Le impugnazioni proponibili dal pubblico ministero avverso le sentenze di condanna emesse nel giudizio abbreviato

31 Gennaio 2024

Nella sentenza in commento la Corte di cassazione ha avuto modo di precisare in che termini il pubblico ministero può impugnare una sentenza di condanna resa al termine del giudizio abbreviato.

Massima

All'esito del giudizio abbreviato, il pubblico ministero, se lamenta il vizio di violazione di legge nella determinazione della pena, può impugnare la sentenza di condanna solo con il ricorso in cassazione; se l'imputato ha proposto appello, tuttavia, il ricorso per cassazione del pubblico ministero si converte in appello.

Il caso

La Corte di appello di Roma confermava la condanna per peculato e falso in certificati inflitta a un'infermiera di un ospedale laziale che, dopo essersi appropriata di farmaci e attrezzatture mediche di vario tipo, nonché di un certo numero di tamponi per la ricerca del Covid-19, aveva poi rilasciato a una pluralità di persone falsi certificati apparentemente emessi da autorità sanitarie. Veniva altresì accolto l'appello incidentale presentato dal pubblico ministero, il quale aveva lamentato che il giudice di prime cure, dopo aver ritenuto quale reato più grave il peculato, aveva determinato la pena prendendo a base quella di tre anni e nove mesi di reclusione, inferiore rispetto al limite edittale fissato in quattro anni.

L'imputata proponeva quindi ricorso per cassazione, articolandolo su due motivi.

Con il primo motivo veniva dedotta la violazione dell'art. 443 c.p.p., evidenziando come la sentenza di condanna di primo grado, resa all'esito di giudizio abbreviato, non poteva essere appellata dal pubblico ministero: quest'ultimo, infatti, ai sensi del terzo comma dell'art. 443 c.p.p., può impugnare una sentenza di condanna solo nel caso in cui sia stato modificato il titolo del reato, circostanza non ravvisabile nel caso in esame.

Con il secondo motivo si invocava la nullità del giudizio di appello, svoltosi senza che nel decreto di citazione si facesse menzione dell'impugnazione incidentale proposta dal pubblico ministero.

I giudici di legittimità accoglievano il primo motivo di ricorso (ritenendo di conseguenza assorbito il secondo) e annullavano senza rinvio la sentenza impugnata, limitatamente alla riforma della pena disposta dal giudice di appello in accoglimento dell'impugnazione del pubblico ministero: il trattamento sanzionatorio veniva così rideterminato nella misura stabilita dal giudice di primo grado, pari a complessivi due anni di reclusione.

La questione

La questione sottoposta al vaglio della Suprema Corte va affrontata alla luce di quanto dispone il terzo comma dell'art. 443 c.p.p., che prevede espressamente l'inappellabilità da parte del pubblico ministero delle sentenze di condanna, «salvo che si tratti di sentenza che modifica il titolo del reato».

Nel caso di specie, oltretutto, il pubblico ministero aveva impugnato la sentenza di prime cure in via incidentale; di talché si è resa necessaria da parte della Corte un'analisi preliminare dell'istituto dell'appello incidentale, disciplinato dall'art. 595 c.p.p.

Orbene, già a partire dalla pronuncia a Sezioni Unite Rabiti del 1993 (Cass. pen., n. 7247/1993) era stato stabilito che non può proporre appello incidentale chi è privo del potere di proporre quello principale: nel giudizio abbreviato, pertanto, il pubblico ministero non può proporre appello incidentale quando quello principale gli sia precluso in base al terzo comma dell'art. 443 c.p.p.

Il principio è stato ribadito, più di recente, da Cass. pen., sez. III, 12 gennaio 2016, n. 7858, che ha richiamato anche la conclusione cui era giunta la Corte costituzionale nella sentenza n. 89/1994. Secondo la Consulta, in particolare, gli artt. 443 e 595 c.p.p., nella parte precludono al pubblico ministero di proporre gravame incidentale ove l'imputato impugni in via principale la sentenza di condanna, non contrastano con gli artt. 3 e 112 Cost., giacché si tratta di scelte insindacabili rientranti nelle esclusive prerogative del legislatore. La diversità dei poteri spettanti ai fini delle impugnazioni nel giudizio abbreviato all'imputato e al pubblico ministero, infatti, si giustifica in base alla differente garanzia loro assicurata, rispettivamente, dagli artt. 24 e 112 Cost.

Con la sentenza a Sezioni Unite Michaeler (Cass. pen., n. 10251/2006), inoltre, era stato precisato che l'appello incidentale può concernere solo i punti della decisione oggetto dell'appello principale, nonché quelli ad essi strettamente connessi. Anche in questo caso veniva richiamata una pronuncia della Corte costituzionale (la n. 280 del 1995), che aveva ritenuto non fondata, in riferimento all'art. 112 Cost., la questione di legittimità dell'art. 595 c.p.p., sul presupposto che l'appello incidentale non ha una funzione deterrente, ma soltanto antagonista, rispetto all'appello principale. Secondo la Consulta, infatti, appariva «equo e ragionevole assicurare, alla parte che si era risolta a fare acquiescenza alla sentenza del primo giudice, il mezzo per impedire che la sentenza di secondo grado possa sacrificare le proprie ragioni».

L'art. 4 del d.lgs. n. 11/2018 ha poi modificato l'art. 595 c.p.p. in attuazione della delega di cui alla legge n. 103/2017, il cui art. 1, comma 84, lett. m), stabiliva di «prevedere la titolarità dell'appello incidentale in capo all'imputato e limiti di proponibilità": l'obiettivo dichiarato del legislatore delegante era quello di attribuire all'appello incidentale "una spiccata funzione difensiva» (cfr. la relazione al disegno di legge n. 2798 della XVII legislatura, richiamata da Cass. pen., sez. III, 3 novembre 2022, n. 45249).

Per l'effetto, il novellato primo comma dell'art. 595 ora dispone che l'unico titolato a proporre l'appello incidentale è l'imputato, sicché deve ritenersi che al pubblico ministero sia radicalmente preclusa la possibilità di presentarlo.

Ad ogni modo, l'art. 595 c.p.p. deve essere letto in connessione all'art. 593 c.p.p., disciplinante i casi di appello in generale.

Il primo comma dell'art. 593 c.p.p., in particolare, esordisce richiamando e facendo salvi i limiti all'appellabilità delle sentenze rese in sede di abbreviato («salvo quanto previsto dagli articoli 443, comma 3, …»). Di conseguenza, la disciplina speciale dettata dall'art. 443 c.p.p. prevale su quella generale: il pubblico ministero, pertanto, non può appellare (né in via principale, né tantomeno in via incidentale) la sentenza di condanna emessa all'esito del giudizio sommario.

Le soluzioni giuridiche

Applicando i predetti principi al caso di specie, la Corte di cassazione è giunta alla conclusione che il pubblico ministero, per far valere il vizio di violazione di legge nella determinazione della pena stabilita, avrebbe dovuto proporre il ricorso diretto per cassazione, e non già l'appello incidentale.

«Ove l'impugnazione della parte pubblica fosse stata correttamente proposta», si precisa poi, «ne sarebbe conseguita la necessaria conversione del ricorso in cassazione in appello, soluzione non preclusa dal fatto che - ab origine - la sentenza non sarebbe stata appellabile da parte del pubblico ministero».

Viene quindi chiamato in causa l'art. 580 c.p.p., a mente del quale «quando contro la stessa sentenza sono proposti mezzi di impugnazione diversi, nel caso in cui sussista la connessione di cui all'art. 12, il ricorso per cassazione si converte nell'appello».

L'istituto della conversione del ricorso in appello mira a evitare che la celebrazione di diversi giudizi sulla stessa imputazione, a seguito della proposizione di differenti mezzi di impugnazione, dia luogo a esiti processuali incompatibili (cfr. Cass. pen., sez. un., 24 giugno 2005, n. 36084, Fragomeli); in virtù di tale finalità, l'art. 580 c.p.p. deve trovare necessaria applicazione anche a fronte di una previsione di inappellabilità da parte del pubblico ministero (sul punto cfr. Cass. pen., sez. II, 23 aprile 2007, n. 18253, Cerchi, a tenore della quale «il ricorso per cassazione del pubblico ministero, avverso una sentenza di condanna pronunciata all'esito di giudizio abbreviato, si converte in appello qualora il medesimo provvedimento sia oggetto di appello da parte dell'imputato, a nulla rilevando, per ragioni di economia e di unitarietà processuale, la circostanza che la sentenza impugnata sia oggettivamente inappellabile per la parte che ha proposto ricorso per cassazione»).

Del resto, alla medesima conclusione erano giunte altre pronunce, seppur relative a ipotesi di inappellabilità diverse da quella di cui all'art. 443 c.p.p. Si pensi all'appello proposto dall'imputato e dalla parte civile avverso la sentenza del giudice di pace di condanna alla sola pena pecuniaria: anche in tal caso il ricorso per cassazione del pubblico ministero si converte in appello (cfr. Cass. pen., sez. V, 21 febbraio 2019, n. 12792; contraCass. pen., sez. V, 11 luglio 2016, n. 41430, rimasta tuttavia isolata, che ha stabilito che la conversione del ricorso per cassazione in appello «non opera per i ricorsi in cassazione del pubblico ministero contro le sentenze di assoluzione del giudice di pace, stante l'espresso divieto di cui all'art. 36 d.lgs 28 agosto 2000, n. 274»).

Sul punto la posizione della dottrina non è unitaria.

Secondo un primo orientamento, l'art. 580 c.p.p. non sarebbe applicabile alle sentenze inappellabili ex art. 443 c.p.p. poiché, se si ammettesse la conversione del ricorso in appello, si verrebbe a determinare una violazione del principio di tassatività delle impugnazioni: si determinerebbe, infatti, «un'inaccettabile restituzione del pubblico ministero nel potere di censura, di contro all'espresso divieto del legislatore, senza alcun particolare motivo, dato che la parte pubblica non ritrova sminuito il potere di successivamente ricorrere, se del caso in sede di legittimità» (cfr. Bonetti, Il giudizio abbreviato, in I procedimenti speciali in materia penale, Milano, 2003, pp. 110-111).

Secondo altro orientamento, invece, la conversione non deve intendersi quale strumento attraverso cui eludere il divieto di cui all'art. 443 c.p.p., e ciò in quanto l'art. 580 c.p.p. non incide sull'impugnabilità, ma sull'impugnazione, tanto che nel ricorrere per cassazione l'impugnante dovrà attenersi ai limiti dell'art. 606 c.p.p. (cfr. Salidu, sub art. 580, in Commento al nuovo codice di procedura penale, a cura di Chiavario, 1993, p. 86).

La giurisprudenza, dal canto suo, ha precisato che il ricorso per cassazione del pubblico ministero, anche se convertito in appello, conserva pur sempre la propria natura di impugnazione di legittimità. Il giudice di secondo grado, pertanto, deve sindacarne l'ammissibilità secondo i parametri dell'art. 606 c.p.p. e i suoi poteri di cognizione sono limitati alle censure di legittimità; tuttavia, una volta che ritenga fondata una di dette censure, «riprende la propria funzione di giudice del merito e può adottare le statuizioni conseguenti, senza necessariamente procedere in via formale all'annullamento della pronuncia di primo grado» (così Cass. pen., sez. VI, n. 42810 del 25.9.2002).

Tale ultima conclusione, a giudizio di chi scrive, non appare del tutto convincente.

Se è pur vero, infatti, che la ratio dell'art. 580 c.p.p. è quella di soddisfare esigenze di economia e di correttezza del giudizio, è anche vero che, nel momento in cui si consente al giudice di appello di riprendere la propria funzione di giudice di merito, di fatto si consente al pubblico ministero di fruire di un ulteriore grado di merito che la legge gli precluderebbe.

Inoltre, la Corte di appello, accogliendo i motivi di impugnazione (convertiti in appello) della parte pubblica e decidendo nel merito, potrebbe applicare all'imputato una pena più grave di quella comminatagli in prime cure. E a nulla varrebbe, in tal caso, sostenere che il condannato potrebbe pur sempre proporre ricorso per cassazione avverso tale deliberazione, perché, proprio per effetto dell'applicazione dell'art. 580 c.p.p., l'imputato è stato comunque privato di un grado di merito. Se, infatti, fosse stato celebrato il solo giudizio di legittimità (attivato a seguito del ricorso per cassazione da parte del pubblico ministero), e se la Corte avesse poi cassato l'impugnata sentenza, il processo sarebbe ripartito dal primo grado di giudizio: in tal modo l'imputato avrebbe avuto la possibilità di difendersi nel merito nuovamente in primo grado e, in caso di condanna, anche in secondo grado (sul punto sia consentito rinviare a Degl'Innocenti-De Giorgio, Il giudizio abbreviato, IV edizione, Milano, 2023, pp. 253 e ss.).

Osservazioni

Appare opportuno completare l'esame della sentenza in commento con qualche accenno all'appellabilità in generale delle pronunce emesse nel giudizio abbreviato, oggetto di plurimi interventi legislativi nel corso degli ultimi anni.

La norma di riferimento è sempre (e solo) l'art. 443 del codice di rito.

La struttura originaria di tale articolo prevedeva, al primo comma, che l'imputato e il pubblico ministero non potessero proporre appello contro le sentenze di proscioglimento, quando l'appello tendeva a ottenere una diversa formula, e contro le sentenze di condanna che applicavano sanzioni sostitutive (la legge n. 479 del 1999 – c.d. “legge Carotti" – ha poi abrogato il divieto di appellare le sentenze di condanna a sanzioni sostitutive e in seguito, con l'entrata in vigore dalla legge n. 46 del 2006 – c.d. “legge Pecorella” –, è stato abrogato anche l'inciso “quando l‘appello tende ad ottenere una diversa formula”, nonché l'intero secondo comma); il terzo e quarto comma stabilivano, rispettivamente, che al pubblico ministero è inibita la possibilità di impugnare con l'appello le sentenze di condanna (salvo che si tratti di sentenza che modifica il titolo del reato) e che si applicano le forme previste dall'art. 599 c.p.p. per il giudizio di secondo grado.

L'art. 443 c.p.p. deve essere comunque interpretato alla luce delle modifiche operate in materia di impugnazioni dalla legge n. 103 del 2017 (c.d. “riforma Orlando”), dal decreto legislativo n. 11 del 2018 e, infine, dal decreto legislativo n. 150 del 2022 (c.d. “riforma Cartabia”), e tenendo altresì conto dei ripetuti interventi della Corte costituzionale (per la precisione con le sentenze nn. 26 del 2007, 85 del 2008, 320 del 2007 e 274 del 2009).

Volendo quindi tentare di schematizzare un quadro normativo alquanto articolato, si deve ritenere che

  • quanto alle sentenze di proscioglimento:

a) possono essere appellate dal pubblico ministero, come espressamente disposto dal secondo comma dell'art. 593 c.p.p. così come modificato dal d.lgs. n. 11/2018 (in precedenza la Corte costituzionale, con sentenza n. 320/2007, aveva dichiarato incostituzionale l'art. 2 della legge n. 46/2006 nella parte in cui, modificando il primo comma dell'art. 443 c.p.p., aveva escluso che il pubblico ministero potesse appellar contro le sentenze di proscioglimento emesse a seguito di  giudizio abbreviato);

b) possono essere appellate dall'imputato solo se hanno disposto l'assoluzione per difetto di imputabilità derivante da vizio totale di mente (cfr. sent. n. 274 del 2009 della Corte costituzionale); in tutti gli altri casi, infatti, non posso essere appellate dall'imputato stante l'espresso divieto di cui al primo comma dell'art. 443 c.p.p.;

c) se sono relative a reati puniti con la sola pena dell'ammenda o con pena alternativa, non possono essere appellate né dal pubblico ministero, né dall'imputato (eccezion fatta, però, per il caso di assoluzione per difetto di imputabilità derivante da vizio totale di mente), in virtù di quanto dispone il terzo comma dell'art. 593 c.p.p.;

  • quanto alle sentenze di condanna:

a) possono essere appellate dalla pubblica accusa solo quando modificano il titolo del reato (ai sensi del terzo comma dell'art. 443 c.p.p.) o escludono la sussistenza di una circostanza aggravante ad effetto speciale o stabiliscono una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato (così come recita il primo comma dell'art. 593 c.p.p.);

b) possono essere sempre appellate dall'imputato (in base a quanto dispone il primo comma dell'art. 593 c.p.p.);

c) non possono essere appellate né dall'imputato né dal pubblico ministero se hanno applicato la sola pena dell'ammenda o la pena sostitutiva del lavoro di pubblica utilità (stante il divieto generale posto dal terzo comma dell'art. 593 c.p.p.).

Occorre ricordare peraltro come, per effetto dell'introduzione del nuovo art. 593-bis c.p.p. (disposta dall'art. 3 d.lgs. n. 11/2018), per “pubblico ministero” si deve intendere sempre il procuratore della Repubblica presso il tribunale, mentre il procuratore generale presso la Corte di appello può ora impugnare nei soli casi di avocazione o qualora il procuratore della Repubblica abbia prestato acquiescenza al provvedimento.

Quanto all'impugnazione delle parti private eventuali, infine, si applicano le regole generali.

Pertanto, in base al primo comma dell'art. 576 c.p.p., la parte civile che ha accettato il rito sommario può proporre appello contro i capi della sentenza di condanna che riguardano l'azione civile e, ai soli fini della responsabilità civile (e comunque nei limiti del secondo comma dell'art. 593 c.p.p.), contro la sentenza di proscioglimento pronunciata nel giudizio. In ogni caso, sia la parte civile che la persona offesa non costituita parte civile possono, ai sensi dell'art. 572 c.p.p., sollecitare il pubblico ministero a proporre appello.

Il responsabile civile, invece, non ha alcun diritto a impugnare i provvedimenti resi all'esito del giudizio abbreviato, in quanto il terzo comma dell'art. 87 c.p.p. preclude la sua stessa partecipazione al rito sommario.

Il civilmente obbligato la pena pecuniaria, infine, può proporre impugnazione nei limiti indicati dal secondo comma dell'art. 575 c.p.p.

De iure condendo, è auspicabile una disciplina più organica dell'appello avverso le sentenze rese all'esito del giudizio abbreviato: in tal modo si eviterebbe di delegare all'interprete il non agevole compito di armonizzare la disciplina generale delle impugnazioni con le peculiarità del giudizio sommario, compito reso ancor più difficile dai continui interventi in materia da parte del legislatore e della Consulta.

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