Illegittimo il divieto di colloqui intimi con i familiari per le persone detenute

02 Febbraio 2024

Svolta epocale della Consulta dopo la sentenza n. 301/2012.

Massima

È illegittimo l'art. 18 della legge n. 354/1975, nella parte in cui non prevede che la persona detenuta possa essere ammessa a svolgere colloqui con il coniuge, la parte civile o la persona con lei stabilmente convivente, senza il controllo a vista del personale di custodia, quando, tenuto conto del comportamento della persona detenuta in carcere, non ostino ragioni di sicurezza o esigenze di mantenimento dell'ordine e della disciplina, né riguardo all'imputato, ragioni giudiziarie.

Il caso

Il caso riguarda un reclamo presentato da un detenuto presso il carcere di Terni davanti al proprio Magistrato di Sorveglianza di Spoleto contro il rifiuto dell'Amministrazione penitenziaria allo svolgimento di colloqui riservati con la compagna e con la figlia di tre anni. Il reclamo dinanzi al Magistrato è stato presentato e qualificato ai sensi dell'art. 35-bis della l. n. 354/1975, facendo valere la piena soggettività del diritto all'affettività. Nel merito del reclamo, il detenuto si duole delle modalità con cui è costretto a svolgere i colloqui visivi con i familiari, tra i quali quelli con la figlia minore e la compagna; la mancanza di contatto fisico incide negativamente sulla coppia e sulle sue possibilità di reinserimento sociale. Il detenuto non fruisce di permessi premio per un recente trasferimento presso Terni; non ha allo stato un programma di trattamento aggiornato e alla luce di alcune violazioni comportamentali non avrebbe, in ogni caso, i requisiti per l'accesso all'esperienza premiale all'esterno.

La questione

Alla luce del reclamo, il Magistrato di Sorveglianza di Spoleto ha richiesto informazioni alla Direzione del carcere circa le modalità di svolgimento degli incontri con i familiari: i colloqui si svolgono in cinque salette, di cui una attrezzata per gli incontri con i minori di anni dodici (c.d. ludoteca), nonché in un'area verde destinata con priorità agli incontri con i bambini. I colloqui visivi si svolgono sotto la vigilanza permanente della polizia penitenziaria realizzata mediante sistemi di videosorveglianza o in presenza, tramite l'unità addetta al controllo. Le stanze sono strutturate per ospitare più nuclei familiari contemporaneamente e in alcune fasce orarie, o in alcune giornate, vi è cospicua presenza di persone. Secondo la nota del carcere, la vigilanza continua è imposta dall'art. 18, comma 2 della l. n. 354/1975, dall'art. 61, comma 2 lett. b) del reg. es., nonché dall'art. 47 del reg. di servizio della polizia penitenziaria. La Direzione, muovendosi nel solco della disciplina vigente, ha ritenuto che non esiste in capo al detenuto un diritto a fruire di colloqui riservati, in cui, detto altrimenti, gli venga assicurata l'intimità. Da tale preclusione, evidenziata anche dal carcere, secondo il Magistrato di Sorveglianza deriverebbe «un importante impatto nella dimensione familiare dell'incontro anche con i minori, ma con un dirimenti effetto inibitorio rispetto alla possibilità di utilizzare il tempo del colloquio con il/la partner per rapporti intimi anche di tipo sessuale che, addirittura, ove tentati con l'attuale previsione del controllo a vista della polizia penitenziaria, finirebbero per configurare delle ipotesi di reato perseguibili» (cit. ord. n. 5/2023, pag. 3).

Le parti, sia difesa sia pubblico ministero, hanno chiesto al Magistrato di Sorveglianza di Spoleto di promuovere la questione all'attenzione della Corte costituzionale. A scioglimento della riserva, il Magistrato ha ritenuto non manifestamente infondata la questione di costituzionalità dell'art. 18 della legge n. 354/1975, nella parte in cui non prevede che alla persona detenuta sia consentito, quando non ostino ragioni di sicurezza, di svolgere colloqui intimi, anche a carattere sessuale, con la persona convivente non detenuta, senza che sia previsto il controllo a vista da parte del personale di custodia, per contrasto con gli artt. 2,3,13, commi 1 e 4, 27, comma 3, 30, 31, 32 e 117, comma 1 Cost., quest'ultimo in rapporto agli art. 3 e 8 della CEDU.

Per fugare dubbi circa l'ammissibilità, il Magistrato ha fatto immediata menzione alla sentenza n. 301 del 2012 con cui la Consulta aveva già affrontato la medesima questione (in quell'occasione fu il Magistrato di Sorveglianza di Firenze che sollevò la questione con riguardo all'art. 18, comma 2 della l. n. 354/1975 rispetto agli artt. 23, commi 1 e 2, 27, comma 3, 31, 32, commi 1 e 2 Cost.).

La Consulta, con la sentenza n. 301/2012 ritenne la questione inammissibile sotto un duplice profilo: la questione sarebbe risultata afasica rispetto alla rilevanza del procedimento penale dal quale era stata sollevata; inoltre, pur evidenziando la centralità della questione, si concludeva che la sua soluzione richiedesse necessariamente l'intervento del legislatore che veniva chiamato ad intervenire.

Esaminando la questione nuovamente sotto i medesimi profili, il Magistrato ha evidenziato che: (i) la risoluzione della questione per il caso di specie è assolutamente rilevante;

(ii) la regolamentazione da parte del legislatore, su invito della Consulta del 2012, non è ancora avvenuta e sono trascorsi ormai più di dieci anni. Nonostante infatti si siano susseguiti diversi disegni di legge in materia, alcuni dei quali anche in tempi recenti (v. legge delega n. 103/17, art. 1, comma 85) poco e nulla si è concretizzato di fatto in norma (v. d.lgs. n. 123, 124/2018, il cui diritto all'affettività rimane un diritto sì riconosciuto, ma senza le risorse per poterlo concretamente fruire).

Secondo quanto argomentato, quindi, il Magistrato di Sorveglianza ha concluso per la non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell'art. 18 della l. n. 354/1975 rispetto ai parametri costituzionali: 2, 13, commi 1 e 4, 27, comma 3, 29, 30, 31, 32 e 117, comma 1 Cost., quest'ultimo in rapporto agli artt. 3 e 8 CEDU.

Le soluzioni giuridiche

Tralasciando i profili sull'ammissibilità, che, come detto sopra, erano già stati ampiamente delineati dal Magistrato di Sorveglianza, la Corte ha ritenuto fondate le questioni (respingendo, quindi, l'eccezione dell'Avvocatura di Stato sull'inammissibilità).

Come riporta la Consulta, l'ordinamento giuridico tutela le relazioni affettive della persona nelle formazioni sociali in cui essa si esprimono, riconoscendo ai soggetti legati dalle relazioni medesime la libertà di vivere pienamente il sentimento di affetto che ne costituisce l'essenza.

Lo stato di detenzione incide fisiologicamente sui modi e sui tempi di esercizio della libertà affettiva: la questione dell'affettività intramuraria concerne quindi l'individuazione del limite concreto entro il quale lo stato detentivo è in grado di giustificare una compressione della libertà di esprimere affetto, anche nella dimensione intima; limite oltre il quale il sacrificio della libertà stessa si rivela costituzionalmente ingiustificabile, risolvendosi in una lesione della dignità della persona.

Ciò su cui si deve concentrare l'attenzione è il segmento della norma censurata per cui: «i colloqui si svolgono in appositi locali sotto il controllo a vista e non auditivo del personale di custodia» (comma 3 dell'art. 18 della l. n. 354/1975). Tale inciso contiene una preclusione assoluta che non soffre eccezioni (v. art. 37, comma 5, 61, comma 2 lett. b) del d.p.r. n. 230/2000).

Si tratta, in altri termini, di un divieto assoluto: così, Cass. pen., n. 3035; Cass. pen., n. 3932/2009).

L'assolutezza della previsione rappresenta una compressione sproporzionata e si traduce in un sacrificio irragionevole della dignità della persona e quindi in una violazione dell'art. 3 Cost.: è irragionevole non prevedere delle eccezioni e non consentire, ex ante all'Amministrazione penitenziaria, ed ex post, al giudice la valutazione del caso concreto. Maggiormente rispondente all'art. 3 Cost. sarebbe è una previsione relativa che consente di stabilire che in mancanza di ragioni ostative sia possibile concedere lo svolgimento dei colloqui senza il controllo da parte della polizia penitenziaria.

Un altro profilo di irragionevolezza dell'assolutezza della previsione è la sua diretta incidenza rispetto ai legami con le persone estranee alla pena ma che intorno a tale dimensione vivono: per effetto della preclusione i familiari finiscono per vivere un pregiudizio indiretto.

Afferma, infatti, la Corte costituzionale: «Per quanto in certa misura sia inevitabile che le persone affettivamente legate al detenuto patiscano le conseguenze fattuali delle restrizioni carcerarie a lui imposte, tale riflesso soggettivo diviene incongruo quando la restrizione stessa non sia necessaria, e pertanto, nella specie, quando il colloquio possa essere svolto in condizioni di intimità senza che abbiano a patirne le esigenze di sicurezza» (v. sent., § 4.2.).

Si precisa poi che la lesione della dignità del terzo vale sia per l'ampio campo dell'affettività sia per quello più specifico della sessualità.

Oltre alla tutela del terzo incolpevole, l'eliminazione dell'assolutezza è importante per le ricadute sulla finalità della pena e sull'incidenza del reinserimento sociale, che passa necessariamente anche per il tramite dell'affettività.

Per la Consulta, quindi: «L'intimità degli affetti non può essere sacrificata dall'esecuzione penale oltre la misura del necessario venendo altrimenti percepita la sanzione come esageratamente afflittiva, sì da non poter tendere all'obiettivo della risocializzazione» (v. sent., § 4.3.). L'illegittimità dell'assolutezza della previsione si motiva anche rispetto all'art. 117, comma 1 Cost. in relazione all'art. 8 CEDU sotto il profilo della proporzionalità tra tale radicale divieto e le sue, pur legittime, finalità. In particolare, il diritto al rispetto della vita privata e familiare, garantito dal paragrafo 1 dell'art. 8 CEDU, viene compresso senza che sia verificabile in concreto, agli effetti del successivo paragrafo 2, la necessità della misura restrittiva per esigenze di difesa dell'ordine e prevenzione dei reati.

Nel sancire l'illegittimità della preclusione, tuttavia, la Corte rammenta gli effetti che potrebbero verificarsi nella prassi: la sua attuazione, in senso relativo, richiede la previsione di limiti in base ai quali l'Amministrazione penitenziaria sia legittimata a negare lo svolgimento dei colloqui visivi senza il controllo a vista. Aggiunge al limite “ragioni di sicurezza”, anche quelli di “esigenza di mantenimento dell'ordine e della disciplina”, e, per gli imputati quella di “fini giudiziari”. Possono quindi rilevare in senso ostativo – non soltanto la pericolosità del detenuto, ma anche – l'irregolarità di condotta e precedenti disciplinari, in una valutazione complessiva che appartiene in prima battuta all'Amministrazione e in secondo luogo al magistrato di sorveglianza, in sede di reclamo ex art. 35-bis l. n. 354/1975.

La Consulta inoltre rileva ulteriori limiti di applicazione, dovuti, in parte anche all'oggetto del giudizio principale, ossia che tale ampliamento non può riguardare i detenuti ricompresi all'interno dei c.d. regimi detentivi speciali e, in particolar modo, quello di cui all'art. 41-bis della l. n. 354/1975. Nessuna limitazione, invece, a livello teorico, per i detenuti ricompresi nell'art. 4-bis della l. n. 354/1975.

Resta salva ovviamente la possibilità che sia il legislatore a disciplinare limiti, tempi, termini e condizioni anche diversi da quelli enunciati dalla Corte, ma pur sempre idonei a garantire l'effettività dell'esercizio degli affetti delle persone ristrette.

Infine la Corte chiude le sue argomentazioni con un programma di propositi e di intenti rivolto all'Amministrazione penitenziaria: «Venendo meno con questa decisione l'inderogabilità del controllo visivo sugli incontri, può ipotizzarsi la creazione all'interno degli istituti penitenziari – laddove le condizioni materiali della singola struttura lo consentano, e con la gradualità eventualmente necessaria – di appositi spazi riservati ai colloqui intimi tra la persona detenuta e quella ad essa affettivamente legata» (v. sent., § 9).

Osservazioni

Con la sentenza in commento, la Corte costituzionale sancisce un tassello di rilievo, e non affatto scontato, nella costituzionalizzazione della pena e dei diritti soggettivi dei detenuti. Come ha affermato la stessa Consulta, tale pronuncia, può rappresentare «una tappa importante nel percorso di inveramento del volto costituzionale della pena» (v. sent., § 9).

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