Caso Cospito: lo sciopero della fame è una condizione di salute “autoprodotta” e non rileva per il giudizio di incompatibilità con il carcere

03 Gennaio 2024

Con la sentenza in commento, la Prima Sezione della Corte di cassazione ha chiuso il cerchio rispetto alla questione della non incidenza dello sciopero della fame del detenuto, quale situazione di precarietà di salute autoprodotta, sul giudizio di bilanciamento ai fini della concessione del differimento facoltativo della pena per motivi di salute, anche nelle forme della detenzione domiciliare.

Massima

La condizione di salute “autoprodotta” dal detenuto è ininfluente e come tale non può incidere sul giudizio di bilanciamento tra la compatibilità della permanenza in carcere e adeguatezza delle cure intramurarie, da un lato, e salute, del detenuto, dall'altro. Lo sciopero della fame, quindi, è una condizione ostativa alla concessione del differimento della pena o di applicazione di una misura alternativa alla detenzione.

Il caso

La Cassazione ha confermato il provvedimento di rigetto del Tribunale di Sorveglianza di Milano nel caso del detenuto Alfredo Cospito.

In un precedente contributo, si erano analizzate le motivazioni delle due ordinanze che hanno interessato il caso Cospito, da quella di Milano, a quella di Sassari, che era stata interpellata in data precedente al trasferimento di Cospito da Bancali-Sassari a Milano-Opera (V. Manca, Diritto abusato o abuso di diritto negato? Prime riflessioni a margine dei due rigetti contestuali sul differimento della pena per motivi di salute nel caso di Alfredo Cospito).

Per quanto di interesse, preme ricordare che il Tribunale di Sorveglianza di Milano avesse ritenuto infondata la richiesta di differimento della pena per motivi di salute, argomentando sulla mancanza di requisiti fondamentali e caratterizzanti l'istituto, e, in ordine, in particolare, ai seguenti punti: (i) stato patologico che configurasse una prognosi infausta quoad vitam ravvicinata; (ii) affezione che determinasse la probabilità conseguenze dannose, eliminabili o procrastinabili con cure o trattamenti non praticabili in regime intramurario, neppure mediante ricovero in luoghi esterni di cura ai sensi dell'art. 11 ord. penit.; (iii) condizioni di salute talmente gravi da porre l'espiazione della pena in contrasto con il senso di umanità o comunque da non consentire al condannato di partecipare e dell'età del condannato comparativamente con la sua pericolosità sociale.

Il Tribunale di Sorveglianza di Milano aveva poi dedicato ampio spazio all'ulteriore requisito della condotta collaborativa del detenuto sia a sottoporsi alle cure mediche sia a non autoinfliggersi o indursi in condizioni di salute peggiorative. A tal proposito aveva fatto ampio richiamo alla giurisprudenza di legittimità, anche più recente per cui: «la condizione di sofferenza autoprodotta dal condannato, realizzata cioè mediante comportamenti come la mancanza di collaborazione per lo svolgimento di terapie e di accertamenti o il rifiuto di medicamenti e del cibo, non può essere presa in considerazione ai fini del bilanciamento tra esigenze di salvaguardia dei diritti fondamentali ed obblighi di effettività della risposta punitiva, non potendosi pretendere la tutela di un diritto abusato ed esercitato in funzione di un risultato estraneo alla sua causa» (v. Cass. pen., Sez. I, 01.02.2022, n. 7927). Secondo tale orientamento, infatti, «i trattamenti sanitari nei confronti del detenuto sono incoercibili ma, se potenzialmente risolutivi di condizioni di salute deteriori, in forza delle quali il detenuto medesimo chiede il differimento della pena, o una misura alternativa alla detenzione, la loro accettazione si pone come condizione giuridica necessaria alla positiva valutazione della relativa richiesta» (v. Cass. pen., sez. I, 15 novembre 2019, n. 5447).

La questione

La questione sottoposta all'attenzione della Prima Sezione della Corte di cassazione è quindi la medesima trattata dal Tribunale di Sorveglianza di Milano. Avverso l'ordinanza di rigetto, la difesa ha infatti presentato ricorso per cassazione, ritenendo vi fosse stata, da parte dei giudici di sorveglianza, una violazione di legge e un errore di motivazione.

La difesa ritiene che la diversa collocazione del detenuto, anziché al domicilio, come da lui richiesto in misura, ma presso la struttura ospedaliera, avesse causato al detenuto un ulteriore danno, tenuto conto della mancanza di socialità e del suo totale isolamento; si sostiene inoltre che il Tribunale di Sorveglianza non avesse motivato in ordine all'attualità dell'incompatibilità del regime carcerario, ma si fosse limitata a ritenere adeguate le cure mediche apprestate in ambito ospedaliero. Per la Procura Generale, il ricorso è infondato, dato che il Tribunale di Sorveglianza non avrebbe fatto altro che applicare le regole generali in materia e avrebbe concluso per la non sussistenza dei presupposti necessari per disporre la detenzione domiciliare.

Le soluzioni giuridiche

Secondo la Prima Sezione, il ricorso è inammissibile.

Le condizioni precarie di salute “autoprodotte” dal detenuto sono ininfluenti sulla valutazione della richiesta di differimento della pena per motivi di salute: tale principio trova conferma nella più recente giurisprudenza di legittimità, tra cui Cass. pen., n. 5447/2019, a mente della quale: «I trattamenti sanitari nei confronti del detenuto sono incoercibili ma, se potenzialmente risolutivi di condizioni di salute deteriori, in forza delle quali il detenuto medesimo chiede il differimento della pena, o una misura alternativa alla detenzione, la loro accettazione si pone come condizione giuridica necessaria alla positiva valutazione della relativa richiesta».

In tal senso, anche: Cass. pen., n. 46730/2011.

Con una recente pronuncia, inoltre, la Cassazione ha ribadito che: «Il rifiuto del condannato, affetto da grave infermità fisica, di ricovero in un reparto detentivo dotato di struttura sanitaria di osservazione e monitoraggio di eventi critici costituisce condizione ostativa alla positiva valutazione della richiesta di differimento della pena o di applicazione di una misura alternativa alla detenzione, non potendo essere consentito al predetto di ostacolare le iniziative di cura di cui necessita, così da rimettere surrettiziamente alla sua scelta la permanenza in un istituto detentivo» (v. Cass. pen., n. 7369/2022). Secondo la Cassazione è del tutto coerente la decisione del Tribunale di sorveglianza di Milano, laddove ha ritenuto che l'attuale condizione clinica del condannato fosse, in concreto, l'inevitabile conseguenza della sua precisa scelta di non alimentarsi e che tale opzione fosse – in modo radicale – ostativa alla positiva valutazione dell'istanza di differimento della pena.

Osservazioni

La sentenza in commento conferma in pieno l'impostazione fornita dalla giurisprudenza di merito, sia del Tribunale di Sorveglianza di Milano sia di quello di Sassari e si colloca in linea con gli orientamenti più recenti della Cassazione in materia di salute in carcere. In particolar modo, si conferma l'indirizzo giurisprudenziale per cui lo sciopero della fame non può essere considerato un elemento utile ai fini della concessione della misura alternativa, dato che si ritiene che la precarietà dello stato di salute derivi, e ciò anche se non interamente, da un comportamento consapevole e strumentale del detenuto.

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