad un momento diverso, anche alla cessazione dell'impresa (cfr. Cass. n. 24560/2015). La percezione degli utili spettanti al convivente non ha la consistenza di un diritto reale, nel senso che non configura una situazione di contitolarità tra imprenditore e familiari nel momento della loro produzione, sebbene in tal senso parrebbe deporre il dettato letterale degli artt. 230-bis e ter c.c., laddove parla di “partecipazione agli utili”; assume, diversamente, la consistenza di un diritto di credito nei confronti dell'imprenditore, che opera esclusivamente nei rapporti interni tra i familiari (cfr. Cass. n. 11921/1999). Tale opzione è ritenuta preferibile alla luce delle difficoltà pratiche che scaturiscono dall'altra impostazione e che possono così riassumersi: la contitolarità degli utili comporterebbe l'applicazione della disciplina sulla comproprietà (artt. 1100 ss.) ivi compresa la facoltà per ciascun compartecipe di chiederne lo scioglimento in ogni momento o la cessione della quota a terzi o la liquidazione della quota; si tratta di disposizioni incompatibili coi principi e le regole che governano lo svolgimento di attività di impresa. In secondo luogo occorre rimarcare che il diritto agli utili dei familiari è insuscettibile di una precisa quantificazione dipendendo da un criterio incerto (la proporzione al lavoro prestato) e tra l'altro variabile nel tempo (ogni anno la partecipazione agli utili può variare in misura dell'incremento o della riduzione del lavoro prestato); è necessario, quindi, che la liquidazione della partecipazione agli utili sia posticipata successivamente alla loro produzione, dopo aver valutato la consistenza della qualità e quantità del lavoro prestato in azienda da ogni singolo familiare; e questo modus operandi è strutturalmente incompatibile con la natura di diritto reale degli utili prodotti, che sorgerebbero nel momento stesso in cui si producono. Il credito potrà essere preteso dai familiari al momento della cessazione dell'impresa o di ogni singolo anno finanziario, se non è stato stabilito il reimpiego degli utili. In questo senso, ad es.: Trib. Fermo 10 settembre 2019, n. 149). Oltre che ai beni acquistati, i familiari hanno il diritto di partecipare, sempre in proporzione al lavoro prestato, agli incrementi dell'azienda, che ricomprende qualunque aumento di valore dell'azienda o dei singoli beni aziendali, ed all'avviamento, che rappresenta una qualità dell'azienda, suscettibile di valutazione economica, che consiste nella differenza tra la misura degli utili prodotti dall'impresa prima dell'inizio della collaborazione del familiare e la misura degli utili prodotti successivamente, il cui accertamento dovrà avvenire al momento della estinzione o alienazione dell'impresa o della cessazione della partecipazione del familiare, sorgendo proprio all'esito della suddetta attività di liquidazione il suo diritto di credito. Il diritto di credito previsto dall'art. 230-bis c.c. si prescrive nell'ordinario termine decennale che decorre dal giorno della sua maturazione (Cass. n. 20273/2010 e Cass. n. 16477/2009). Sotto il profilo fiscale, è stato evidenziato in giurisprudenza che In materia di impresa familiare, il reddito percepito dal titolare, che è pari al reddito conseguito dall'impresa al netto delle quote di competenza dei familiari collaboratori, costituisce un reddito d'impresa, mentre le quote spettanti ai collaboratori, che non sono contitolari dell'impresa familiare, costituiscono redditi di puro lavoro, non assimilabili a quello di impresa, e devono essere assoggettati all'imposizione nei limiti dei redditi dichiarati dall'imprenditore; ne consegue che, dal punto di vista fiscale, in caso di accertamento di un maggior reddito imprenditoriale, lo stesso deve essere riferito soltanto al titolare dell'impresa, rimanendo escluso che possa essere attribuito "pro quota" agli altri familiari collaboratori aventi diritto alla partecipazione agli utili d'impresa (Cass. V, ord. n. 9198/2022); e che, per quanto concerne gli oneri deducibili dal reddito delle persone fisiche, il titolare dell'impresa familiare che versi contributi previdenziali nell'interesse dei collaboratori ha soltanto diritto di rivalsa nei confronti del beneficiato, potendo invece portare in deduzione il relativo importo unicamente nelle ipotesi in cui il collaboratore sia un familiare indicato nell'art. 433 c.c. e a condizione che sia persona a suo carico (Cass. V, n. 34168/2019); che in materia di impresa familiare, poiché non esiste alcun contratto sociale né un vincolo societario tra il titolare dell'impresa e i suoi collaboratori, la liquidazione del diritto di partecipazione all'impresa, afferendo alla sfera personale dei soggetti di tale rapporto, non è riconducibile a nessuna delle categorie reddituali previste dal d.P.R. n. 917/1986, sicché l'importo attribuito non è soggetto ad Irpef in capo al soggetto percipiente, non rileva come componente negativo e non è deducibile dal reddito di impresa, per mancanza del requisito di inerenza previsto dall'art. 109, comma 5, del t.u.i.r (Cass. ord. n. 40937/2021); che ai fini della liquidazione del danno patrimoniale da incapacità lavorativa in favore del titolare di un'impresa familiare, dall'utile prodotto dalla stessa va detratta la quota spettante al familiare collaboratore, non potendo quest'ultima qualificarsi come costo nella determinazione del reddito dell'impresa medesima (Cass. ord. n. 3856/2023). Il criterio di determinazione della corresponsione degli utili e degli altri elementi patrimoniali richiamati nella norma è costituito dalla proporzione della quantità e qualità al lavoro prestato. Si tratta di un criterio vago che attribuisce al Giudice del Lavoro adito un eccesso di discrezionalità nella commisurazione, che non solo comporta incertezze interpretative ed applicative in ordine ai singoli criteri che saranno utilizzati dal magistrato nella quantificazione, ma soprattutto arreca il rischio di disparità di trattamento da Tribunale a Tribunale per situazioni grossomodo analoghe. Sul punto si è precisato che non può essere utilizzato, come parametro, l'importo della retribuzione erogata per prestazioni di lavoro subordinato in analoga attività che prescinde dall'entità dei risultati conseguiti, a cui, invece, è commisurato il diritto del componente dell'impresa familiare e che, quanto al criterio di ripartizione delle quote, le percentuali indicate nella scrittura di costituzione dell'impresa hanno una portata meramente indiziaria e non sostitutiva rispetto all'apporto lavorativo effettivamente prestato (Cass. n. 20574/2008, conforme a Cass. n. 6631/2007 e Cass. n. 1332/1999). In caso di mancanza di accordo sulla ripartizione delle quote, il familiare che agisce in giudizio per vedersi attribuita la partecipazione agli utili spetta al famigliare ricorrente l'onere di provare la consistenza del patrimonio familiare, l'ammontare degli utili da distribuire e l'entità della sua quota di partecipazione in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato (Cass. n. 9683/2003; Cass. n. 17057/2008; Cass. sez. lav., ord. n. 27966/2018). Il Giudice del lavoro può, in sede di ripartizione degli utili in favore dei familiari compartecipanti, differenziare la posizione dell'imprenditore, in conseguenza delle maggiori responsabilità assunte, da quello del familiare che ha prestato la sua collaborazione in azienda (Cass. n. 1917/1999). Diritti sociali Quanto ai diritti sociali, l'art. 230-bis c.c., al comma 1, attribuisce al familiare-lavoratore il diritto di partecipare alle decisioni in ordine alle scelte concernenti l'impiego degli utili e degli incrementi, nonché a quelle inerenti alla gestione straordinaria, gli indirizzi produttivi e la cessazione dell'impresa. Detto diritto è riconosciuto a tutti i familiari che collaborano nell'impresa, che dispongono di un voto a testa, a prescindere dalla quantità e qualità dell'apporto lavorativo di ciascuno. I familiari che non hanno capacità di agire sono rappresentati nel voto dal loro rappresentante legale. Non partecipa invece alla decisione (e quindi è privo di diritto di voto) l'imprenditore che la legge configura come destinatario delle decisioni prese dai familiari. Nessuna formalità è richiesta dalla legge per la formazione della volontà di questi ultimi; è da escludere pertanto la necessità di indire un'assemblea (organo che nemmeno sussiste nelle società di persone). Il familiare potrà così esprimere la sua opinione in qualsiasi momento e con qualsiasi modalità, anche tacitamente o per facta concludentia. Diversamente i familiari che lavorano nell'impresa non hanno poteri gestori; la gestione e l'amministrazione dell'impresa spetta unicamente all'imprenditore; in mancanza di forme di pubblicità della partecipazione dei familiari, l'imprenditore è anche l'unico soggetto che può intrattenere rapporti coi terzi, assumendone le relative obbligazioni; ed i rapporti tra lui e i familiari rimarranno confinati nella sfera dei rapporti interni, non spiegando alcuna efficacia all'esterno. Nel caso in cui l'imprenditore disattenda la decisione assunta a maggioranza di ripartire gli utili prodotti dall'impresa, destinandoli con decisione unilaterale all'acquisto di beni per l'incremento aziendale, gli acquisti sono fatti salvi, non potendo i familiari opporre ai terzi la deliberazione contraria assunta a maggioranza, perché essa ha un'efficacia meramente interna; potranno però agire contro l'imprenditore per il risarcimento dei danni cagionati dalla violazione del deliberato maggioritario. Tale discorso vale anche per la più importante e incisiva decisione collettiva, ossia la cessazione dell'impresa; anche se la decisione viene adottata dalla maggioranza dei familiari contro il voto contrario dell'imprenditore, tale deliberazione non obbliga l'imprenditore a chiudere l'azienda; né, di converso, il voto dei familiari di mantenimento dell'impresa potrà obbligare il titolare a continuarla contro la sua volontà, se ritiene che l'impegno, di cui lui è unico responsabile, sia divenuto troppo gravoso. Anche in tal caso l'inottemperanza alla deliberazione assunta a maggioranza lo esporrà alla richiesta dei familiari di risarcimento dei danni che ne saranno conseguiti (Cass. n. 1917/1999 e Cass. n. 10412/1995). Le uniche norme giuridiche in cui la partecipazione dei familiari all'impresa individuale di un loro congiunto rileva anche nei rapporti esterni sono le seguenti il comma 4 dell'art. 5, d.P.R. n. 917/1986 dispone: «I redditi delle imprese familiari di cui all'art. 230-bis c.c., limitatamente al 49% dell'ammontare risultante dalla dichiarazione dei redditi dell'imprenditore, sono imputati a ciascun familiare, che abbia prestato in modo continuativo e prevalente la sua attività di lavoro nell'impresa, proporzionalmente alla sua quota di partecipazione agli utili. La presente disposizione si applica a condizione: a) che i familiari partecipanti all'impresa risultino nominativamente, con l'indicazione del rapporto di parentela o di affinità con l'imprenditore, da atto pubblico o da scrittura privata autenticata anteriore all'inizio del periodo d'imposta, recante la sottoscrizione dell'imprenditore e dei familiari partecipanti; b) che la dichiarazione dei redditi dell'imprenditore rechi l'indicazione delle quote di partecipazione agli utili spettanti ai familiari e l'attestazione che le quote stesse sono proporzionate alla qualità e quantità del lavoro effettivamente prestato nell'impresa in modo continuativo e prevalente, nel periodo d'imposta; c) che ciascun familiare attesti, nella propria dichiarazione dei redditi, di aver prestato la sua attività di lavoro nell'impresa in modo continuativo e prevalente”. Alla disposizione citata si aggiungono le norme sull'assicurazione previdenziale degli artigiani (l. n. 463/1959) o degli esercenti attività commerciali (l. n. 613/1966) che prevedono l'applicazione dell'assicurazione obbligatoria per l'invalidità, la vecchiaia e i superstiti rispettivamente degli artigiani o degli esercenti attività commerciali anche al coniuge, ai familiari, nonché, in seguito all'intervento della Corte costituzionale (Corte cost. n. 485/1992) agli affini entro il secondo grado. Scioglimento del rapporto Lo scioglimento del rapporto col singolo partecipante potrà derivare dalla morte del titolare, del lavoratore, per impossibilità definitiva di prestare il lavoro per motivi di età, salute, invalidità ecc. (un'impossibilità solo momentanea, anche se prolungata, avrebbe solo la conseguenza di incidere sulla partecipazione all'impresa, diminuendo la quantità del lavoro prestato), nonché dalla perdita della qualità di familiare. Quando si estingue la singola partecipazione, il familiare ha diritto alla liquidazione della quota di utili e di incrementi dell'azienda, commisurati alla qualità e quantità del lavoro prestato. La prestazione di lavoro può poi estinguersi per recesso del lavoratore o dell'imprenditore. Si ritiene che il familiare lavoratore possa decidere di abbandonare il lavoro senza onere di preavviso (ed anzi con un diritto al risarcimento quando il recesso sia giustificato dalla condotta dell'imprenditore) e che ben può configurarsi il recesso tacito (quando l'interessato trovi un'altra attività lavorativa incompatibile con la precedente); di contro, il recesso dell'imprenditore sarebbe lecito solo in presenza di giusta causa (che può consistere anche nel solo interesse della famiglia o dell'impresa familiare). In ogni caso la mancanza di giusta causa non rende inefficace il recesso, né può avere come conseguenza il mantenimento coatto del rapporto; l'unico effetto è l'obbligo di risarcire il danno cagionato al lavoratore. La valutazione della partecipazione va fatta al momento della cessazione dell'impresa o del singolo rapporto. Può poi procedersi alla liquidazione della partecipazione, malgrado il familiare continui ad esercitare il proprio lavoro nell'impresa anche quando l'azienda sia alienata da un imprenditore ad un altro familiare, piuttosto che ad un terzo estraneo. Prelazione L'art. 230-bis, comma 5, c.c., concede ai familiari-lavoratori la prelazione legale sull'azienda in caso di suo trasferimento o di divisione ereditaria, in tal modo tutelando il loro interesse alla prosecuzione dell'attività in ambito familiare. D'altra parte la prelazione comporta un minimo sacrificio per l'imprenditore: questi infatti rimane libero di disporre della sua azienda alienandola al prezzo che vorrà, con il solo limite di preferire i familiari a parità di condizioni offerte da terzi. Come si è anticipato, titolari del diritto di prelazione sono tutti i familiari-lavoratori, a prescindere dalla quantità e dalla qualità del lavoro prestato; l'esercizio potrà essere congiunto, ovvero disgiunto, quando solo alcuni vi abbiano interesse. Oggetto della prelazione è l'azienda nel suo complesso; ne consegue che la prelazione non opera, ove il trasferimento abbia ad oggetto singoli cespiti, salvo che l'importanza del bene sia tale da identificarlo praticamente con l'azienda (si fa l'esempio del fondo nel caso di impresa agricola). È ammissibile la prelazione su un ramo dell'azienda, stante l'idoneità dello stesso allo svolgimento dell'attività. La disciplina del diritto di prelazione è mutuata dall'art. 732 c.c., cui l'art. 230-bis c.c., fa espresso richiamo; ne consegue che l'imprenditore che intende alienare l'azienda deve notificare ai familiari-lavoratori la proposta di alienazione, indicandone il prezzo. |