La Corte costituzionale condivide il diritto vivente per interpretare le disposizioni transitorie dell'art. 95, comma 1, d.lgs. 150/2022

04 Marzo 2024

La Corte costituzionale, con la sentenza n. 25 depositata il 26 febbraio 2024 ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 95 del d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, sollevate, in riferimento agli artt. 3,24 e 27 Cost., dal Tribunale di Marsala.

Le disposizioni interessate

Le disposizioni (transitorie) interessate dalla questione sono contenute nell'art. 95, comma 1, primo e secondo periodo.

Il primo periodo stabilisce che le norme previste dal Capo III («Pene sostitutive delle pene detentive brevi») della legge 24 novembre 1981, n. 689 [vale a dire gli artt. da 53 a 76 della Sezione I («Applicazione delle sanzioni sostitutive») e gli artt. da 82 a 84 della Sezione II («Applicazione di sanzioni sostitutive su richiesta dell'imputato»], se più favorevoli, si applicano anche ai procedimenti penali pendenti in primo grado o in grado di appello al momento dell'entrata in vigore del decreto n. 150/2022 (30 dicembre 2022).

Il secondo periodo stabilisce che il condannato a pena detentiva non superiore a quattro anni, all'esito di un procedimento pendente innanzi la Corte di cassazione al 30 dicembre 2022, può presentare, entro trenta giorni dalla irrevocabilità della sentenza, istanza di applicazione di una delle pene sostitutive di cui al Capo III della legge 24 novembre 1981, n. 689, al giudice dell'esecuzione, ai sensi dell'art. 666 c.p.p.

Il caso

A. D.V., condannato con sentenza irrevocabile alla pena di un anno e cinque mesi di reclusione, si rivolge al Tribunale di Marsala, quale giudice dell'esecuzione, chiedendo la sostituzione della pena, non condizionalmente sospesa, con una delle pene detentive brevi previste dall'art. 20-bis c.p. (artt. 53 ss. l. n. 689/1981).

La sentenza d'appello era stata pubblicata mediante lettura del dispositivo dalla Corte di appello di Palermo il 9 novembre 2022 e la motivazione era stata depositata il 13 dicembre, in anticipo rispetto al termine fissato.

Il 30 dicembre 2022 era entrato in vigore il d.lgs. n. 150 del 2022.

Il 21 gennaio 2023 il difensore aveva proposto istanza alla Corte d'appello, chiedendo la sostituzione della misura della custodia cautelare in carcere con una delle pene sostitutive previste dal citato art. 20-bis c.p.

Il 13 febbraio 2023 la Corte d'appello, applicando la disposizione del primo periodo dell'art. 95, aveva dichiarato inammissibile l'istanza perché il procedimento non era, alla data del 30 dicembre 2022, pendente in grado di appello, ma si era già concluso.

Passata in giudicato la decisione, la difesa del condannato si era rivolta – come si è detto all'inizio – al giudice dell'esecuzione e nel relativo procedimento questi aveva sollevato la questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3,24 e 27 Cost., dell'art. 95 nella parte in cui non consente di presentare al giudice dell'esecuzione, entro trenta giorni dal passaggio in giudicato della sentenza, istanza di applicazione di una delle pene sostitutive delle pene detentive brevi di cui all'art. 20-bis c.p. «ai condannati a pena detentiva non superiore a quattro anni nei confronti dei quali, al momento dell'entrata in vigore del succitato decreto, pendeva dinanzi alla Corte di appello il termine per il deposito della sentenza».

La disposizione censurata è affetta – sostiene il rimettente – da una lacuna involontaria, non avendo disciplinato l'ipotesi particolare in cui la Corte d'appello – al 30 dicembre 2022 – abbia già definito il giudizio innanzi a sé mediante la pronuncia del dispositivo in udienza, ma sia ancora pendente il termine per il deposito della motivazione. Ipotesi alla quale può affiancarsi quella in cui la motivazione sia stata depositata, ma sia ancora pendente il termine per il ricorso in Cassazione.

La decisione della Corte costituzionale

Superata l'eccezione, sulla quale non è il caso di indugiare, di tardività della richiesta presentata al giudice dell'esecuzione, la Corte non ha avuto dubbi nell'individuare, seguendo il ragionamento della difesa, la violazione di parametri costituzionali.

Le affermazioni sono categoriche: «evidente frizione con il principio di eguaglianza, non essendo ravvisabile alcuna ragione giustificatrice della differenza di trattamento rispetto alle altre ipotesi ivi disciplinate, e in particolare a quella in cui il processo già pendesse innanzi alla Corte di cassazione»; «contrasto con il principio della retroattività della lex mitior, pur non evocato dal rimettente; principio che la costante giurisprudenza di questa Corte riconduce all'area di tutela degli artt. 3 e 117, comma 1, Cost., quest'ultimo in relazione all'art. 7 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo (da ultimo, sentenze n. 198 del 2022, n. 238 del 2020 e n. 63 del 2019)».

La Corte costituzionale non ha, tuttavia, dichiarato l'illegittimità del secondo periodo del comma 1 dell'art. 95, ma ha ritenuto costituzionalmente “conforme” l'interpretazione della disposizione proposta dalla Corte di cassazione, assurta in breve tempo a “diritto vivente”.

Il diritto vivente

La disposizione è letta nei termini che seguono da Cass. pen., sez. VI, 21 giugno 2023, n. 34091, Rv. 285154, Cass. pen., sez. V, 28 giugno 2023, n. 37022, Rv. 285229, Cass. pen., sez. IV, 26 settembre 2023, n. 43975, Rv. 285228, Cass. pen., sez. I, 11 ottobre 2023, n. 48579, Rv. 285684 e Cass. pen., sez. III, 14 novembre 2023, n. 51557, Rv. 285628 (che muovono dalla constatazione che il codice non contiene alcuna norma che individui il fatto o l'atto processuale che determina la “pendenza” del giudizio di impugnazione): il condannato a pena detentiva non superiore a quattro anni, all'esito di un procedimento che, al 30 dicembre 2022, sia pendente innanzi la Corte di cassazione, «per tale dovendosi intendere qualsiasi processo sia stato definito dalla Corte di appello mediante la pronuncia del dispositivo e, dunque, anche quei processi nei quali sia ancora pendente il termine fissato dal collegio per il deposito delle motivazioni, ovvero nei quali sia pendente il termine per il ricorso per cassazione», può presentare istanza di applicazione di una delle pene sostitutive di cui al Capo III della legge 24 novembre 1981, n. 689, al giudice dell'esecuzione, ai sensi dell'art. 666 c.p.p., entro trenta giorni dalla irrevocabilità della sentenza.

Lo spunto per questa interpretazione è contenuto in una sentenza delle Sezioni unite della Corte di cassazione (29 ottobre 2009, n. 47008, D'Amato, Rv. 244810) che aveva circoscritto l'applicazione retroattiva della più favorevole disciplina in materia di prescrizione introdotta dalla legge 5 dicembre 2005, n. 251 ai processi pendenti in primo grado, con esclusione, dunque, di quelli pendenti in grado di appello o innanzi la Corte di cassazione, affermando che il fatto processuale che determina la pendenza in grado di appello è costituito dalla pronuncia del dispositivo da parte del giudice di primo grado; da quel momento il giudice non può più assumere ulteriori decisioni in merito all'accusa (salva la residua competenza in tema di procedimenti incidentali cautelari).

Questa interpretazione scioglie tutti i dubbi del giudice rimettente dato che assicura uniformità di trattamento a tutti gli imputati i cui processi fossero pendenti – in qualsiasi grado di giudizio – al 30 dicembre 2022 e consente loro di accedere alle più favorevoli pene sostitutive di cui al nuovo art. 20-bis c.p., evitando qualsiasi vulnus al diritto di difesa.

Il “diritto vivente” sembra andare oltre la cornice letterale della disposizione, ma la Corte costituzionale ritiene che esso sia il frutto (non proibito) di interpretazione analogica, non incompatibile con il dato testuale, necessaria a far fronte ad una lacuna non intenzionale.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.