Due precisazioni della Cassazione in tema di responsabilità da reato degli enti

Ciro Santoriello
07 Febbraio 2024

La sorte delle società cancellate e l'importanza della colpa di organizzazione. 

Massima

La cancellazione dell'ente dal registro delle imprese non determina l'estinzione dell'illecito previsto dal d.lgs. n. 231/2001 commesso nell'interesse ed a vantaggio dello stesso

L'illecito dell'ente non si identifica con il reato commesso dalla persona fisica, ma semplicemente lo presuppone per cui all'accertamento del reato commesso dalla persona fisica deve necessariamente seguire la verifica sul tipo di inserimento di questa nella compagine societaria e sulla sussistenza dell'interesse ovvero del vantaggio derivato all'ente: solo in presenza di tali elementi la responsabilità si estende dall'individuo all'ente collettivo, solo, cioè, in presenza di criteri di collegamento teleologico dell'azione del primo all'interesse o al vantaggio dell'altro, che risponde autonomamente dell'illecito "amministrativo".

Il caso

In sede di appello, ribaltando la pronuncia di assoluzione emessa in primo grado, tre società erano condannate per l'illecito amministrativo di cui all'art. 24 d.lgs. n. 231 del 2001 in relazione ai reati di truffa aggravata commessi dai loro amministratori, disponendo la confisca sino all'importo di euro 176.000 circa nei confronti delle tre persone fisiche imputate e delle tre società suindicate.

In particolare, si addebitava ai tre imputati di avere con artifizi e raggiri conseguito contributi statali erogati dal Ministero dei trasporti nella misura complessiva di 176.000 €., come incentivo all'organizzazione di corsi di formazione professionale in favore dei lavoratori nel settore degli autotrasporti, rendicontando al Ministero costi superiori a quelli effettivamente sostenuti, così lucrando un contributo di importo superiore di almeno 38.000 €. a quello spettante. ravvisando la truffa proprio nel meccanismo contrattuale. In forza di una precisa clausola contrattuale intercorsa tra una prima società e le alte due persone giuridiche coinvolte, incaricate di realizzare e coordinare i corsi di formazione professionale in favore del personale della prima, si prevedeva che nell'ipotesi in cui all'esito della rendicontazione il contributo versato dal Ministero fosse stato inferiore al 70 per cento dei costi affrontati e rendicontati, le società incaricate della formazione avrebbero restituito una parte delle somme ricevute alla società i cui dipendenti partecipavano alla formazione e da questa fatturate come costi. Poiché nell'anno 2012 il contributo del Ministero venne erogato in misura inferiore al 70% dei costi rendicontati, le due società emisero note di credito restituendo alla prima società una somma complessiva pari a circa 80.000 €. Consentendo così consentirono a quest'ultima di ricevere un contributo in proporzione maggiore di euro 38.858,10, rispetto ai costi già comunicati al Ministero come effettivamente sostenuti.

In sede di ricorso per cassazione, le censure formulate dalle difese degli enti si appuntavano- per quanto di interesse in questa sede - su due profili. In primo luogo, l'eccessività della somma sequestrate avendo disposto la sentenza la confisca dell'intera somma erogata dal Ministero mentre l'importo dell'asserito rimborso non dovuto ammontava a euro 38.85. In secondo luogo, si sosteneva l'estinzione dell'illecito amministrativo addebitato ex art. 5 comma 1 d.lgs. n. 231 del 2001 ad una delle società in ragione della sopravvenuta cancellazione della stessa dal registro delle imprese. Infine, l'apodittica estensione alle società della responsabilità per connessione al reato contestato alle persone fisiche, poiché trattandosi di illecito amministrativo, oltre a dimostrare in capo al rappresentante legale la sussistenza dei requisiti per l'imputazione a carico del soggetto responsabile, occorre individuare l'interesse ed il vantaggio ricavato dall'ente dal fatto illecito nonché la colpa di organizzazione presente nell'azienda.

La questione

Sulla possibilità di applicare il d.lgs. n. 231/2001 anche alle società estinte a seguito di loro cancellazione dal registro delle imprese per lungo tempo si è registrato un sostanziale accordo in giurisprudenza, ma una più recente decisione della Cassazione aveva segnato una riapertura del dibattito.

Il primo orientamento formatosi sul punto esclude la possibilità di procedere ex d.lgs. n. 231/2001 nei confronti di un ente di cui sia stata disposta la cancellazione dal registro dell'imprese ed è stato espresso da Cass. pen., sez. II, 7 ottobre 2019, n. 41082 in cui si legge che «l'estinzione fisiologica e non fraudolenta dell'ente determina l'estinzione dell'illecito previsto dal d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, ricorrendo un caso assimilabile alla morte dell'imputato» (​il principio è richiamato nella parte motiva anche da Cass. pen., sez. V, 27 aprile 2021, n. 25492). Inoltre, non potrebbe ritenersi operante il principio espresso dalla giurisprudenza civile secondo cui la cancellazione di una società di capitali dal registro delle imprese determina un fenomeno successorio in forza del quale i rapporti obbligatori facenti capo all'ente non si estinguono ma si trasferiscono ai soci i quali, a seconda del regime giuridico dei debiti sociali cui sono soggetti pendente societate, ne rispondono nei limiti di quanto riscosso a seguito della liquidazione ovvero illimitatamente. Il trasferimento dei rapporti obbligatori in capo ai soci riconosciuto dalla giurisprudenza civile è infatti correlato alla necessità di tutelare l'interesse dei soggetti privati che vantano ancora pretese nei confronti dell'ente; la natura pubblica del processo a carico della società previsto dal d.lgs. n. 231/2001 è invece incompatibile con l'estinzione non fraudolenta della società giuridica, ovvero con la cancellazione dal registro dalle imprese che consegue fisiologicamente a determinati eventi, come la chiusura della procedura fallimentare: tale evento produce infatti l'estinzione della persona giuridica “accusata” e, dunque, impedisce la prosecuzione del giudizio— salvo che, come detto, tale cancellazione presenti un carattere fraudolento, caso che imporrà la valutazione della eventuale responsabilità degli autori della cancellazione “patologica”.

Come accennato, tale orientamento è stato ritenuto non condivisibile da un'altra decisione della Cassazione, IV sezione, n. 9006/2022. Questa pronuncia, dopo aver sottolineato — sia pur in via incidentale — le implicazioni pratiche della precedente impostazione, che avrebbe finito per incoraggiare il ricorso a cancellazioni “di comodo” dal registro delle imprese per pervenire ad una irresponsabilità della società per eventuali illeciti posti in essere nel suo interesse o a suo vantaggio e dopo aver sottolineato le difficoltà nell'accertamento « della eventuale responsabilità degli autori della cancellazione “patologica” », evidenza come non sia assolutamente convincente il parallelo fra l'estinzione dell'ente e la morte della persona fisica. Infatti, le cause estintive dei reati siano notoriamente un numerus clausus non estensibile ed il legislatore della responsabilità delle persone giuridiche quando ha inteso far riferimento a cause estintive degli illeciti lo ha fatto espressamente, come nel caso dell'art. 8, comma 2, d.lgs. n. 231/2001, allorché ha disciplinato l'amnistia, o come può riscontrarsi considerando il successivo art. 67, ove è prevista l'adozione della sentenza di non doversi procedere in due soli casi: quando il reato dal quale dipende l'illecito amministrativo dell'ente è prescritto e quando la sanzione è estinta per prescrizione. In secondo luogo, viene fatto osservare come, essendo pacifico che « il fallimento della persona giuridica non determina l'estinzione dell'illecito amministrativo previsto dal d.lgs. n. 231/2001 », non si comprenderebbe la ratio di un diverso trattamento riservato all'ipotesi di cancellazione della società, che darebbe invece luogo all'estinzione dell'illecito amministrativo contestato all'ente.

Sulla base di queste considerazioni, la sentenza n. 9006 conclude nel senso che in caso di estinzione di una società di capitali è previsto che la titolarità dell'impresa passi direttamente ai singoli soci, non avendo luogo una divisione in senso tecnico, come si ricava dagli artt. 2493 e 2495, comma 3, c.c., disciplinanti, rispettivamente, la distribuzione ai soci dell'attivo e l'azione esperibile da parte dei creditori nei confronti dei partecipanti alla compagine aziendale. Viene inoltre sottolineato che lo scioglimento della società, la cui nascita integra un contratto di durata, opera ex nunc per cui viene meno l'obbligo di esercitare l'impresa in comune ma non vengono meno i rapporti sorti nell'esercizio dell'impresa anteriormente allo scioglimento e non a caso la liquidazione della società avviene mediante conversione in denaro del patrimonio sociale.

Quanto al profilo attinente alla necessità di rinvenire, nei procedimenti nei confronti di persone giuridiche, elementi concreti, indicativi dell'interesse e della consapevolezza dell'illecito in capo all'ente, già in altre occasioni la Suprema Corte ha censurato decisioni di merito che si erano limitate a desumere l'esistenza dell'interesse dell'ente dalla circostanza che il reato presupposto era stato commesso da un soggetto apicale, dovendosi invece evidenziare specifici profili di responsabilità della persona giuridica da individuarsi nella c.d. “colpa di organizzazione” ovvero – secondo quanto detto in altra decisione – in un modo di essere "colposo", proprio dell'organizzazione della persona giuridica che abbia consentito al soggetto (persona fisica) organico all'ente di commettere il reato.

In più decisioni emesse in questa materia, infatti, si evidenzia come sia essenziale evitare che, sulla base del mero rapporto di immedesimazione organica fra autore dell'illecito ed ente, in capo a quest'ultima venga riconosciuta una forma di responsabilità meramente oggettiva. Per giungere a questo risultato, infatti, non basta valorizzare il solo profilo della relazione funzionale corrente tra reo ed ente e quella teleologica tra reato ed ente, ma occorre anche che «sussista la c.d. 'colpa di organizzazione' dell'ente, il non avere cioè predisposto un insieme di accorgimenti preventivi idonei ad evitare la commissione di reati del tipo di quello realizzato; il riscontro di un tale deficit organizzativo consente una piana e agevole imputazione all'ente dell'illecito penale realizzato nel suo ambito operativo. Grava sull'accusa l'onere di dimostrare l'esistenza e l'accertamento dell'illecito penale in capo alla persona fisica inserita nella compagine organizzativa della societas e che abbia agito nell'interesse di questa; tale accertata responsabilità si estende 'per rimbalzo' dall'individuo all'ente collettivo, nel senso che vanno individuati precisi canali che colleghino teleologicamente l'azione dell'uno all'interesse dell'altro e, quindi, gli elementi indicativi della colpa di organizzazione dell'ente, che rendono autonoma la responsabilità del medesimo» (Cass. pen., sez. VI, 18 febbraio 2010, n. 27735. Nello stesso senso, Cass. pen., sez. V, 2 marzo 2023, n. 21640; Cass. pen. Pen., sez. IV., 22 maggio 2023, n. 21704; Cass. pen., sez. IV, 10 maggio 2022 n. 18413; Cass. pen., sez. IV, 10 maggio 2022, n. 18413).

Le soluzioni giuridiche

Il ricorso è stato giudicato manifestamente infondato con riferimento a tutti i tre profili di censura.

In relazione alla rilevanza dell'intervenuta cancellazione della società dal registro dell'imprese la decisione aderisce all'orientamento secondo cui la cancellazione dell'ente dal registro delle imprese non determina l'estinzione dell'illecito previsto dal d.lgs. n. 231/2001 commesso nell'interesse ed a vantaggio dello stesso (Cass. pen., sez. IV, 22 febbraio 2022, n. 9006). Si tratta di un'affermazione disattesa da altra decisione della Cassazione (Cass. pen., sez. II, 10 settembre 2019, n. 41802) che, valorizzando l'art. 35 del citato decreto legislativo, disposizione che estende all'ente le disposizioni relative all'imputato, ha ritenuto che la cancellazione dal registro delle imprese comporta il venir meno della persona giuridica e quindi la conseguente impraticabilità di quelle sanzioni relative e connesse alla sua attività.

Secondo la pronuncia in esame, la pronunzia n. 41802 si riferiva ad un'ipotesi di cancellazione fisiologica per chiusura del fallimento della società, in cui non poteva neppure darsi luogo al fenomeno successorio in forza del quale i rapporti obbligatori facenti capo all'ente non si estinguono, ma si trasferiscono ai soci, che ne rispondono nei limiti di quanto riscosso a seguito della liquidazione. Nel caso considerato dalla pronuncia in epigrafe, invece, la cancellazione non risulta cagionata da motivazioni fisiologiche ed anzi pare costituire un commodus discessus per sottrarsi alle conseguenze di una pronunzia giudiziaria ed inoltre la cancellazione della società può certamente porre un problema di soddisfacimento del relativo credito, ma non un problema di accertamento della responsabilità dell'ente per fatti anteriori, responsabilità che nessuna norma autorizza a ritenere elisa per effetto della cancellazione dell'ente stesso.

Quanto al profilo attinente ai rapporti strutturali tra illecito ascritto alla persona giuridica e il reato-presupposto compiuto dalla persona fisica, si afferma che all'accertamento del reato commesso dalla persona fisica deve necessariamente seguire la verifica sul tipo di inserimento di questa nella compagine societaria e sulla sussistenza dell'interesse ovvero del vantaggio derivato all'ente: solo in presenza di tali elementi la responsabilità si estende dall'individuo all'ente collettivo, solo, cioè, in presenza di criteri di collegamento teleologico dell'azione del primo all'interesse o al vantaggio dell'altro, che risponde autonomamente dell'illecito "amministrativo". L'ente, soggetto diverso dalla persona, è responsabile di un fatto illecito proprio, costruito nella forma di fattispecie complessa, della quale il reato è un presupposto, unitamente alla qualifica soggettiva della persona fisica e alla sussistenza dell'interesse o del vantaggio: partendo da tali premesse, la decisione afferma che il reato commesso dal soggetto inserito nella compagine dell'ente, in vista del perseguimento dell'interesse o del vantaggio di questo, è sicuramente qualificabile come "proprio" anche della persona giuridica; tuttavia la responsabilità della persona fisica si estende dall'individuo all'ente collettivo solo a condizione che siano individuati precisi canali che colleghino teleologicamente l'azione dell'uno all'interesse dell'altro e, quindi, gli elementi indicativi della colpa di organizzazione dell'ente, che rendono autonoma la responsabilità del medesimo ente.

Nel caso in esame, invece, la Corte di merito aveva reso una motivazione apparente, poiché si era limitata ad affermare apoditticamente che gli imputati, essendo legali rappresentanti degli enti, avevano certamente operato nell'esclusivo interesse degli stessi, senza fornire adeguata argomentazione atta ad escludere che i detti rappresentanti avessero agito nel proprio esclusivo interesse e senza valutare come il reato presupposto avesse procurato vantaggio alla persona giuridica.

Osservazioni

La sentenza della Cassazione pare condivisibile con riferimento ad entrambi i profili esaminati.

Quanto al diniego di applicazione delle sanzioni previste dal d.lgs. n. 231/2001 nei confronti di una società estinta. Infatti, per quanto si voglia negare l'equiparazione tra morte del reo e cancellazione della società, è innegabile che l'estinzione dell'ente determina l'inapplicabilità delle relative sanzioni che risulterebbero inflitte inutilmente e, in ogni caso, non assolverebbero ad alcuna delle funzioni cui sono preordinate. Le sanzioni interdittive presuppongono infatti che l'ente sia pienamente operativo e che possa proseguire nell'attività cui si riferisce l'illecito, laddove, di contro, se l'ente è stato cancellato dal registro delle imprese è evidente che, essendo lo stesso non più attivo, l'irrogazione di sanzioni interdittive sarebbe priva di effetti, non potendosi, già solo dal punto di vista logico, certamente inibire o limitare un'attività imprenditoriale non più esercitata.  Analogamente deve dirsi per le sanzioni pecuniarie e per la misura di sicurezza della confisca, la cui funzione è quella di colpire il patrimonio dell'ente, attraverso la previsione di un obbligo di pagamento a favore dello Stato, anche allo scopo di privare la persona giuridica della disponibilità economica necessaria per la sua operatività imprenditoriale; tuttavia, se conseguentemente alla cancellazione dal registro delle imprese la società è estinta ed il suo patrimonio è stato liquidato, le eventuali sanzioni pecuniarie e la confisca sarebbero anch'esse inutiliter datae, mancando una massa economica su cui far valere tale pretesa, posto che, come stabilito dall'art. 27 d.lgs. n. 231/2001, dell'obbligazione per il pagamento della sanzione pecuniaria risponde soltanto l'ente con il suo patrimonio e fondo comune, con conseguente impossibilità di agire sui beni personali degli amministratori, presenti o passati (in dottrina, in questo senso Stampanoni Bassi, La cancellazione dal registro delle imprese della società non estingue l'illecito amministrativo previsto dal d.lgs. n. 231/2001, in Cass. pen. Pen., 2022, 2769; Laudonia, Gli “effetti tombali” della cancellazione delle società sulle responsabilità da reato degli enti, in Soc., 2020, 747; Sfameni, Responsabilità patrimoniale e vicende modificative dell'ente. Art. 27, in Mancuso-Spangher-Varraso (a cura di), Responsabilità penale delle persone giuridiche, Milano, 2007, 243).

Va detto, tuttavia, che il problema non si pone nel caso in cui l'accertamento penale e l'irrogazione delle sanzioni si verifichi prima della cancellazione. In questa circostanza, infatti, se è vero che le misure interdittive risultano non eseguibili o, se in corso di esecuzione, la loro applicazione va interrotta, sarebbe comunque possibile l'esecuzione delle pene pecuniarie il cui pagamento, ai sensi degli artt. 2312, comma 2 e 2495, comma 2, c.c., andrebbe richiesto ai soci, seppure nei limiti di quanto percepito a titolo di ripartizione dell'attivo residuo: la previsione non darebbe luogo ad un'atipica ipotesi di responsabilità per fatto altrui, ma si sarebbe in presenza di una peculiare modalità con cui procedere all'esecuzione di una sentenza di condanna pronunciata nei confronti di un ente estinto dopo la decisione, eseguendo quest'ultima in modo da far valere la responsabilità della società in maniera consequenziale alla ripartizione del patrimonio dell'ente medesimo.

Contro quanto fin qui detto non si può obiettare che nel caso di sopravvenuta cancellazione dell'ente l'eventuale credito dello Stato derivante dalla condanna dello stesso ex d.lgs. n. 231/2001 potrebbe essere fatto valere in sede esecutiva, ai sensi dell'art. 2495, comma 2, c.c., nei confronti dei soci, quando meno fino alla concorrenza delle somme da questi riscosse in base al bilancio finale di liquidazione, ovvero nei confronti dei liquidatori, se il mancato pagamento sia dipeso da colpa di costoro, al pari di ogni altra obbligazione sociale rimasta insoddisfatta ed indipendentemente da una loro consapevole partecipazione (tanto dei soci che dei liquidatori) alla commissione dell'illecito amministrativo dipendente dal reato per il quale è stata pronunciata condanna. Quando la sentenza di condanna sia intervenuta (non prima come nell'ipotesi vista in precedenza, ma) dopo l'estinzione della società, ritenere i soci tenuti al pagamento della somma determinata in sentenza si pone in contrasto con il principio di responsabilità personale e del principio di colpevolezza, in quanto dell'obbligazione per il pagamento della sanzione pecuniaria irrogata all'ente finirebbero col rispondere, con il loro patrimonio, terzi in buona fede (i soci ovvero i liquidatori), pur se completamente estranei alla fattispecie delittuosa che ha generato la responsabilità amministrativa dell'ente (D'Alessandro, La liquidazione dell'ente e la cancellazione dal registro dell'imprese, in Aa.Vv., (a cura di Piva), La responsabilità degli enti ex d.lgs. n. 231/2001 fra diritto e processo, Torino, 2021, 668).

Quanto al rilievo attribuito alla c.d. colpa di organizzazione nel sistema della responsabilità da reato degli enti, la sottolineatura dell'importanza di tale profilo impone che nell'indagine riguardante la configurabilità dell'illecito imputabile all'ente, le condotte colpose dei soggetti responsabili della fattispecie criminosa (presupposto dell'illecito amministrativo) rilevano se presentano una significativa connessione con la mancanza o l'inadeguatezza delle cautele predisposte per la prevenzione dei reati previsti dal d.lgs. n. 231/2001. E' solo la ricorrenza di tali carenze organizzative, in quanto atte a determinare le condizioni di verificazione del reato presupposto che giustifica il rimprovero e l'imputazione dell'illecito al soggetto collettivo, oltre a sorreggere la costruzione giuridica per cui l'ente risponde dell'illecito per fatto proprio (e non per fatto altrui), con la conseguenza che la menzionata colpa di organizzazione deve essere rigorosamente provata e non confusa o sovrapposta con la colpevolezza del (dipendente o amministratore dell'ente) responsabile del reato (Cass. pen., sez. IV, 11 gennaio 2023, n. 570).

In quest'ottica il requisito della "colpa di organizzazione" dell'ente assolve nel sistema 231 la stessa funzione che la colpa assume nel reato commesso dalla persona fisica, quale elemento costitutivo del fatto tipico, integrato dalla violazione "colpevole" (ovvero rimproverabile) della regola cautelare. Ma proprio in ragione di ciò, tale forma di colpevolezza non dirsi integrata ex se dalla mancata adozione e dall'inefficace attuazione degli specifici modelli di organizzazione e di gestione: come si legge in una recente pronuncia, «l'assenza del modello, la sua inidoneità o la sua inefficace attuazione non sono ex se elementi costitutivi dell'illecito dell'ente. Tali sono, oltre alla compresenza della relazione organica' e teleologica tra il soggetto responsabile del reato presupposto e l'ente (c.d. immedesimazione organica "rafforzata"), la colpa di organizzazione, il reato presupposto ed il nesso causale che deve correre tra i due» (Cass. pen., sez. IV, 15 febbraio 2022, n. 18413. In questa decisione, la Cassazione ha censurato i giudici di merito nella misura in cui non avevano rilevato come nel capo di imputazione ci si limitasse ad addebitare all'ente la mera assenza di un modello organizzativo, senza specificare in positivo in cosa sarebbe consistita la "colpa di organizzazione" da cui sarebbe derivato il reato presupposto).

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