Memoria difensiva avverso il ricorso del convivente di fatto per il riconoscimento degli utili dell'impresa familiare (art. 230-ter c.c.)InquadramentoL'art. 230-ter c.c. assicura una tutela giuridica inderogabile al convivente che presta attività lavorativa nell'impresa del partner; attribuisce, in particolare, al convivente il diritto di partecipare alla ripartizione degli utili e degli incrementi. FormulaTRIBUNALE CIVILE DI ... [1] SEZIONE LAVORO MEMORIA DIFENSIVA EX ART. 416 C.P.C.[2] Nell'ambito del giudizio iscritto al n. R.G. ... innanzi al Giudice Dr. .... Per: Sig. ..., nato a ... il ..., C.F. ... residente in ..., alla via ... n. ... [3], elettivamente domiciliato in ... via ... n. ... presso lo studio dell'Avv. ... che lo rappresenta e difende in forza di procura a margine/in calce al presente atto; - resistente - CONTRO Sig.ra ... nata a ... il ..., C.F. ... residente in ..., alla via ... n. ..., elettivamente domiciliata presso lo studio dell'Avv. ...; - ricorrente - FATTO Con ricorso depositato in data ..., la Sig.ra ... adiva Codesto Tribunale affinché accogliesse le seguenti conclusioni: “a. Riconoscere ed accertare la sussistenza di un rapporto di convivenza tra lei ed il Sig. ...; b. Riconoscere a favore della ricorrente una partecipazione agli utili dell'impresa gestita dal detto Sig. ..., nel periodo in cui è perdurata la collaborazione, pari al 33%, agli acquisti ed incrementi aziendali, nonché all'avviamento; Con vittoria di spese, diritti ed onorari del presente procedimento. Salvo ogni altro diritto”. A supporto la ricorrente esponeva: - di aver instaurato un rapporto di convivenza more uxorio con il Sig. ... dal 20 ... al 20 ... coabitando con lui presso l'appartamento sito in ... via ... n ... di proprietà esclusiva del compagno; - che a seguito di una serie di incomprensioni personali, la convivenza è cessata e la Sig.ra ... ha lasciato l'appartamento ove coabitava con il partner; - che durante gli anni di convivenza la Sig.ra ha collaborato in modo continuativo e prevalente all'impresa individuale del compagno che opera nel settore del ... con sede in ... via ... n. ... denominata ...; - che con scrittura privata del ... il Sig. ... titolare del predetto esercizio commerciale, riconosceva alla compagna il 33% degli utili annui prodotti dall'impresa. - che per effetto della collaborazione continuativa nell'attività commerciale del compagno ha diritto alla partecipazione degli utili proporzionata alla quantità del lavoro prestato ai sensi dell'art. 230-ter c.c. - che sussiste il presupposto della residualità della disposizione, non essendo configurabile tra le parti un rapporto societario di fatto o un rapporto che presentasse i profili della subordinazione. Tutto ciò premesso chiedeva il riconoscimento in suo favore del diritto a percepire il 33% degli utili annui prodotti dall'impresa ... negli anni in cui si è svolta la collaborazione. *** Con il presente atto si costituisce in giudizio il resistente, Sig. ..., impugnando il ricorso avversario e contestando la domanda in quanto infondata in fatto e per i seguenti motivi di FATTO E DIRITTO (descrivere i fatti e gli elementi di diritto posti a fondamento del rigetto della domanda) .... *** Alla luce di quanto suddetto, le domande vanno integralmente rigettate. P.T.M. Voglia il Tribunale adito, rigettare la domanda della ricorrente; con vittoria di spese. In via istruttoria [4] : ci si oppone all'ammissione dei mezzi istruttori articolati ex adverso, ivi compresa la CTU. In via gradata, nella ipotesi di ammissione dei mezzi istruttori articolati da controparte, si chiede l'ammissione dell'interrogatorio formale della ricorrente e del resistente e la prova per testi sui seguenti capitoli di prova con i testi Sigg.ri .... 1) Vero che ...; 2) Vero che ...; 3) Vero che .... Si deposita: 1. .... Luogo e data ... Firma Avv. ... PROCURA Delego a rappresentarmi e difendermi nel presente giudizio l'Avv. ..., eleggendo domicilio nello studio dello stesso in ..., via ... e conferendo al medesimo ogni più ampia facoltà di legge. Per autentica della sottoscrizione Firma Avv. ... 1. La domanda si incardina con ricorso innanzi al Giudice del lavoro competente secondo uno dei criteri dettati nell'art. 413, comma 2, c.c. 2. Si rammenta che con DM del 7 agosto 2023, n. 110 recante “Regolamento per la definizione dei criteri di redazione, dei limiti e degli schemi informatici degli atti giudiziari con la strutturazione dei campi necessari per l'inserimento delle informazioni nei registri del processo, ai sensi dell'articolo 46 delle disposizioni per l'attuazione del codice di procedura civile” pubblicato in GU Serie Generale n.187 del 11-08-2023 ed entrato in vigore in data 26/08/2023 sono stati indicati dal Ministero della Giustizia i criteri di redazione degli atti processuali delle parti private e dei Giudici. Si precisa nell'art. 3 che l'esposizione deve essere contenuta nel limite massimo di: a) 80.000 caratteri, corrispondenti approssimativamente a 40 pagine nel formato di cui all'art. 6, quanto all'atto di citazione e al ricorso, alla comparsa di risposta e alla memoria difensiva, agli atti di intervento e chiamata di terzi, alle comparse e note conclusionali, nonché agli atti introduttivi dei giudizi di impugnazione; b) 50.000 caratteri, corrispondenti approssimativamente a 26 pagine nel formato di cui all'art. 6, quanto alle memorie, alle repliche e in genere a tutti gli altri atti del giudizio; c) 10.000 caratteri, corrispondenti approssimativamente a 5 pagine nel formato di cui all'art. 6, quanto alle note scritte in sostituzione dell'udienza di cui all'art. 127-ter c.p.c., quando non è necessario svolgere attività difensive possibili soltanto all'udienza. Nel successivo art. 5 si precisa che i suddetti limiti dimensionali possono essere superati se la controversia presenta questioni di particolare complessità, anche in ragione della tipologia, del valore, del numero delle parti o della natura degli interessi coinvolti, ovvero nel caso di proposizione di una domanda riconvenzionale, di una chiamata di terzo, di un atto di integrazione del contraddittorio, di un atto di riassunzione o di un'impugnazione incidentale. Altro importante criterio di redazione degli atti è contenuto nell'art. 6 rubricato “tecniche redazionali” ove si invita l'utilizzo di caratteri di dimensioni di 12 punti; con interlinea di 1,5 e con margini orizzontali e verticali di 2,5 centimetri, con esclusione dell'inserimento di note. 3. In tutti gli atti introduttivi di un giudizio, compresa l'azione civile in sede penale e in tutti gli atti di prima difesa devono essere indicati, le generalità complete della parte, la residenza o sede, il domicilio eletto presso il difensore ed il C.F., oltre che della parte, anche dei rappresentanti in giudizio (art. 23, comma 50, d.l. n. 98/2011, conv., con modif., in l. n. 111/2011). 4. Trovando applicazione il rito del lavoro, vi è un onere di completezza degli atti introduttivi anche con riferimento alle richieste istruttorie, che devono essere formulate, a pena di decadenza, con gli stessi. CommentoPremessa La rapida diffusione del fenomeno delle convivenze di fatto richiedeva una regolamentazione giuridicamente efficace, sia per quanto concerne gli aspetti dei rapporti personali sia di quelli patrimoniali, ivi compreso il riconoscimento di diritti in favore del convivente more uxorio che presti attività lavorativa nell'interesse e nell'impresa del compagno. L'esigenza di un intervento normativo in tal senso fu avvertita dal legislatore già nel 2007, allorché venne resa oggetto di un disegno di legge rimasto senza esito; ma l'intento di accordare un riconoscimento giuridico ai conviventi more uxorio ha poi trovato attuazione con la l. n. 76/2016, sulla “Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze”, il cui art. 1, comma 46, ha introdotto nel codice civile l'art. 230-ter che recita “Al convivente di fatto che presti stabilmente la propria opera all'interno dell'impresa dell'altro convivente spetta una partecipazione agli utili dell'impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell'azienda, anche in ordine all'avviamento, commisurata al lavoro prestato. Il diritto di partecipazione non spetta qualora tra i conviventi esista un rapporto di società o di lavoro subordinato”. Va subito evidenziato che il legislatore non ha equiparato la convivenza more uxorio alla famiglia unita in matrimonio ed all'unione civile formalizzata, regolata dalla stessa l. n. 76/2016 che invece è stata equiparata a tutti gli effetti alla famiglia matrimoniale. Il legislatore non ha ricompreso le convivenze di fatto tra i rapporti familiari idonei alla costituzione dei diritti sanciti dall'art. 230-bis c.c., ma vi ha dedicato una norma ad hoc, nel comma 46, l'art. 230-ter c.c. appunto, ove è prevista una tutela più ridotta rispetto a quella assicurata ai familiari dell'imprenditore dall'art. 230-bis c.c. Nonostante la menzionata differenza di disciplina, la formulazione similare delle due disposizioni consente di estendere all'art. 230-ter c.c., i risultati ermeneutici raggiunti nell'esame esegetico dell'art. 230-bis c.c. Da ricordare l'Ordinanza della Cassazione n. 2121/2023 in cui è stata rimessa alle Sezioni Unite, la questione “...di massima di particolare importanza, se l'art. 230-bis, comma 3, c.c., possa essere interpretato, in considerazione dell'evoluzione dei costumi nonché della giurisprudenza costituzionale e della legislazione nazionale in materia di unioni civili tra persone dello stesso sesso, con una esegesi orientata sia agli artt. 2,3,4 e 35 Cost., che all'art. 8 CEDU, come inteso dalla Corte di Strasburgo, nel senso di prevedere l'applicabilità della relativa disciplina anche al convivente “more uxorio”, laddove la convivenza di fatto sia caratterizzata da un grado accertato di stabilità”; ciò per i rapporti instaurati prima dell'introduzione dell'art. 230-ter c.c. Diritti di partecipazione agli utili I diritti di partecipazione agli utili sorgono per il convivente in presenza di due presupposti costitutivi, uno soggettivo e l'altro oggettivo. Il primo consiste nella sussistenza di un rapporto di convivenza more uxorio tra il prestatore di lavoro e l'imprenditore. La definizione di “convivenza di fatto” è contenuta nel comma 36 dell'art. 1, l. n. 76/2016, che recita: “si intendono per conviventi di fatto due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un'unione civile” come integrata dal successivo comma 37, secondo cui “per l'accertamento della stabile convivenza si fa riferimento alla dichiarazione anagrafica prevista dall'art. 4, d.P.R. n. 223/1989”. Tale dichiarazione ha natura probatoria e non costitutiva. Ne consegue che i diritti dell'art. 230-ter c.c., spettano al convivente di fatto che collabori nell'impresa familiare per il sol fatto di aver instaurato una convivenza stabile e duratura con l'imprenditore, la cui prova sarà agevolata, in un eventuale giudizio, dalla esibizione della dichiarazione anagrafica di cui all'art. 4, d.P.R. n. 223/1989, che ha appunto efficacia solo probatoria; ma, ove difetti tale dichiarazione, il convivente potrà provare anche in altro modo (con prova testimoniale), la stabilità del rapporto di vita comune. Prestazione del lavoro nell'impresa Il secondo presupposto costitutivo consiste nella prestazione stabile di lavoro all'interno dell'impresa del convivente, definizione sostanzialmente analoga alla formulazione dell'art. 230-bis c.c. La locuzione “stabilmente” richiede che la collaborazione non sia occasionale o saltuaria, ma deve perdurare nel tempo e comportare un impegno costante del lavoratore volto a soddisfare un interesse durevole del destinatario. Dalla definizione non emerge che la prestazione di lavoro debba necessariamente essere svolta a tempo pieno, o con carattere di esclusività e prevalenza, dovendosi soltanto concretizzare in un apporto continuativo all'impresa del convivente. La prestazione può esplicarsi in qualunque attività manuale o intellettuale, di natura esecutiva o direttiva, senza però sconfinare in una cogestione dell'impresa, che farebbe sorgere un rapporto di tipo societario, escluso dal campo di applicazione dell'art. 230-ter c.c. In particolare, stante il carattere residuale della disposizione, l'apporto collaborativo del convivente può consistere solo in prestazioni inquadrabili in un rapporto di lavoro autonomo; la disciplina dell'art. 230-ter c.c., sarebbe, infatti, incompatibile con prestazioni che presentino indici di subordinazione (in relazione alle quali il convivente che ne pretende il compenso deve agire in giudizio dimostrando la costituzione di un rapporto di lavoro subordinato con il convivente imprenditore, sebbene non contrattualizzato, al fine di conseguirne il diritto alla retribuzione secondo la disciplina giuridica specificamente applicabile al tipo di rapporto), mutuando la stessa conclusione emersa in seno all'analogo dibattito che si è aperto sulla questione con riferimento all'art. 230-bis c.c. Tale conclusione è giustificata dal dettato letterale della norma, con particolare riferimento alla tipologia di diritti patrimoniali spettanti al convivente, che consistono nella “partecipazione agli utili dell'impresa familiare; ai beni acquistati con essi; agli incrementi dell'azienda, anche in ordine all'avviamento”. Si tratta di diritti patrimoniali incompatibili con quelli che scaturiscono da un rapporto lavorativo di tipo subordinato, come la retribuzione, l'accantonamento del TFR, la tredicesima mensilità, ecc. Per l'effetto, l'art. 230-ter c.c. deve ritenersi inapplicabile anche alle prestazioni riconducibili ad un rapporto di lavoro coordinato e continuativo, attesa l'equiparazione di disciplina tra le due figure prevista dal d.lgs. n. 81/2015. La dottrina offre un'interpretazione restrittiva del concetto di “impresa”, escludendo l'applicazione dell'art. 230-ter c.c., alle attività lavorative del convivente prestate in altre forme produttive, come ad es. la collaborazione nello studio professionale del convivente (commercialista, avvocato), analogamente a quanto avviene per l'art. 230-bis c.c. Anche in tal caso la conclusione è fondata sul dato letterale, in quanto l'art. 230-ter c.c., richiede necessariamente l'esistenza di un'impresa tipica, se si deve dare un senso ai concetti di partecipazione agli utili, ai beni e agli incrementi dell'azienda, all'avviamento. Ciò chiarito, la dimensione dell'impresa può indifferentemente essere piccola, media o grande, e l'oggetto sociale può essere di qualsiasi tipo, ad eccezione delle attività per le quali è prevista una particolare forma societaria (ad es. bancarie e assicurative). L'art. 230-ter c.c., è applicabile esclusivamente in ipotesi di partecipazione ad imprese individuali. Diritti patrimoniali Venendo ora al contenuto dei diritti patrimoniali attribuiti dalla norma in commento, occorre soffermarsi in primo luogo sulla partecipazione agli utili, per tali intendendosi le differenze di valore del patrimonio aziendale nel momento attuale rispetto ad un momento iniziale. Ancorché la norma non subordini espressamente la partecipazione agli utili al presupposto dell'accertamento dell'incremento della produttività aziendale per effetto dall'apporto procurato dall'attività lavorativa del convivente, la Cassazione ha ritenuto, in sede di interpretazione dell'art. 230-bis c.c., che si tratti di un presupposto necessario la cui prova spetta al famigliare ricorrente. Il criterio di determinazione della corresponsione degli utili e degli altri elementi patrimoniali richiamati nella norma è costituito dalla commisurazione del lavoro prestato. Si tratta del vero nodo gordiano della formulazione, in quanto il legislatore offre solo un criterio vago ed indeterminato, un principio astratto privo di indicazioni e parametri per la liquidazione concreta (analoghi problemi ha suscitato anche la formulazione dell'art. 230-bis c.c.). Naturalmente, il primo criterio di liquidazione degli utili è l'accordo delle parti (ad es. l'imprenditore riconosce al suo convivente il 33% degli utili prodotti dall'impresa ogni anno, come nel caso ipotizzato nella formula). Il problema della quantificazione degli utili si pone, pertanto, in ipotesi di mancato accordo tra i conviventi, e di azione in sede giudiziale. Spetta, in questo caso, al Giudice del Lavoro il compito di interpretare ed arricchire di contenuti concreti il criterio astratto della commisurazione del lavoro prestato. Naturalmente tale parametro richiede che la quantificazione debba essere fondata sulla valutazione della quantità e qualità del lavoro prestato in azienda, e debba rispettare il principio di proporzionalità. E naturalmente spetta al convivente di fatto ricorrente provare in giudizio non solo l'apporto lavorativo prestato ma anche l'esistenza di utili conseguiti dall'impresa o di beni acquistati con tali utili o di incrementi conseguiti dall'azienda, anche grazie al proprio apporto lavorativo (App. Roma 9 novembre 2018). La difficoltà pratica posta dalla formulazione della norma consiste nell'attribuzione di un eccesso di discrezionalità al giudicante, che non solo comporta incertezze interpretative ed applicative in ordine ai singoli criteri che saranno utilizzati dal magistrato nella quantificazione, ma soprattutto arreca il rischio di disparità di trattamento da Tribunale a Tribunale per situazioni grossomodo analoghe. Altra questione interpretativa di notevole importanza, sorta già nel dibattito relativo all'art. 230-bis c.c., attiene alla natura giuridica del diritto alla percezione degli utili spettanti al convivente. Si contendono il campo due diverse ipotesi ricostruttive: secondo la prima tale diritto avrebbe la consistenza di un diritto reale, nel senso che si creerebbe una situazione di contitolarità tra imprenditore, familiari e conviventi nel momento della loro produzione. L'altra ipotesi lo configura come un diritto di credito nei confronti del convivente imprenditore. Tale opzione è nettamente preferibile alla luce delle difficoltà pratiche che scaturiscono dall'altra e che possono così riassumersi: la contitolarità degli utili comporterebbe l'applicazione della disciplina sulla comproprietà (artt. 1100 ss.) ivi compresa la facoltà per ciascun compartecipe di chiederne lo scioglimento in ogni momento o la cessione della quota a terzi o la liquidazione della quota; si tratta di disposizioni incompatibili con i principi e le regole che governano lo svolgimento di attività di impresa; in secondo luogo, la mancata previsione di forme pubblicitarie attestanti la collaborazione del convivente nell'impresa comporterebbe un'intollerabile situazione di incertezza nei rapporti coi terzi, soprattutto in caso di acquisti compiuti dall'imprenditore con i proventi e gli utili aziendali; infatti, dal momento che il convivente non può partecipare alle decisioni sull'utilizzo degli utili, appare difficile sostenere che l'imprenditore agisca anche come suo mandatario senza rappresentanza; ed infine occorre rimarcare che il diritto agli utili del convivente è insuscettibile di una precisa quantificazione dipendendo da un criterio incerto (la commisurazione al lavoro prestato) e tra l'altro variabile nel tempo (ogni anno la partecipazione agli utili può variare in misura dell'incremento o della riduzione del lavoro prestato); è necessario, quindi, che la liquidazione della partecipazione agli utili sia posticipata successivamente alla loro produzione, dopo aver valutato la consistenza della qualità e quantità del lavoro prestato in azienda dal convivente; e questa necessità strutturalmente incompatibile con la natura di diritto reale degli utili prodotti che sorgerebbe nel momento stesso in cui gli utili sono prodotti. Preferibile, quindi, è l'impostazione che configura il diritto agli utili come un diritto di credito, che opera esclusivamente nei rapporti interni tra i due conviventi. Tale soluzione è stata accolta dalle S.U. della Cassazione in sentenza Cass. S.U., n. 23676/2014, cui si è conformata Cass. V, ord. n. 34222/2019. Il credito potrà essere preteso dal convivente al momento della cessazione dell'impresa o di ogni singolo anno finanziario, se non è stato stabilito il reimpiego degli utili. Oltre che ai beni acquistati, il convivente lavoratore ha il diritto di partecipare, sempre in considerazione del lavoro prestato, agli incrementi dell'azienda, anche in ordine all'avviamento. L'espressione “incrementi” deve essere intesa in senso ampio, ricomprendendovi qualunque aumento di valore dell'azienda o dei singoli beni aziendali. Per quanto concerne l'avviamento esso consiste nel maggior valore attribuibile all'impresa rispetto alla somma dei valori di mercato dei beni che lo compongono e che è costituito da un insieme di elementi immateriali che contribuiscono a rendere apprezzabile la sua presenza sul mercato. La sua determinazione di termini pecuniari dovrà avvenire al momento della estinzione o alienazione dell'impresa o della cessazione della partecipazione del convivente, sorgendo proprio all'esito della suddetta attività di liquidazione il diritto di credito del convivente. |