La mera accettazione da parte del pubblico agente di un'indebita utilità a fronte del compimento di un atto discrezionale non integra necessariamente il reato di corruzione propria, dovendosi verificare, in concreto, se l'esercizio dell'attività sia stata condizionata dalla "presa in carico" dell'interesse del privato corruttore, comportando una violazione delle norme attinenti a modi, contenuti o tempi dei provvedimenti da assumere e delle decisioni da adottare, ovvero se l'interesse perseguito sia ugualmente sussumibile nell'interesse pubblico tipizzato dalla norma attributiva del potere, nel qual caso la condotta integra il meno grave reato dì corruzione per l'esercizio della funzione.
Il caso e la questione controversa
Fattispecie cautelare relativa a concorso nel reato di corruzione per l'esercizio della funzione da parte del commissario straordinario di un consorzio di bonifica che, consapevole delle indebite dazioni elargite all'assessore regionale, su sua indicazione, aveva rinnovato l'incarico di direttore amministrativo in favore della figlia del privato corruttore. Il Tribunale del riesame, nel confermare l'ordinanza cautelare, riqualificava l'imputazione provvisoria in corruzione impropria, piuttosto che corruzione per l'esercizio della funzione, sul presupposto della realizzazione di un atto contrario ai doveri di ufficio.
Il ricorrente contestava la sussistenza dei gravi indizi di reità oltre che delle esigenze cautelari.
Il principio di diritto
Cass. pen., sez VI, 26 gennaio 2023, n. 6557
«È configurabile il concorso nel reato di corruzione del soggetto che, pur non ricevendo utilità dirette, sia consapevole della dazione o promessa illecita e del rapporto sinallagmatico con l'esercizio della funzione e che in tale accordo si inserisca, fornendo un contributo materiale necessario alla sua realizzazione».
Il contrasto
L'elasticità della discrezionalità
La Sesta Sezione penale ha annullato con rinvio la ordinanza impugnata per nuovo giudizio in relazione alla sussistenza delle esigenze cautelari.
In tale occasione è stato affermato un importante principio che tende ormai a consolidarsi nella giurisprudenza di legittimità, secondo cui l'inserimento del patto corruttivo nell'ambito dell'esercizio di un potere discrezionale non implica necessariamente l'integrazione dell'ipotesi di cui all'art. 319 c.p., dovendosi verificare se l'atto sia posto in essere in violazione delle regole che disciplinano l'esercizio del potere discrezionale e se il pubblico agente abbia pregiudizialmente inteso realizzare l'interesse del privato corruttore (in tal senso, tra le altre, Cass. pen., sez. VI, n. 44142/2023, Rv. 285366; Cass. pen., sez. VI, n. 1594/2020, Rv. 280342).
Nel caso di specie, non è stato evidenziato se ed in che misura il compimento dell'atto discrezionale (id est proroga di un incarico di direttore amministrativo) fosse obiettivamente confliggente con l'interesse pubblicistico, elemento che doveva essere puntualmente valutato, non potendosi ritenere che il mero accordo corruttivo renda di per sé l'atto contrario ai doveri d'ufficio. In questo senso si è inteso valorizzare la diversa struttura dei delitti corruttivi ed, in particolare, la progressione criminosa di cui sono espressione: là dove l'art. 318 c.p. configura una fattispecie di pericolo; di contro, l'art. 319 c.p. individua un reato di danno.
Secondo altro orientamento, invece, integra il delitto di corruzione propria la condotta del pubblico ufficiale che, dietro elargizione di un indebito compenso, esercita i poteri discrezionali spettantigli, rinunciando ad una imparziale comparazione degli interessi in gioco, al fine di raggiungere un esito predeterminato, anche quando questo risulta coincidere ex post con l'interesse pubblico, e salvo il caso di atto sicuramente identico a quello che sarebbe stato comunque adottato in caso di corretto adempimento delle funzioni, in quanto, ai fini della sussistenza del reato in questione e non di quello di corruzione impropria, l'elemento decisivo è costituito dalla "vendita" della discrezionalità accordata dalla legge (Cass. pen., sez. VI, n. 6677/2016, Rv. 267187; Cass. pen., sez. VI, n. 34979/2020, Rv. 280321; Cass. pen., sez. VI, n. 51765/2018, Rv. 277562).
Alla luce di questa impostazione si ritiene, pertanto, che l'attività discrezionale diretta alla realizzazione di un interesse non istituzionale configura di per sé il requisito della contrarietà ai doveri di ufficio, anche se l'esercizio della stessa si traduce nel compimento di atti formalmente legittimi. Tale esercizio di poteri pubblici determina con immediatezza un pregiudizio per l'imparzialità ed il buon andamento dell'amministrazione.
La dottrina
In dottrina si registrano posizioni adesive all'orientamento in commento e, nello specifico, si osserva che risulta corretto ritenere come sia violato il dovere che incombe sull'agente pubblico di agire con imparzialità allo scopo di realizzare l'interesse pubblico in tutti i casi in cui questi, nell'esercizio del potere discrezionale, privilegi dietro corrispettivo l'interesse privato, tramite l'adozione di un atto che trovi in tale interesse il proprio principale od esclusivo fondamento; pur potendo ragionevolmente optare per diverse soluzioni maggiormente coerenti con le finalità istituzionali.
Di conseguenza, secondo questa impostazione, la fattispecie di cui all'art. 319 c.p. si configura esclusivamente nelle ipotesi in cui l'agente pubblico viola le regole che disciplinano l'esercizio del potere discrezionale attraverso una non corretta ponderazione degli interessi coinvolti, favorendo l'interesse del privato in danno di quello pubblico; là dove, di converso, il potere discrezionale sia correttamente esercitato, la condotta integra la fattispecie ex art. 318 c.p. perché la semplice esistenza dell'accordo corruttivo non è di per sé sufficiente a giustificare l'incriminazione più severa (1).
(1) N. Ortu, L'equilibrio irrequieto tra discrezionalità amministrativa, corruzione per l'esercizio della funzione e per atto contrario ai doveri d'ufficio, in Cassazione penale, 9, 2023, pp. 2848-2874.
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