Esibizione di atti falsi e comunicazione di dati non rispondenti al vero nella procedura di collaborazione volontaria

28 Febbraio 2024

In questo commento si esaminano le precisazioni della Corte di cassazione in merito al reato di cui all'art. 5-septies, d.l. 28 giugno 1990, n. 167.

Massima

Competente territorialmente a conoscere del reato di cui all'art. 5-septies, d.l. 28 giugno 1990, n. 167, convertito con modificazioni dalla legge 4 agosto 1990, n. 227, che è reato finanziario contemplato da una legge diversa dal d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74 [che, per i reati nello stesso previsti, all'art. 18 detta regole speciali, confermando soltanto in via residuale l'individuazione della competenza per territorio con riguardo al giudice del luogo di accertamento del reato], è il giudice individuato ai sensi dell'art. 21, comma 3, legge 7 gennaio 1929 [norma secondo la quale "la competenza per territorio è determinata dal luogo dove il reato è accertato”], il quale, stante il disposto dell'art. 210 disp. coord. c.p.p., continua ad applicarsi in deroga alle disposizioni generali previste dal codice di rito.

Il profitto del reato di cui all'art. 5-septies, d.l. n. 167/1990 deve essere individuato nelle somme non versate al Pubblico Erario per effetto della esibizione o trasmissione di atti o documenti falsi, ovvero per effetto della comunicazione di dati e notizie non rispondenti al vero, nell'ambito del procedimento amministrativo di cui agli artt. 5-quater e seguenti d.l. n. 167/1990, trattandosi del vantaggio economico derivante in via diretta ed immediata dalla commissione dell'illecito.

Bene giuridico tutelato dall'art. 5-septies d.l. 167/1990 è il corretto esercizio della funzione di accertamento demandata, nell'ambito del procedimento tributario regolamentato dagli artt. 5-quater e seguenti d.l. n. 167/1990 e 1, comma 2, legge 15 dicembre 2014, n. 186.

Il caso

La Corte di appello confermava la decisione con cui il Tribunale aveva condannato l'imputato in ordine al reato di cui all'art. 5-septies, d.l. 28 giugno 1990, n. 167 [convertito con modificazioni dalla legge 4 agosto 1990, n. 227], per aver fornito, nell'ambito del procedimento amministrativo [c.d. “collaborazione volontaria”] di cui agli artt. 5-quater e seguenti d.l. n. 167/1990 [procedimento strumentale alla emersione delle attività finanziarie e patrimoniali costituite o detenute, fuori dal territorio dello Stato, ovvero nel territorio nazionale, in violazione degli obblighi di dichiarazione previsti dalla normativa tributaria], dati e notizie non corrispondenti al vero.

L'imputato interponeva ricorso per cassazione e, ai fini che qui interessano, denunciava l'inosservanza dell'art. 8, comma 1, c.p.p. e l'errata applicazione dell'art. 5-quater d.l. n. 167/1990 [e dei provvedimenti del Direttore dell'Agenzia delle Entrate adottati in attuazione della disciplina posta a regolamentazione della c.d. “procedura di collaborazione volontaria”], nonché la violazione dell'art. 5-septies d.l. n. 167/1990 e, sotto plurimi profili, vizio di motivazione.

La questione

Il giudice di legittimità, con specifico riguardo alla incriminazione di cui all'art. 5-quater d.l. n. 167/1990 [norma a tenore della quale «l'autore della violazione di cui all'articolo 4, comma 1, che, nell'ambito della procedura di collaborazione volontaria di cui all'articolo 5-quater, esibisce o trasmette atti o documenti falsi, in tutto o in parte, ovvero fornisce dati e notizie non rispondenti al vero è punito con la reclusione da un anno e sei mesi a sei anni»], ha avuto modo di pronunciarsi in merito alla ratio sottesa all'incriminazione, alla struttura della fattispecie delittuosa, all'individuazione del profitto derivante dalla commissione dell'illecito e, non da ultimo, alle regole preposte all'individuazione del giudice territorialmente competente a conoscere del reato.

Le soluzioni giuridiche

1. Introdotta, come noto, dall'art. 1 legge 15 dicembre 2014, n. 186, la c.d. “collaborazione volontaria” è procedimento amministrativo-tributario volto a consentire la emersione [o, se si preferisce, la “regolarizzazione tributaria”] di attività patrimoniali o finanziarie illecitamente costituite o detenute in territorio italiano [c.d. “procedura di collaborazione volontaria domestica”, regolamentata dall'art. 1, comma 2, l. n. 186/2014], ovvero in territorio estero [c.d. “procedura di collaborazione volontaria estera”, regolamentata dall'art. 1, comma 1, l. n. 186/2014 e quindi dagli artt. 5-quater e seguenti d.l. n. 167/1990].

Detta procedura era volta ad assicurare, su iniziativa del contribuente interessato, l'assoggettamento all'ordinaria imposizione di attività patrimoniali o finanziarie costituite o detenute in violazione degli obblighi di dichiarazione previsti dalla normativa tributaria.

Ben si comprende, dunque,  come il legislatore, sanzionando penalmente la esibizione o la trasmissione di atti o documenti falsi, ovvero di dati e notizie non rispondenti al vero, abbia inteso tutelare non tanto la pubblica fiducia in ordine alla genuinità [strumentale alla certezza ed alla speditezza dei traffici economico-giuridici] degli atti, documenti e dati anzidetti, quanto piuttosto  il corretto svolgimento e la corretta conclusione della predetta procedura di collaborazione volontaria [si veda, al riguardo, Cass. pen., sez. III, 6 ottobre 2020, n. 27603, secondo cui «l'art. 5-septies d.l. n. 167/1990 (…) mira a tutelare il corretto svolgimento della procedura di collaborazione volontaria»].

In particolare, se ci si sofferma sulle prerogative attribuite ex lege all'Amministrazione Finanziaria, può affermarsi che il bene giuridico tutelato dall'art. 5-septies d.l. n. 167/1990 è il corretto esercizio della funzione di accertamento demandata, nell'ambito del procedimento tributario in rassegna, alla Amministrazione Finanziaria; in altre parole, come precisato dalla Suprema corte nella sentenza in commento, la «corretta imposizione fiscale nell'ambito della riconosciuta possibilità per i contribuenti che detengono patrimoni occulti (…) di regolarizzare la propria posizione, denunciando spontaneamente» pregresse violazioni tributarie.

2. Così individuato il bene giuridico tutelato dalla incriminazione in esame, è corretto affermare che:

  1. per un verso, la “falsità” [o la “non rispondenza al vero”] rilevante è solo quella che, nel concorso di tutti i requisiti normativamente previsti, si riveli in concreto idonea (la prospettiva è quella del reato di pericolo concreto) a sviare il corretto esercizio della predetta funzione di accertamento e, quindi, ad alterare l'esito della procedura di collaborazione volontaria, consentendo l'emersione di attività patrimoniali o finanziarie ad un “prezzo” diverso – e inferiore – a quello [che sarebbe] dovuto in assenza della “falsità” medesima e, quindi, nella giusta applicazione delle disposizioni dettate dall'evocato art. 1 l. n. 186/2014;
  2. per altro verso, la falsità [o la non rispondenza al vero] da ritenersi, nei predetti termini, rilevante è quella afferente atti o documenti trasmessi o esibiti [ovvero notizie o dati forniti] in ogni momento in cui la procedura di collaborazione volontaria è a dirsi pendente e, quindi, in ogni momento successivo alla sua attivazione e anteriore all'esercizio, da parte del Pubblico Ufficio a ciò preposto, del potere di accertamento e di determinazione dei maggiori imponibili e delle imposte dovute [questo essendo, in uno con il corretto adempimento degli obblighi di pagamento posti a carico del contribuente, il momento in cui la procedura in rassegna può dirsi conclusa].

Del resto, come precisato dalla Suprema Corte, «se il legislatore avesse voluto considerare penalmente rilevanti soltanto le condotte di mendacio commesse in sede di attivazione della procedura, vale a dire con la presentazione e l'integrazione dell'istanza, ben avrebbe potuto farlo precisandolo con chiarezza o facendo riferimento, al più tardi, al termine da ultimo indicato»; diversamente «in aderenza alla ratio perseguita dall'incriminazione è stata invece non a caso utilizzata una più ampia formula idonea ad abbracciare tutte le condotte di mendacio considerate dalla norma incriminatrice comunque commesse nell'ambito della procedura di collaborazione volontaria, vale a dire del procedimento amministrativo finalizzato all'adozione del provvedimento finale come in linea generale previsto dall'art. 2 legge 7 agosto 1990, n. 241 disciplina nella specie certamente applicabile ove non derogata da speciali disposizioni».

Quello di cui all'art. 5-septies d.l. n. 167/1990 è, dunque, reato di mera condotta che «si consuma anche con una sola condotta di mendacio tra quelle previste»; tuttavia, qualora vi sia stata, nell'ambito della medesima procedura di collaborazione volontaria, trasmissione di plurime false dichiarazioni, informazioni, comunicazioni di atti o documenti, il reato, come precisato dal giudice di legittimità, «resta unico e qualora (…) la condotta criminosa venga reiterata nel tempo in momenti diversi la consumazione si protrae e cessa con il compimento dell'ultimo atto penalmente rilevante».

3. Nei termini indicati, la corretta individuazione del bene giuridico tutelato è attività esegetica d'aiuto anche ai fini della individuazione del profitto eventualmente generato dal reato.

Quella di cui all'art. 5-septies d.l. n. 167/1990 è incriminazione strumentale a tutelare il corretto svolgimento della procedura di “collaborazione volontaria”.

Ne deriva che qualora, in ragione della esibizione o trasmissione di atti o documenti falsi [ovvero in ragione della comunicazione di dati e notizie non rispondenti al vero], l'esito del procedimento tributario sia stato alterato e l'emersione delle attività patrimoniali o finanziarie illecitamente costituite o detenute sia quindi avvenuta mediante una imposizione fiscale diversa ed inferiore a quella che sarebbe conseguita alla giusta applicazione delle disposizioni dettate dalla disciplina tributaria di riferimento, le somme in tal modo non versate al Pubblico Erario rappresentano il profitto del reato di cui all'art. 5-septies d.l. n. 167/1990.

Del resto, se per profitto del reato deve intendersi il vantaggio economico derivante in via diretta ed immediata dalla commissione dell'illecito penale [in tal senso, Cass. pen., sez. un., 26 giugno 2015, n. 31617 e Cass. pen., sez. un. 31 gennaio 2013, n. 18374] e se detto vantaggio economico può essere costituito anche da un risparmio di spesa [in tal senso, Cass. pen., sez. un., 24 aprile 2014, n. 38343], allora, l'importo risparmiato in conseguenza [diretta ed immediata] della falsità rilevante ai sensi dell'art. 5-septies d.l. n. 167/1990 è certamente vantaggio economico derivante dalla commissione dell'illecito.

Non solo. Detto vantaggio economico ben può essere, nel concorso di ogni altro requisito normativamente prescritto, oggetto materiale del reato di autoriciclaggio, atteso che:

  1. «il dato giuridico (…) fondamentale per la configurabilità del reato di autoriciclaggio, è che dal reato presupposto derivi, come effetto diretto della condotta criminosa, un vantaggio patrimoniale (sia in termini di incremento che di risparmio), economicamente apprezzabile e idoneo, quindi, ad essere “riciclato” per evitare che sia riconducibile al reato presupposto» [così, Cass. pen., sez. III, 1° aprile 2019, n. 14101];
  2. anche il reato di falso, cui, almeno ai presenti fini, può essere ricondotta la fattispecie di cui all'art. 5-septies d.l. n. 167/1990, può fungere da reato presupposto del delitto di autoriciclaggio, almeno «in quei casi in cui dal falso derivi, come effetto diretto, un provento di natura patrimoniale per l'agente, idoneo, poi, ad essere riciclato» [così, Cass. pen. sez. III, 1° aprile 2019, n. 14101, la quale in motivazione ha precisato che «se dal falso l'agente non consegue alcun provento (es. art. 476 c.p.) o, se il falso è commesso come reato mezzo per compiere un altro reato dal quale derivi un provento (ad es. il pubblico ufficiale incaricato di redigere un verbale di inventario, omette di inserirvi un bene di cui poi si appropria), il reato di autoriciclaggio o non è configurabile (nella prima ipotesi) o lo è (nel secondo esempio ipotizzato) ma in relazione al reato appropriativo perché solo da questo consegue, in modo diretto, un provento riciclabile»].

4. In quanto fattispecie regolamentata da norma diversa da quelle poste dal decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74, il reato di “esibizione di atti falsi e comunicazione di dati non rispondenti al vero” sfugge, con riguardo alla “competenza territoriale”, alle peculiari regole dettate dall'art. 18 d.lgs. n. 74/2000, valevoli, come noto, per i soli delitti previsti dalla ridetta normativa.

Competente a conoscere del reato in commento è, quindi, il giudice del luogo ove il reato è stato accertato, così come disposto dall'art. 21, comma 3, legge 7 gennaio 1929, n. 4, norma che:

  1. come precisato nella sentenza in commento, «in forza dell'art. 210 disp. coord. c.p.p. (…) continua ad applicarsi in deroga alle disposizioni generali in materia di competenza, anche per territorio, previste dal codice di rito»;
  2. laddove attribuisce rilevanza al “luogo dell'accertamento”, si riferisce, come specificato dalla sentenza in commento, alla «sede dell'Ufficio in cui è stata compiuta una effettiva valutazione degli elementi che depongono per la sussistenza della violazione, inteso quale sede dell'autorità giudiziaria requirente che, disposte le indagini per verificare l'esistenza di irregolarità tributarie, ne aveva apprezzato i risultati», rimanendo invece «irrilevante (…) il luogo di acquisizione dei dati e delle informazioni da valutare» [così, Cass. pen., sez. III, 9.1.2014, n. 11978].

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