Legge - 21/01/1994 - n. 53 art. 11
1. Le notificazioni di cui alla presente legge sono nulle e la nullità è rilevabile d'ufficio, se mancano i requisiti soggettivi ed oggettivi ivi previsti, se non sono osservate le disposizioni di cui agli articoli precedenti e, comunque, se vi è incertezza sulla persona cui è stata consegnata la copia dell'atto o sulla data della notifica. CommentoLa norma in commento, rimasta inalterata rispetto all'emanazione della legge n. 53/1994, ha carattere di norma di chiusura e portata decisamente ampia. Il legislatore, infatti, non solo ha previsto che qualunque inosservanza delle disposizioni contenute negli articoli precedenti comporti nullità, ma anche che tale nullità sia rilevabile di ufficio. Negli ultimi anni, quindi, molta giurisprudenza è stata prodotta in ordine alla rilevanza delle singole inosservanze, nonché alla sanabilità o meno della nullità prevista dall'articolo de quo. In primis deve essere segnalata la pronuncia della Corte d'appello di Milano n. 3083/2016 che, in relazione ad un caso di problematiche attinenti all'attestazione di conformità eseguita ai sensi del secondo comma dell'art. 3-bis l. n. 53/1994, ha stabilito: « appare eccessivamente formalistica la lettura della normativa in parola secondo cui la violazione di qualsivoglia delle norme che disciplinano la notifica in parola comporti senz'altro la nullità dell'atto processuale, e non possa risolversi in una mera irregolarità, pur quando non risulti leso alcun diritto di difesa del destinatario dell'atto notificato, soprattutto se si consideri che, come nel caso concreto, non risulta lamentata alcuna difformità tra l'originale della sentenza cartacea e la copia estratta dal cancelliere e poi notificata ». Con ciò, quindi, ritenendo che non tutte le eventuali violazioni della normativa sulle notificazioni in proprio possa comportare — almeno in via automatica — la nullità della notificazione. Parimenti anche la Corte di Appello di Cagliari, con sentenza del 15 luglio 2016, n. 553 — peraltro conforme all'ordinanza della Suprema Corte n. 19814/2016 precedentemente citata — ha ritenuto che, in caso di notificazione effettuata ai sensi dell'art. 3-bis l. n. 53/1994 a mezzo della posta elettronica certificata, l'erronea indicazione, nell'oggetto del messaggio dell'anno della legge istitutrice della facoltà di notifica in proprio per gli avvocati, integra un mero errore materiale rilevabile all'evidenza e non costituisce motivo di nullità della notificazione stessa. Ponendo, però, di non aderire ai predetti orientamenti delle Corti di Milano e Cagliari, e ponendo altresì che, in virtù del dato letterale dell'articolo in commento, qualunque inosservanza — seppur minima — comporti nullità, vi è comunque da chiedersi in quali casi la nullità de qua possa dirsi sanata. Ebbene, sul punto, la Corte di Cassazione si è espressa con numerose pronunce da ultimo l'ordinanza del 14 marzo 2017, n. 6518, che ritenendo valida una notifica contenente una relata di notifica priva di firma digitale, ha stabilito che, tale mancanza, non possa essere causa né di inesistenza dell'atto né di nullità della notifica, ciò, qualora, sia indubbia la sua riconducibilità alla persona dell'avvocato notificante, ad esempio attraverso l'indicazione dell'Avvocato medesimo nella relata de qua nonché della persona che ha ritualmente conferito la procura. In tal caso, quindi, la notificazione avrebbe comunque prodotto il risultato della conoscenza dell'atto e quindi il raggiungimento dello scopo legale, senza limitazione dei diritti difensivi della parte ricevente. Tale orientamento peraltro era già stato enunciato nella pronuncia n. 7665/2016 delle Sezioni Unite, con la quale la Suprema Corte ha stabilito: « I ricorrenti, nella memoria difensiva, eccepiscono preliminarmente la nullità del controricorso erariale per vizi formali della sua notificazione effettuata con PEC, in ragione della asserita violazione delle regole dettate dalla l. n. 53 del 1994, art. 3-bis, comma 4) — 5), e dall'art. 19-bis del provvedimento ministeriale del 16 aprile 2014. L'eccezione non è fondata. Opera, infatti, nella fattispecie l'insegnamento, condiviso e consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, secondo cui “il principio, sancito in via generale dall'art. 156 c.p.c., secondo cui la nullità non può essere mai pronunciata se l'atto ha raggiunto lo scopo a cui è destinato, vale anche per le notificazioni, anche in relazione alle quali — pertanto la nullità non può essere dichiarata tutte le volte che l'atto, malgrado l'irritualità della notificazione, sia venuto a conoscenza del destinatario” (Cass., sez. lav., n. 13857 del 2014; conf., sez. trib., n. 1184 del 2001 e n. 1548 del 2002). Il risultato dell'effettiva conoscenza dell'atto che consegue alla consegna telematica dello stesso nel luogo virtuale, ovverosia l'indirizzo di PEC espressamente a tale fine indicato dalla parte nell'atto introduttivo del giudizio di legittimità, determina infatti il raggiungimento dello stesso scopo perseguito dalla previsione legale del ricorso alla PEC. Nella specie i ricorrenti non adducono né alcuno specifico pregiudizio al loro diritto di difesa, né l'eventuale difformità tra il testo recapitato telematicamente, sia pure con estensione.doc in luogo del formato.pdf, e quello cartaceo depositato in cancelleria. La denuncia di vizi fondati sulla pretesa violazione di norme di rito non tutela l'interesse all'astratta regolarità del processo, ma garantisce solo l'eliminazione del pregiudizio subito dal diritto di difesa della parte in conseguenza della denunciata violazione (Cass., sez. trib., n. 26831 del 2014). Ne consegue che è inammissibile l'eccezione con la quale si lamenti un mero vizio procedimentale, senza prospettare anche le ragioni per le quali l'erronea applicazione della regola processuale abbia comportato, per la parte, una lesione del diritto di difesa o possa comportare altro pregiudizio per la decisione finale della Corte ». Le Sezioni Unite, con estrema chiarezza, da un lato chiariscono definitivamente che il vizio non possa essere fine a sé stesso ma debba necessariamente aver comportato una lesione del diritto di difesa della controparte e, dall'altro, che la nullità sarà in ogni caso sanata dal raggiungimento dello scopo dell'atto. Non si può ritenere, quindi, che la Suprema Corte abbia previsto una sanatoria a largo spettro per tutti i casi di irregolarità della notificazione, ma che — più correttamente — tali casi debbano essere specificatamente analizzati singolarmente. Infatti, in alcune ipotesi, ben distinte dalla casistica sopra richiamata, la Suprema Corte, ha ritenuto invalide notificazioni prive di specifici requisiti inerenti l'atto notificato. In particolare, con ordinanza n. 14338 dell'8 giugno 2017, la Cassazione ha ritenuto inesistente la notificazione dell'atto di gravame carente di firma digitale, non solo perché la copia di esso trasmessa via PEC dal difensore dell'appellante era carente della firma digitale, ma, soprattutto, in quanto l'originale del medesimo atto ne era privo. Ritengono infatti gli Ermellini che « come già posto in rilievo anche da Cass. n. 22781/2015 (con attenzione particolare alla firma digitale della sentenza, ma con ricognizione normativa di più ampia portata sul documento digitale), la firma digitale è pienamente equiparata, quanto agli effetti, alla sottoscrizione autografa in forza dei principi contenuti nel d.lgs. 7 marzo 2005, n. 82 e successive modificazioni (cfr., segnatamente, artt. 1, comma 1, lett. p) e s), 20, comma 3 e 21) applicabili anche al processo civile in forza di quanto disposto dall'art. 4 del d.l. 29 dicembre 2009, n. 193, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 febbraio 2010, n. 24 — e delle specifiche disposizioni, di rango secondario (ma in attuazione del citato d.l. n. 193 del 2009), di cui al combinato disposto degli artt. 11 e 34 del d.m. n. 44 del 2011 e (in base al predetto art. 34) delle specifiche tecniche dettate dall'art. 12 del provvedimento del Ministero della giustizia del 16 aprile 2014; che, pertanto, essendo la firma digitale — al pari della sottoscrizione dell'atto analogico (cd. cartaceo) ai sensi dell'art. 125 c.p.c. (cfr. tra le altre Cass. n. 1275/2011) — requisito di validità dell'atto introduttivo del giudizio (anche di impugnazione), in quanto essa attiene alla formazione dello stesso e alla sua riconducibilità a chi lo ha formato (nella specie, necessariamente al difensore munito di procura), l'inammissibilità dell'appello derivava già da siffatta carenza, non sanabile (e in tal senso, essendo corretto in diritto il dispositivo della sentenza, ne va parzialmente corretta la motivazione ai sensi dell'art. 384 c.p.c.); che il ricorrente incentra le proprie doglianze (che ribadisce con la memoria successivamente depositata) unicamente sul profilo della notificazione dell'atto di appello, ossia sulla copia notificata di tale atto, cui si riferiscono anche le argomentazioni sulla trasmissione via PEC, la quale, seppure attesti la provenienza dell'atto dal mittente, non si correla affatto, né pertanto può surrogare, la sottoscrizione, digitale, dell'originale dell'atto; che, quindi, risulta inconferente il precedente di questa Corte richiamato nell'istanza di fissazione dell'udienza e nella memoria — Cass. n. 26102/2016 — giacché attiene non già alla sottoscrizione dell'originale del ricorso per cassazione, ma alla notificazione della copia informatica dell'atto originariamente formato su supporto analogico (copia informatica di cui, per l'appunto, si ritiene non necessaria la sottoscrizione con firma digitale, essendo sufficiente l'attestazione di conformità all'originale); che, del pari, risultano inconferenti i precedenti richiamati in ricorso — cfr. p. 3: Cass. n. 4548/2011 e altri — che enunciano tutti il principio per cui la mancanza della sottoscrizione del procuratore abilitato a rappresentare la parte in giudizio nella copia notificata della citazione non incide sulla validità di questa, ove, però, detta sottoscrizione sussista nell'originale e la copia notificata fornisca alla controparte sufficienti elementi per acquisire la certezza della sua rituale provenienza da quel procuratore; che, in definitiva, è assente ogni censura avverso l'accertamento (assorbente) del giudice del merito sulla assenza di firma digitale dell'originale dello stesso anzidetto atto, né tantomeno si assume in ricorso, in modo diretto e inequivoco, che esso era firmato digitalmente, né, in ogni caso, si provvede, in funzione dell'esistenza di siffatta firma, alla specifica localizzazione processuale del documento, ai sensi dell'art. 366, primo comma, n. 6, c.p.c. ». Circa l'inesistenza della notificazione sussiste anche un precedente del Tribunale di S. Maria Capua Vetere, che con sentenza 15 giugno 2017 ha sancito l'inesistenza senza possibilità di sanatoria (neanche mediante la costituzione e comparizione in udienza dell'opposto) la notifica telematica dell'atto di opposizione a decreto ingiuntivo, laddove venga omessa l'allegazione dell'atto di citazione in opposizione. I provvedimenti affrontano entrambi la delicata problematica della inesistenza della notifica a mezzo PEC mancanti rispettivamente dell'atto di opposizione, nel caso del provvedimento del Tribunale campano, o della firma sull'atto notificato, nel caso oggetto di pronuncia della Suprema Corte. Nel caso affrontato dal Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, si costituiva ritualmente l'opposto il quale eccepiva la inesistenza della notifica dell'atto di opposizione, assumendo che nella PEC ricevuta era contenuta solo la procura di controparte e pertanto chiedeva dichiararsi inammissibile l'opposizione ed acclarare il passaggio in giudicato del decreto ingiuntivo opposto. Nel caso di specie il Tribunale, con sentenza resa ai sensi dell'art. 281-sexies accoglieva l'eccezione ritenendo inesistente la notifica dell'opposizione a decreto ingiuntivo. Nel caso all'esame della Suprema Corte, invece, parte soccombente in primo e in secondo grado, proponeva ricorso per cassazione avverso la sentenza con la quale il Tribunale di Salerno aveva dichiarato inammissibile l'appello, ritenendo inesistente e non sanabile, neppure con la costituzione da parte dell'appellata, la notifica di un atto di appello privo di firma digitale. In questa fattispecie la Suprema Corte nel confermare la sentenza della Corte di Appello di Salerno riteneva inesistente la notificazione essendo l'atto di appello privo di firma digitale. Entrambi i provvedimenti hanno dichiarato l'inesistenza di due notifiche a mezzo PEC ai sensi dell'articolo in commento. In particolare, il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere richiama il principio dettato dall'art. 645 del codice di procedura civile osservando che, l'opposizione a decreto ingiuntivo deve essere notificata alla controparte per consentire la valida instaurazione del contraddittorio, necessaria per la trasformazione del procedimento monitorio in un ordinario processo di cognizione. Ritiene dunque il Tribunale che il deposito di un atto di opposizione a decreto ingiuntivo, non notificato alla controparte, sia inidoneo a introdurre un giudizio oppositorio a decreto ingiuntivo. Nel caso invece sottoposto all'esame della Suprema Corte, si richiama il principio di equivalenza della firma digitale alla firma autografa e, pertanto, la stessa costituisce un requisito di validità dell'atto introduttivo del giudizio, al pari della sottoscrizione dell'atto analogico ex art. 125 c.p.c. In entrambi i casi i giudicanti hanno dunque ritenuto di non applicare il principio del raggiungimento dello scopo, atteso che, le notifiche in questione, non sono affette da semplice nullità ma erano da considerarsi inesistenti e pertanto inidonee al raggiungimento dello scopo. L'inesistenza è stata fatta derivare, infatti, da un vizio inerente, non alla notificazione vera e propria, ma agli stessi atti da notificare che, nel caso scrutinato dal Tribunale campano non erano neppure stati posti a conoscenza del notificato, mentre nel caso posto all'esame della Suprema Corte erano stati notificati privi di firma. La Suprema Corte nel caso di specie, nel richiamare un suo precedente orientamento espresso con la sentenza n. 22781 del 2015, ha effettuato inoltre una breve ricognizione normativa e giurisprudenziale richiamando in particolare gli articoli 1, comma 1, lett. p) e s), 20, comma 3 e 2 del codice dell'amministrazione digitale (d.lgs. 7 marzo 2005, n. 82) applicabili anche al processo civile in forza di quanto disposto dall'art. 4 del d.l. 29 dicembre 2009, n. 193, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 febbraio 2010, n. 24 — e delle specifiche disposizioni, di rango secondario (ma in attuazione del citato d.l. n. 193 del 2009), di cui al combinato disposto degli artt. 11 e 34 del d.m. n. 44 del 2011 e (in base al predetto art. 34) delle specifiche tecniche dettate dall'art. 12 del provvedimento del Ministero della giustizia del 16 aprile 2014. La Cassazione inoltre non ha ritenuto, nel caso di specie, di aderire al più recente orientamento di cui alla sentenza n. 6518 del 14 marzo 2017 ed ai precedenti orientamenti in tema di notifiche cartacee in cui la firma mancante non era stata ritenuta causa di inesistenza dell'atto e laddove si affermava che, l'identità del firmatario, potesse essere ricavabile aliunde, come ad esempio dalla inequivocabile provenienza dalla casella PEC dell'avvocato notificante a quella del difensore avversario, senza alcuna lesione del diritto di difesa della parte ricevente. La Suprema Corte invece, proprio su questo punto, ha ritenuto che la trasmissione via PEC, pur attestando la provenienza dell'atto dal mittente, può non correlarsi col firmatario e né pertanto può surrogare, la sottoscrizione, digitale, dell'originale dell'atto. Di segno contrario alle pronunce sopra richiamate la sentenza n. 17020 del 28 giugno 2018, che si pronuncia su un'eccezione di nullità della notificazione del ricorso per cassazione sollevata da uno dei controricorrenti e fondata sulla circostanza della mancata sottoscrizione digitale del ricorso per cassazione notificato. La Suprema Corte, passando in rassegna la normativa regolamentare, partendo dal D.M. 21 febbraio 2011, n. 44 e giungendo sino al provvedimento DGSIA 26 aprile 2014 (ovverosia le specifiche tecniche emanate ex art. 34, D.M. n. 44/2011), conclude che nessuna norma impone la firma digitale dell'atto notificato, ma semmai soltanto che l'atto deve essere redatto in formato PDF “senza restrizioni per le operazioni di selezione e copia di parti”. Inoltre, la Suprema Corte, afferma che la sottoscrizione digitale sarebbe prevista esclusivamente per gli atti “da depositare telematicamente all'ufficio giudiziario” ex art. 12, primo comma, lettera d), provvedimento DGSIA 26 aprile 2014, tant'è che neppure la l. 21 gennaio 1994, n. 53, riconosciuta come “fonte primaria” della disciplina sulla notifica telematica, dispone alcunché al riguardo. Ulteriori argomenti, idonei ad escludere la nullità sarebbero inoltre, ad avviso del Suprema Corte il fatto che quand'anche una norma regolamentare (peraltro “di terzo livello”, come il provvedimento DGSIA) disponesse un simile obbligo, essa non potrebbe prevedere un'ipotesi di nullità, in quanto soltanto una norma di rango primario potrebbe infliggere una simile sanzione processuale ed infine il principio, condiviso da un precedente orientamento di legittimità, che esclude la nullità della notificazione del ricorso per cassazione non sottoscritto, quando la copia depositata presso la cancelleria sia comunque firmata e non siano state cagionate lesioni al diritto della difesa delle altre parti del giudizio (tra le sentenze richiamate cfr. Cass. civ., 30 marzo 2017, n. 8213). Tale ultima pronuncia è stata duramente criticata in dottrina (in primis si veda A. Barale nella nota a sentenza Cass. civ, 28 giugno 2018, n. 17020 su IUS Processo Telematico, ius.giuffrefl.it) in quanto si rischierebbe di inaugurare, una pericolosa “liberalizzazione” delle regole del processo telematico, “liberalizzazione” in effetti ormai quasi sdoganata per quanto si dirà in seguito. Infatti, secondo A. Barale, la sentenza in commento, pur citando la l. n. 53/1994 e riconoscendola come la fonte primaria della disciplina sulle notifiche telematiche, omette di considerare il dettato del “suo” art. 3-bis, il quale impone il rispetto della normativa, anche regolamentare, sulla sottoscrizione dei documenti informatici nell'ambito delle notificazioni telematiche. Più in particolare la citata norma prevede che “La notificazione con modalità telematica si esegue a mezzo di posta elettronica certifica all'indirizzo risultante da pubblici elenchi, nel rispetto della normativa anche regolamentare, concernente la sottoscrizione, la trasmissione e la ricezione dei documenti informatici”. E d'altronde l'art. 20, d.lgs. 7 marzo 2005, n. 82 (Codice dell'amministrazione digitale), stabilisce al comma 1-bis che “Il documento informatico soddisfa il requisito della forma scritta e ha l'efficacia prevista dall'art. 2702 c.c. quando vi è apposta una firma digitale, altro tipo di firma elettronica qualificata o una firma elettronica avanzata”. Sempre secondo Barale, derogare a queste regole soltanto perché l'atto non viene depositato telematicamente in cancelleria ma viene notificato non sembra una considerazione convincente, sia perché è di fatto il medesimo atto che, una volta notificato, viene poi depositato in cancelleria, sia in quanto non pare che le disposizioni di legge consentano di effettuare una simile differenza, dal momento che il codice di rito all'art. 125 disciplina unitariamente “contenuto e sottoscrizione degli atti di parte” e quindi “la citazione, il ricorso, la comparsa, il controricorso, il precetto”, senza operare distinzioni — tantomeno così drastiche come quella che parrebbe introdurre la sentenza in commento — tra atti da depositare ed atti da notificare. In ogni caso il principio enunciato dalla Suprema Corte trova conferma anche in ulteriori pronunce, tra cui la sentenza del 5 giugno 2018, n. 14369, in cui la Cassazione ribadisce che “La violazione della normativa tecnica di cui all'art. 19-ter delle specifiche tecniche 16 aprile 2014 costituisce una mera irregolarità, non riconducibile alle ipotesi di nullità — in materia di notificazione degli atti a mezzo PEC — previste dall'art. 11 della legge n. 53/1994. In ogni caso, qualora controparte abbia ribattuto alle deduzioni avversarie, l'eventuale nullità sarebbe comunque sanata dal raggiungimento dello scopoex art. 156 c.p.c.”, ed ancora, nella pronuncia del 12 luglio 2018 n. 18324 in cui viene sancito che “la notificazione telematicaex art. 3- bis l. 21 gennaio 1994 n. 53, effettuata mediante allegazione di un documento elettronico in formato “PDF-immagine” (ossia ricavato da scansione di un documento analogico), anziché in formato “PDF-nativo” (ossia realizzato mediante la conversione di un file formato mediante un programma di videoscrittura), non è nulla, poiché scopo della notificazione, in qualsiasi forma essa avvenga, è portare l'atto da notificare a conoscenza del destinatario, non consentirne l'estrazione di parti mediante l'operazione c.d. “di copia-e-incolla”. Tale orientamento trova conferma anche nei più recenti orientamenti della Suprema Corte ormai decisa nel confermare anche sulle notifiche a mezzo pec il principio di raggiungimento dello scopo. In particolare, con sentenza del 15 giugno 2021, n. 16929 la Suprema Corte ha disatteso l'eccezione di nullità della notificazione del regolamento di competenza sollevata dalle parti resistenti, richiamando il principio secondo cui « l'irritualità della notificazione di un atto a mezzo di posta elettronica certificata non ne comporta la nullità se la consegna dello stesso ha comunque prodotto il risultato della sua conoscenza e determinato così il raggiungimento dello scopo ». In senso conforme si è pronunciata sempre la Suprema Corte con sentenza n. 16746 del 14 giugno 2021 sancendo che l'irritualità della notificazione a mezzo PEC, come la mancanza nella relata della firma digitale dell'avvocato notificante, non comporta l'inesistenza dell'atto, potendo essere riscontrata la stessa attraverso altri elementi di individuazione dell'esecutore della notifica, come la riconducibilità della persona del difensore indicato nella relata alla persona munita di procura speciale per la proposizione del ricorso, raggiungendo così la conoscenza dell'atto e quindi lo scopo legale della notifica. La Corte si è pronunciata anche in casi molto specifici ritenendo valida una notifica telematica contenente un'attestazione di conformità contenente un nome del file privo di estensione (cfr. Cass. civ., sez. I, 8 novembre 2022, n. 32774) oppure nel caso di messaggio PEC illeggibile ponendo in capo al destinatario, in un'ottica collaborativa, l'onere rendere edotto il mittente incolpevole delle difficoltà di cognizione del contenuto della comunicazione legate all'utilizzo dello strumento telematico (cfr. Cass. civ., sez. II, 28 maggio 2021, n. 15001). Su quest'ultimo punto il Collegio ritiene che, a fronte della documentazione comprovante l'avvenuta accettazione dal sistema e ricezione del messaggio di consegna, l'onere della prova della disfunzione del sistema gravi sulla parte che contesta la regolarità della notificazione. La Corte sul punto richiama i precedenti (Cass. n. 20747 del 2018, più di recente Cass. 21 febbraio 2020, n. 4624 e Cass. 24 settembre 2020, n. 20039), affermando che « una volta acquisita al processo [in questo caso attraverso l'asseverazione], la prova della sussistenza della ricevuta telematica di avvenuta consegna, solo la concreta allegazione, da parte del destinatario, di una qualche disfunzionalità dei sistemi telematici potrebbe giustificare migliori verifiche sul piano informatico, con onere probatorio a carico del medesimo destinatario (Cass. 31 ottobre 2017, n. 15819; v. anche Cass. 22 dicembre 2016, n. 26773 e, per la precisazione che, in tale ambito, non vi è comunque necessità di querela di falso, Cass. 21 luglio 2016, n. 15035), e ciò in coerenza con i principi già operanti in tema di notificazioni secondo i sistemi tradizionali, ove, a fronte di un'apparenza di regolarità della dinamica comunicatoria, spetta al destinatario promuovere le contestazioni necessarie ed eventualmente fornire la prova di esse (ex plurimis, v. Cass. 20 ottobre 2002, n. 18141; Cass. 20 luglio 1999, n. 7763) ». Pertanto, la corte dichiarava il ricorso inammissibile per tardività ritenendo valida la notifica effettuata ai fini della decorrenza del termine breve. Vi sono tuttavia alcuni casi in cui la stessa Suprema Corte ha, negato l'applicabilità del principio del raggiungimento dello scopo, coma ad esempio nella sentenza del 2 marzo 2018 n. 4932 con cui è stato dichiarato inammissibile il controricorso in Cassazione notificato a mezzo PEC, redatto in formato analogico e in seguito convertito in formato digitale, se privo della attestazione di conformità all'originale richiesta per le copie informatiche di atti analogici ex art. 3-bis, l. n. 53/1994. Nel caso di specie il difensore del ricorrente a seguito di una notifica a mezzo PEC del controricorso per Cassazione presentava memoria ex art. 378 c.p.c. deducendo la nullità della notifica del controricorso, per mancata attestazione della conformità all'originale richiesta per le copie informatiche di atti analogici ex art. 3-bis, l. n. 53/1994. La Suprema Corte rilevando che tale nullità era stata prontamente eccepita dal ricorrente, dichiarava inammissibile il controricorso privo della attestazione di conformità all'originale nella relata di notifica. Rilevava la Corte che parte ricorrente si era opposta alla produzione del controricorso deducendo tempestivamente, nella memoria ex art. 378 c.p.c., la nullità della notifica del controricorso che, in quanto prontamente eccepita, non abilitava il ricorrente, né tantomeno la Suprema Corte, ad esaminare le argomentazioni del controricorrente. La Cassazione dichiarava dunque inammissibile il controricorso, in quanto privo della attestazione di conformità all'originale nella relata di notifica. La decisione ribadiva che, qualora “l'avvocato scelga di notificare ai sensi dell'articolo 3-bis un atto originariamente formato su supporto analogico, come nel caso di specie, deve provvedere ad estrarre copia informatica dell'atto stesso, attestandone la conformità con le modalità previste dall'art. 16-undecies, d.l. 18 ottobre 2012, n. 179, convertito, con modificazioni, dalla l. 17 dicembre 2012, n. 221”. La tesi della Corte si basa sul fatto che l'articolo in questione prevede un rigidissimo formalismo nel compiere le attestazioni di conformità, in particolar modo se le stesse vengano effettuate su foglio separato o nella relata di notificazione. Tale requisito, ribadito anche nell'art. 3-bis, comma 4, lett. g), l. n. 53/1994, laddove non rispettato, non può che comportare la nullità della notifica ai sensi dell'art. 11 della suddetta legge. La stessa Suprema Corte cita il principio sancito dalle sezioni unite con la pronuncia n. 7665/2016 e rileva che, il raggiungimento dello scopo, dovrebbe risultare da memorie o altre attività difensive del ricorrente che dimostrino la ricezione del controricorso. Tuttavia, pur dandosi atto che la comunicazione della cancelleria contenente la fissazione dell'adunanza informava il ricorrente della costituzione del controricorrente abilitandolo ad esaminare le avversarie argomentazioni, la Corte rileva correttamente che l'eccezione circa la nullità della notifica e della produzione della stessa, poiché tempestivamente formulata nella successiva memoria difensiva, costituisce un concreto “ostacolo” alla sanatoria tout-court della notifica. Appare inoltre di notevole interesse, l'argomentazione della Corte, riguardo al raggiungimento dello scopo che, a detta dei Giudici di legittimità, non può essere dichiarato sulla base della mera prova di conoscenza effettiva dell'atto, ma deve risultare da un “comportamento processuale” della parte a cui la notificazione è diretta. La sentenza in commento, inoltre, non si pone neppure in contrasto con i numerosi precedenti che ritengono idonea al raggiungimento dello scopo anche la notifica contenente una mera copia degli atti notificati (cfr. Cass. civ., n. 10514/2015, Cass. civ., n. 10224/2014, Cass. civ., n. 16317/2004). Ebbene in tali casi la Cassazione ha più volte ritenuto che la mancanza della certificazione del cancelliere attestante la conformità della copia all'originale non incide sulla validità della notificazione. Non si può tuttavia non rilevare che, nel caso delle notifiche a mezzo PEC, la rigidità della normativa (ed in particolare in presenza di una sanzione di nullità espressamente prevista dall'art. 11, l. n. 53/1994) non consentirebbe di poter allargare l'ambito di applicazione del principio di raggiungimento dello scopo, men che meno in mancanza di impulso di parte volto a prestare acquiescenza ad una notificazione nulla. Peraltro, la stessa sopracitata legge alla lettera g) del comma 4 dell'articolo 3-bis richiede espressamente a pena di nullità la presenza all'interno della notificazione di una valida attestazione di conformità, laddove si notifichino atti o provvedimenti sotto forma di copia informatica. Appare altresì meritevole d'interesse analizzare cosa possa succedere laddove la notifica affetta da nullià non sia seguita dalla costituzione della controparte ovvero quando il vizio di notifica si verifichi in procedimenti che non prevedono alcuna forma di costituzione (come ad esempio il procedimento monitorio). Sul punto, si ritiene opportuno ricostruire l'evoluzione giurisprudenziale partendo da una pronuncia del Tribunale di Oristano per poi affrontare l'orientamento della Suprema Corte di cassazione in tema di notificazioni cartacee. Il Tribunale sardo, infatti, (con ordinanza del 6 giugno 2016) ha ritenuto che non potesse essere accolta la richiesta di esecutorietà di un decreto ingiuntivo notificato a mezzo PEC, trasmessa allegando esclusivamente una scansione della copia cartacea degli atti in possesso dell'avvocato e non le copie informatiche estratte dal fascicolo informatico. Orbene, pur non potendo sapere se la copia dell'atto notificato fosse o meno difforme rispetto a quella presente nel fascicolo informatico del ricorso monitorio, gli scriventi ritengono che tale pronuncia non si ponga in vero e proprio contrasto con i principi espressi dalla Corte di cassazione con la sentenza sopra citata, poiché l'elemento che caratterizza l'orientamento delle Sezioni Unite è la circostanza che le eventuali eccezioni attinenti la nullità della notificazione, debbano essere prospettate annoverando le reali ragioni per le quali la violazione possa aver comportato una lesione del diritto di difesa della parte. Appare evidente come, nel caso di richiesta di apposizione della formula esecutiva per mancata opposizione nel termine di 40 giorni, la lesione del diritto di difesa possa essere ravvisata nella mancata proposizione dell'opposizione stessa. Il Magistrato designato, quindi, ha — in questo caso — certamente tutelato i diritti della parte destinataria della notificazione. Oltre a ciò, è da tener presente la pronuncia n. 13880/2007 della Suprema Corte che, seppur risalente, trova applicazione in relazione ad una norma — come quella in commento — rimasta inalterata dal 1994 ad oggi. Con tale sentenza la Corte di cassazione ha chiarito che: « in materia di impugnazioni, la nullità della notifica della sentenza è inidonea a determinare la decorrenza del termine breve di cui all'art. 326 c.p.c. e la costituzione in giudizio del destinatario della notifica nulla non costituisce sanatoria del vizio ai sensi dell'art. 156 c.p.c. Ne consegue che, per stabilire se l'impugnazione sia stata proposta tempestivamente, occorre avere riguardo al termine di un anno dalla pubblicazione della sentenza, previsto dall'art. 327 c.p.c. ». Orbene, anche in questo caso, la mancata proposizione dell'impugnazione del termine breve ben può, al pari di una mancata costituzione in giudizio, far presumere che lo scopo della notificazione non sia stato effettivamente raggiunto e quindi, l'eventuale nullità della stessa, sanata. Proprio sul punto della decorrenza del termine breve per impugnare, inoltre, la Suprema Corte con sentenza del 25 settembre 2009, n. 2068 ha ulteriormente ribadito che il termine breve decorre non perché è avvenuta una conoscenza legale della notifica, ma poiché viene compiuta una formale attività acceleratoria e sollecitatoria, data dalla notificazione della sentenza effettuata nelle forme tipiche del processo di cognizione al procuratore costituito della controparte, secondo la previsione di cui agli artt. 285 e 170 c.p.c., e nel caso di specie anche dalle rigide formalità prescritte dalla legge n. 53 del 1994. La Suprema Corte inoltre ha ribadito, con sentenza del 9 giugno 2014, n. 12949 che il termine breve di impugnazione decorre soltanto in forza di una conoscenza legale del provvedimento da impugnare, e cioè di una conoscenza conseguita per effetto di un'attività svolta nel processo, della quale la parte sia destinataria o che essa stessa ponga in essere, e che sia normativamente idonea a determinare ex se detta conoscenza o tale, comunque, da farla considerare acquisita con effetti esterni rilevanti sul piano del rapporto processuale. Tuttavia, la giurisprudenza più recente della Suprema Corte con due speculari sentenze (Cass. civ. sez. un., 28 settembre 2018, n. 23620 e Cass. civ., 28 settembre 2018, n. 23458) ha ritenuto tardivo il ricorso in Cassazione proposto oltre il termine di sessanta giorni da una notificazione a mezzo PEC che, pur essendo privo degli elementi richiesti dall'art. 3-bis della legge n. 53 del 1994, non può considerarsi nullo ma irregolare e pertanto suscettibile di sanatoria ai sensi dell'art. 156 c.p.c. per raggiungimento dello scopo; non avendo il ricorrente dimostrato di aver subito alcun pregiudizio o lesione del diritto di difesa a seguito della violazione della regola processuale. Pur avendo entrambe le notifiche numerosi profili di irregolarità, entrambe le sentenze dichiarano inammissibile il ricorso poiché proposto oltre il termine di 60 giorni dalla notificazione a mezzo PEC, ritenendo che anche laddove la notificazione della sentenza sia stata effettuata al fine di far decorrere il termine breve, possa beneficiare della sanatoria prevista dall'art. 156 c.p.c. Tuttavia, può essere opportuno ripercorrere in questa sede le eccezioni mosse dai ricorrenti alle due notifiche. In particolare, relativamente alla sentenza n. 23458 il ricorrente eccepiva le seguenti irregolarità: a. era assente la rituale attestazione di conformità della relata di notifica allegata al messaggio PEC in data 15 aprile 2016 in quanto essa era apposta su documento informatico separato; b. il testo della relata predisposta dal difensore del notificante, pur dando conto dell'allegata sentenza della Corte d'Appello di Milano, indicando il corrispondente numero di procedimento con la data di pubblicazione, mancava del “nome file” così come previsto dalle “specifiche tecniche” del 28 dicembre 2015 rendendo dunque impossibile individuare la copia cui la notifica si riferiva; c. mancando una valida attestazione di conformità, il file trasmesso non equivaleva all'originale; d. la notifica doveva ritenersi inesistente e comunque nulla; e. il vizio dedotto doveva essere esteso a qualsiasi inosservanza del procedimento notificatorio e rilevabile d'ufficio; f. il vizio rendeva la notifica inidonea a far decorrere il termine breve perché, anche se l'atto era stato conosciuto, ai fini della decorrenza di esso non erano ammessi equipollenti; g. doveva ritenersi violato il diritto di difesa perché la PEC era stata indirizzata soltanto ad uno dei due difensori. Relativamente invece alla notifica scrutinata nella sentenza n. 23620 il ricorrente lamentava che l'indirizzo PEC dell'avvocato era stato tratto dall'albo degli avvocati di Messina e non dagli elenchi pubblici elencati tassativamente negli artt. 4 e 16, comma 12 della legge n. 221/2012 di conversione del d.l. n. 179/2012. In particolari tra tali elenchi gli unici da cui è possibile estrarre gli indirizzi degli avvocati sono il ReGinDe (Registro Generale degli Indirizzi Elettronici tenuto presso il Ministero della Giustizia) e Ini-PEC (www.inipec.gov.it). Inoltre sosteneva il ricorrente che, la notifica in parola, non riportava nell'oggetto della PEC la dicitura: “Notificazione ai sensi della legge n. 53 del 1994” e la relata non riportava il codice fiscale della parte istante. Ebbene tutti i vizi sopra riportati avrebbero dovuto comportare la nullità della notifica. Tuttavia, la Suprema Corte tuttavia, aderendo all'ormai granitico orientamento espresso fin dalla sopra richiamata sentenza a Sezioni Unite del 18 aprile 2016 n. 7665, ha ritenuto che tali vizi non possano comportare la nullità della notifica. In particolare, anche riguardo alla tassatività dei pubblici elenchi da cui l'avvocato può estrapolare l'indirizzo PEC del notificato, la Suprema Corte ha rilevato che anche l'albo degli avvocati pur non essendo incluso nel tassativo elenco sopra richiamato rappresenta la fonte di dati da cui provengono gli indirizzi PEC raccolti tanto nel ReGinDE quanto nel registro Ini-PEC. Peraltro, secondo la Suprema Corte, anche l'art. 5 della legge 53 del 1994, prescrivendo che, in caso di notifica indirizzata a un avvocato, la stessa debba essere inviata all'indirizzo PEC comunicato dal destinatario al proprio ordine, di fatto non può che avvallare la tesi secondo cui l'indirizzo PEC estrapolato dall'albo non potrà mai essere differente da quello presente sul ReGinDe o Ini-PEC. Relativamente invece agli ulteriori vizi contenuti nelle suddette notifiche entrambe le sentenze concordano nel giudicare mera irregolarità l'assenza di tali elementi. In particolare, secondo la Cass. 23458/2018 la mancanza del nome del file nell'attestazione di conformità prevista dall'art. 19-terprovvedimento 16 aprile 2014, rappresenterebbe una violazione di una norma di rango secondario. Secondo la Corte infatti, tali norme, finalizzate al funzionamento del processo civile telematico ma complementari rispetto a quelle di rango primario — non determinano la nullità della notifica in quanto l'interprete deve valutare la rilevanza del vizio denunciato in funzione della compromissione (o meno) dei diritti di difesa, atteso che la forma degli atti è prescritta per conseguimento del fine prefisso dalla norma che la disciplina, sicché deve comunque riconoscersi l'applicabilità del principio di sanatoria per raggiungimento dello scopo, ai sensi dell'art. 156, comma 3, c.p.c.. Peraltro, sempre secondo la Corte la puntuale descrizione della sentenza notificata, contenente anche il numero di sentenza e il numero di ruolo della causa, non potrebbero far sorgere alcun circa la genuinità della sentenza notificata. Alle stesse conclusioni giungono anche le Sezioni Unite nella sentenza n. 23620 del 2018, ribadendo che, l'unica condizione ostativa al raggiungimento dello scopo, sarebbe la prospettazione di circostanze lesive del diritto di difesa del notificato che, nella fattispecie in esame non venivano neppure prospettate. Un ulteriore questione meritevole di approfondimento si ritrova infine nella sentenza n. 23458, laddove si censura anche un ulteriore motivo di nullità della notifica ed in particolare la circostanza che la sentenza fosse stata notifica ad uno solo dei difensori costituiti. Anche su questo punto gli Ermellini richiamano un consolidato orientamento, secondo il quale “quando la parte sia costituita nel giudizio di primo grado a mezzo di due procuratori con uguali poteri di rappresentanza e la notifica della sentenza sia fatta ad entrambi, il termine per l'impugnazione decorre dalla prima notifica , anche se effettuata presso il procuratore non domiciliatario — sempreché questi non sia esercente fuori dal circondario e non eligente domicilioex art. 82 r.d. n. 37 del 1934 — atteso che i poteri, le facoltà e gli oneri che fanno capo al difensore domiciliatario sono identici a quelli che ineriscono al mandato del difensore non domiciliatario, con la conseguenza che quest'ultimo non può restare inerte” (Cass. n. 5759/2004; Cass. n. 2774/2011). Secondo la Suprema Corte, tale principio, ben può applicarsi alle notificazioni in proprio a mezzo PEC. Infatti, poiché tutti gli avvocati sono tenuti a dotarsi di un indirizzo PEC presente sul REGINDE al quale è conferita piena affidabilità, deve giungersi alla conclusione che la notifica della sentenza al anche ad uno solo dei difensori o al domiciliatario è valida ed idonea a far decorrere il termine breve per l'impugnazione. Ebbene, ad avviso di chi scrive, pur non potendosi in realtà conoscere con completezza e chiarezza le motivazioni addotte dai ricorrenti nei casi scrutinati dalla Suprema Corte nelle sentenze n. 23620 e n. 23458 del 2018 circa la presunta violazione del contraddittorio nei rispettivi ricorsi, si può sostenere che il principio del raggiungimento dello scopo debba essere applicato con ragion veduta, in tutti quei casi in cui vi possa essere una effettiva incertezza sulla effettiva acquiescenza della notifica. Infatti, in un clima in cui traspare molta incertezza nei confronti di un orientamento giurisprudenziale orientato ad una sanatoria tout court per tutte le notifiche in proprio a mezzo PEC, si ritiene più che mai doverosa e necessaria una analisi dei singoli casi concreti, anche al fine della verifica del requisito essenziale quale l'effettivo raggiungimento dello scopo dell'atto. Tornando, invece, ai motivi di nullità delle notifiche a mezzo PEC dedotti dai ricorrenti e non censurati dalle sentenze in commento, pur prendendosi atto che il principio del raggiungimento dello scopo rappresenta ormai una regola quasi costante nella sanatoria di notifiche a mezzo PEC viziate da nullità, gli scriventi non possono esimersi da qualche sommessa critica all'applicazione di tale principio alla notifica a mezzo PEC effettuata ai fini della decorrenza del termine breve. A parere di scrive infatti, il principio di raggiungimento dello scopo, non dovrebbe poter essere invocato in tutti quei casi in cui non vi è prova che lo scopo sia stato effettivamente raggiunto, ad esempio in mancanza di impugnazione o di un qualsiasi impulso processuale effettuato nei termini decorrenti dalla notifica nulla. Proprio a tal proposito, una recente sentenza della Corte di Appello di Bari (n. 1904/2018 pubbl. il 24 ottobre 2018) ha ritenuto che laddove manchi la relata di notificazione di cui al comma 5 dell'art. 3-bis della legge n. 53 del 1994, e in assenza di costituzione di controparte, non possa ritenersi raggiunto lo scopo, con la conseguenza che la sentenza resa nel grado di giudizio precedente deve ritenersi nulla per violazione del contraddittorio. Nel caso di specie la Corte di Appello di Bari applicava proprio l'articolo in commento e rilevava come la mancata costituzione nel giudizio di primo grado fosse nel caso di specie inequivocabile prova della mancata acquiescenza del destinatario della notifica. Peraltro, la stessa Suprema Corte in tema di nullità della notificazione a mezzo PEC ai fini della decorrenza del termine breve, ha assunto un diverso orientamento nel caso in cui la nullità della notifica derivi dall'utilizzo di un elenco non annoverato nell'articolo 16-ter del d.l. n. 179/2012. In particolare, la sentenza della Cassazione Civile n. 3709 dell'8 febbraio 2019, pur nota per il refuso tra i pubblici elenchi INI-PEC ed IPA, contiene un interessante principio proprio in tema di nullità della notifica effettuata ai fini della decorrenza del termine breve ad un indirizzo non presente in un pubblico elenco. Rileva infatti la Corte che il ricorso veniva notificato dall'Avvocatura dello Stato in data 26 aprile 2017 ed essendo la sentenza impugnata pubblicata il 26 ottobre 2016 e notificata a mezzo PEC il 28 ottobre 2016, il ricorso sarebbe stato notificato nel pieno rispetto del termine decadenza di cui all'art. 327 c.p.c. (cd. Termine lungo), ma ben oltre la scadenza del termine c.d. “breve” di cui agli artt. 325 e 326 c.p.c. l'Avvocatura dello Stato sosteneva l'inefficacia della notificazione a mezzo PEC, in quanto spedita ad un indirizzo elettronico inidoneo a ricevere le notifiche telematiche, trattandosi, infatti, di un indirizzo risultante dall'indice IPA, ma non registrato al Registro Generale degli Indirizzi Elettronici (ReGIndE) gestito dal Ministero della Giustizia. La Corte rilevava che solo l'indirizzo contenuto in pubblici elenchi è qualificabile ai fini processuali ed idoneo a garantire l'organizzazione preordinata all'effettiva difesa, e pertanto riteneva non idonea a determinare la decorrenza del termine breve di cui all'art. 326 c.p.c., la notificazione della sentenza effettuata ad un indirizzo di PEC diverso da quello inserito in un pubblico elenco. I predetti orientamenti trovano conferma anche nella più recente giurisprudenza di merito. Secondo il Tribunale di Enna (ordinanza del 21 marzo 2022) infatti non è mai suscettibile di sanatoria ed è pertanto inesistente, la notifica degli atti processuali effettuata mediante un indirizzo di posta elettronica certificata non istituzionale e pertanto non riscontrabile da pubblici elenchi. Inoltre, la Corte di Appello di Brescia, con sentenza del 16 dicembre 2020, ha ritenuto che, in tema di impugnazioni, non è idonea a far decorrere il termine breve la notificazione della sentenza presso il domicilio eletto, quando non sia specificato che essa è rivolta alla controparte rappresentata dal difensore al quale era stata conferita la procura alle liti, o al difensore medesimo, presso il domicilio eletto. Sulla validità della notifica a mezzo PEC in ordine alla decorrenza del termine breve e su una eventuale nullità derivante dall'errata produzione in giudizio si rimanda il lettore al commento svolto in calce all'art. 9 della legge n. 53/1994, tuttavia occorre analizzare in questa sede la più recente giurisprudenza sull'onere di depositare la prova circa la decorrenza del termine breve che, secondo la Suprema Corte, deve essere fornita da chi ha interesse ad eccepire la decadenza. La Suprema Corte, infatti, con sentenza n. 12396 del 21 maggio 2021, ha sancito che ai fini della decorrenza del termine breve per l'impugnazione, incombe sulla parte che vi abbia interesse, l'onere di fornire prova dell'avvenuta notificazione producendo copia autentica della sentenza impugnata unitamente alla relata di notificazione e alle ricevute di accettazione e consegna della PEC di notifica.Nel caso di specie l'agenzia delle Entrate proponeva per mezzo dell'Avvocatura dello Stato ricorso in Cassazione avverso una sentenza della Commissione Tributaria Regionale di Palermo oltre il termine di 60 giorni dalla presunta notifica della sentenza di appello effettuata dall'avvocato del contribuente. Il contribuente prospettava infatti nel controricorso di aver notificato la sentenza in data 17 dicembre 2015 deducendo la tardività del ricorso per cassazione proposto dall'Agenzia delle Entrate, spedito, a mezzo del servizio postale, il 31 maggio 2016 (e, pertanto, tempestivo se fosse applicabile, invece, il c.d. termine lungo di sei mesi). Il controricorrente, tuttavia, depositava copia della sentenza unitamente alla relata di notifica ed una semplice stampa dei messaggi pec di accettazione e consegna. La sentenza de qua, dichiarava comunque tempestivo il ricorso in quanto proposto nel termine lungo per impugnare di 6 mesi, non avendo il controricorrente offerto correttamente prova dell'avvenuta notificazione della sentenza impugnata. Infatti, il controricorrente, aveva affermato di avere notificato la sentenza di appello in modo da far decorrere il c.d. termine breve, ma non ha assolto all'onere della prova su di lui gravante. Osservava infatti la Corte che, la copia della sentenza (notificata a mezzo PEC) conteneva in calce un'attestazione di conformità che si riferiva alla sentenza stessa ed alla relata di notifica, ma non si estendeva alle ricevute di accettazione e di avvenuta consegna, che erano state riprodotte su un foglio a parte e successivo spillato alla decisione di appello notificata. Ne conseguiva che, non essendo stata dimostrata l'avvenuta notifica della pronuncia impugnata ai fini del decorso del c.d. termine breve, il ricorso per cassazione era da considerare tempestivo. La Suprema Corte è tornata, ancora una volta, sui principi relativi alla corretta produzione della prova della notifica e lo ha fatto richiamando la giurisprudenza relativa al deposito della prova della notifica telematica del ricorso e quella relativa alla prova della notificazione della sentenza avvenuta in forma cartacea. Infatti, secondo l'orientamento espresso dalla Suprema Corte nella sentenza n. 19078 del 18 luglio 2018 ai fini dell'ammissibilità del ricorso, laddove lo stesso venga notificato a mezzo PEC, è necessario depositare le ricevute di accettazione e consegna e dei relativi allegati munite di attestazione di conformità agli originali, ai sensi dell'art. 9, commi 1-bis e 1-ter, della legge n. 53 del 1994. Secondo la Suprema Corte, siffatta produzione rileva sul piano dell'ammissibilità del ricorso e può intervenire, in base all'art. 372 c.p.c., fino all'udienza di discussione ex art. 379 c.p.c. ovvero fino all'adunanza in camera di consiglio ex art. 380-bis c.p.c. Tale onere, secondo la Corte, deve essere assolto anche laddove la parte, nel caso di specie il Controricorrente, abbia interessa ad eccepire l'inosservanza del termine breve. Sul punto la Corte richiama la sentenza n. 25062 del 7 dicembre 2016 secondo cui, tale onere è assolto depositando copia autentica della sentenza impugnata corredata della relata di notificazione nonché — in caso di notificazione a mezzo posta — dell'avviso di ricevimento della raccomandata, che non ammette equipollenti, con la conseguenza che la mancata produzione di tali documenti determina l'inesistenza della notifica della sentenza, impedendo il decorso del termine breve di impugnazione. Sulla scorta di tale principio la Corte non ritiene provata l'avvenuta notifica ai fini della decorrenza del termine breve, avendo il controricorrente depositato, una mera copia priva di attestazione di conformità delle ricevute di accettazione e consegna e dei suoi allegati. Infatti, secondo la Corte il controricorrente, non assolvendo a tale onere su di lui gravante, ha di fatto solo affermato di avere notificato la sentenza di appello, in modo da fare decorrere il c.d. termine breve. Infatti, prosegue la Corte, la copia della sentenza (notificata a mezzo PEC) contiene in calce un'attestazione di conformità che si riferisce alla sentenza stessa ed alla relata di notifica, ma non si estende alle ricevute di accettazione e di avvenuta consegna, che sono riprodotte su un foglio a parte e successivo spillato alla decisione di appello notificata. Ne consegue che, non essendo stata dimostrata l'avvenuta notifica della pronuncia impugnata ai fini del decorso del c.d. termine breve, il ricorso per cassazione è da considerarsi tempestivo. Peraltro, la sentenza de qua, non rappresenta neppure una novità di rilievo atteso che, già con riferimento alle notifiche cartacee, si è più volte espressa, da ultimo con l'ordinanza n. 24415/2020, sancendo che, ai fini della prova del momento di decorrenza del termine breve per proporre impugnazione, la parte che eccepisce la tardività è tenuta a produrre copia autentica della sentenza impugnata corredata dalle relative prove della notificazione. Tale produzione, secondo la Corte salvo ammissione di ricezione da parte del destinatario, non ammette alternative, al punto che la sua mancanza determina l'impossibilità della decorrenza del termine breve e la conseguente applicazione del termine lungo per impugnare. Tuttavia sul punto sussiste anche un precedente riferito alla notifica telematica della sentenza ed in particolare, la sentenza n. 18317 del 9 luglio 2019, sancisce che “la notifica della sentenza effettuata alla controparte a mezzo PEC fa decorrere il termine breve d'impugnazione nei confronti del destinatario laddove il notificante dimostri di aver allegato e prodotto la copia cartacea del messaggio di trasmissione a mezzo PEC, delle ricevute di consegna e accettazione e della relazione di notificazione, sottoscritta digitalmente dal difensore, nonché la copia conforme della sentenza mediante estrazione di copia informatica dell'atto formato su supporto analogico e attestazione di conformità”. È evidente però anche per quanto esposto nel commento all'articolo 9 che laddove l'avvocato voglia avvalersi di una notifica effettuata ai fini della decorrenza del termine breve, e sia possibile fornirne prova con modalità telematiche, dovrà necessariamente depositare la prova digitale di detta notifica sotto forma di file .eml o .msg. Sul punto è esaustiva la sentenza 21 settembre 2020 n. 3181, emessa dalla Corte di Appello di Napoli e già citata nel commento all'articolo 9, che, esplicitando anche i dettagli tecnici delle notifiche a mezzo PEC, porta all'attenzione la possibilità che un messaggio PEC o una ricevuta di accettazione e consegna non prodotte nel formato nativo digitale (eml o msg) non consentano di provare con esattezza se detta pec sia mai stata consegnata al destinatario. Tanto, soprattutto nel caso in cui non sia lo stesso destinatario della notifica a produrre correttamente il file della notifica ricevuta. Ebbene, detto orientamento potrà sicuramente rivelarsi rivoluzionario in tutti quei casi in cui ci si voglia avvalere di una notifica effettuata a mezzo PEC, ad esempio anche ai fini della decorrenza del termine breve, e non si produca correttamente la prova. La mancata produzione in formato corretto della prova della notifica, dunque, comporterebbe la logica conseguenza che detta notifica si debba considerare come mai effettuata, in particolare laddove il destinatario negasse di averla ricevuta, disconoscendo la conformità della mera stampa della prova della notifica anche ai sensi dell'art. 2712 c.c. Inoltre, la Corte Partenopea affronta l'interessante tema dell'attestazione di conformità avvenuta in una circostanza, quale l'iscrizione a ruolo dell'appello, in cui era ed è possibile procedere mediante deposito telematico. Infatti, sottolinea la Corte, come la deroga all'obbligatorietà del deposito con modalità telematiche della prova della notifica mediante stampa dei messaggi pec e relative ricevute, operi soltanto in quegli uffici giudiziari (al momento in cui si scrive uffici Unep, Giudice di Pace) ove non sia attivo il servizio di deposito telematico. Ne consegue che, laddove sia possibile il deposito telematico, viene meno la qualifica di pubblico ufficiale per l'avvocato che procede all'attestazione e, detta attestazione, deve considerarsi come tamquam non esset. Allo stesso modo, dunque, l'avvocato che ad esempio voglia avvalersi di una notifica effettuata ai fini della decorrenza del termine breve come nel caso di specie, laddove voglia avvalersene, dovrà necessariamente depositare la prova digitale di detta notifica. Ad ogni buon conto l'orientamento prevalente, soprattutto in casi riferibili ad errori nell'attestazione di conformità contenuta nella relata di notifica, è di propendere per il raggiungimento dello scopo come sancito anche dall'ordinanza n. 33839 del 17 novembre 2022, della Suprema Corte. Nel caso di specie, la Suprema Corte condannava anche il ricorrente al risarcimento per danno da lite temeraria in quanto, a seguito del giudizio d'appello, che riformava la sentenza di prime cure, la decisione veniva notificata dal legale degli appellanti alla controparte con invio a mezzo PEC, con regolare attestazione di conformità e attestazione di conformità della copia digitale della sentenza notificata alla copia informatica alleata alla PEC ricevuta della Cancelleria della Corte d'Appello. Avverso tale sentenza, i soccombenti proponevano ricorso per Cassazione, le controparti proponevano controricorso invocando l'inammissibilità del ricorso per tardività e chiedendo la condanna al risarcimento dei danni per lite temeraria ex art. 96 c.p.c.. La Corte riscontrava la tardività del ricorso, notificato ben oltre il termine di 60 giorni dalla notifica della sentenza di appello (ovvero dopo circa 7 mesi). La Corte giudicava prive di pregio le considerazioni svolte dai ricorrenti sulla presunta nullità e/o inefficacia della notifica della sentenza di appello a mezzo PEC per l'asserita mancanza di attestazione di conformità. Secondo i ricorrenti, infatti, il notificante aveva provveduto all'estrazione in via diretta della sentenza dal fascicolo informatico. Tale circostanza però non veniva giudicata tale da inficiare la notificazione della sentenza ai fini dell'art. 325 c.p.c. Infatti, la copia pervenuta al difensore dei resistenti era da considerarsi equivalente all'originale ed inoltre l'attestazione di estrazione della copia era pienamente legittima. In conclusione, ritenendo regolare la notifica della sentenza d'appello, la Corte rigettava il ricorso dichiarandone l'inammissibilità e condannando i ricorrenti al risarcimento del danno per lite temeraria. Tuttavia, a parere degli scriventi, il principio del raggiungimento dello scopo può operare, solo in presenza di una specifica acquiescenza da parte del destinatario della notifica stessa che, nel caso di notificazione effettuata ai fini della decorrenza del termine breve, potrebbe essere provata solo dalla proposizione dell'appello nel termine breve. Peraltro, applicando il principio del raggiungimento dello scopo al caso di specie si verificherebbe una lesione del “diritto di difesa” in capo all'appellante in considerazione dell'ingiusto vantaggio processuale che l'appellato avrebbe a seguito di una denegata declaratoria di inammissibilità dell'appello perché tardivo rispetto alla notifica a mezzo PEC, vantaggio peraltro ottenuto a seguito della violazione di una regola processuale che, come si è detto, assume carattere di speciale ritualità rispetto ad altre fattispecie dove ragioni di economia processuale lasciano propendere per l'applicazione del principio di raggiungimento dello scopo. L'art. 156 c.p.c., infatti, nel prevedere la sanatoria in questione impone — come indicato dalla rilevante dottrina (Giovanardi; Minoli ed altri) — un primo accertamento che è proprio incentrato sulla individuazione della finalità dell'atto. Nella fattispecie della notificazione a mezzo PEC ai fini della decorrenza del termine breve, la finalità è duplice l'una per il soggetto notificante (che è quella di ridurre il termine della impugnazione) e l'altra in capo al soggetto cui è diretta la notifica (che è quella di allertare della notifica anche come fatto che produce la decorrenza del termine breve). Pertanto, anche nell'ottica di una interpretazione costituzionalmente orientata al rispetto del principio del contraddittorio, sia quest'ultima la finalità precipua e cioè quella possibilità del soggetto cui è rivolta la notifica di poter essere avvertito che trattasi di un atto che produce la decorrenza del termine breve avendo la certezza che il medesimo soggetto sia nella facoltà di avere piena e certa conferma che l'atto in questione (nella fattispecie copia autentica della sentenza) sia proprio quella utile a produrre gli effetti di riduzione del termine di impugnativa. Anche nella seconda fase di disamina della rispondenza dell'atto pur viziato da nullità al raggiungimento dello scopo, si è da più parti della dottrina chiarito che il “raggiungimento dello scopo” debba collocarsi come fatto materiale o almeno come situazione processuale. Si è quindi definito il raggiungimento dello scopo identificandolo nel compimento dell'atto successivo della serie di cui l'atto viziato costituisce il presupposto ed il cui avversarsi è diretto a provocare (Proto-Pisani, lezioni di diritto processuale civile, Martinetti, Dento ed altri). Contrariamente può reputarsi utile invocare il principio del raggiungimento dello scopo solo in quei casi in cui sussista effettivamente acquiescenza rispetto alla notificazione irregolare. Nella specie la Corte di Appello di Torino con sentenza 8 marzo 2019 n. 436, ha ritenuto sanata una notificazione in proprio priva di relata di notifica. Infatti, osserva la Corte che “qualora la notifica dovesse considerarsi nulla in quanto priva della relazione del difensore, il vizio sarebbe sanato dall'instaurazione del rapporto processuale tra le parti, che si sono costituite svolgendo le proprie difese. La Suprema Corte ha stabilito infatti che l'irritualità della notificazione di un atto a mezzo di posta elettronica certificata non ne comporta la nullità se la consegna dell'atto ha comunque prodotto il risultato della conoscenza dell'atto e determinato così il raggiungimento dello scopo legale. Sulla base di tale principio la Cassazione ha escluso che la notifica a mezzo PEC attuata prima del 15 maggio 2014, giorno di entrata in vigore delle norme tecniche di cui all'art. 18 del d.m. n. 44 del 2011, che secondo i ricorrenti rendevano attuabile la notificazione a mezzo PEC, fosse inesistente riscontrandone la nullità e il successivo raggiungimento dello scopo (Cass. civ., sez. 1, n. 20625/2017); più di recente, ed in ossequio allo stesso principio, la Cassazione ha ritenuto che costituisse una mera irregolarità la mancata indicazione, nell'oggetto del messaggio di PEC, della dizione “notificazione ai sensi della legge n. 53 del 1994” e l'inserimento del codice fiscale del soggetto notificante, essendo pacifico tra le parti l'avvenuto perfezionamento della notifica (Cass. civ., sez. un., n. 23620/2018). La mancata allegazione della procura, infine, è irrilevante ai fini della validità della notificazione, poiché la procura è stata prodotta successivamente.” In ordine invece all'onere di indicare nell'atto notificato per via telematica in corso di procedimento l'ufficio giudiziario la sezione, il numero e l'anno di ruolo della causa come previsto dall'articolo 3-bis, comma 6, la suprema corte con sentenza n. 17022 del 28 giugno 2018 rileva che la ratio di tale onere è consentire l'univoca individuazione del processo al quale si riferisce la notificazione. Ne consegue che, ove l'atto contenga elementi altrettanto univoci, quali — nel caso del controricorso o del ricorso incidentale per Cassazione — gli estremi della sentenza impugnata, la notificazione non potrà essere dichiarata nulla, ai sensi dell'art. 156, terzo comma, c.p.c., avendo comunque raggiunto il suo scopo. In un'ulteriore pronuncia la Suprema Corte ha ritenuto rituale per raggiungimento dello scopo la notifica di citazione di prime cure effettuata via PEC, previa conversione in immagine digitale dell'originale supporto cartaceo. Nel caso di specie il ricorrente lamentava che la Corte d'Appello avesse erroneamente escluso la nullità della suddetta notifica effettuata violando gli artt. 3-bis e 11 l. n. 53/1994 poiché la controparte non aveva redatto la relazione di notifica su documento informatico separato e sottoscritto digitalmente la stessa. Inoltre, la relazione non conteneva l'identificazione del soggetto che aveva conferito la procura. Inoltre, poiché la procura veniva allegata con atto separato contenente la certificazione autografa, secondo il ricorrente, vi sarebbe una violazione dell'art. 18 d.m. n. 44/2011, nonché delle previsioni della determinazione della Direzione generale per sistemi informativi automatizzati del 16 aprile 2014 che vietano la scansione per immagini in caso di notifica di documento informatico. La Suprema Corte con sentenza del 12 giugno 2018, n. 15200 rilevava che solo la notifica era stata inviata via PEC scansionando l'originale cartaceo, come consentito dalla l. n. 53/1994, mentre il resto del processo non si era svolto in modalità telematica. Per questo motivo non potevano applicazione le norme del processo telematico e, dunque, non si riteneva applicabile alla fattispecie concreta l'art. 18, comma 5, d.m. n. 44/2011. Inoltre, in relazione al provvedimento della D.G.S.I.A. del 16 aprile 2014, la Corte precisava che esso sia entrato in vigore successivamente rispetto alla notifica in parola e che riguardi i documenti originali informatici, trattandosi, nel caso di specie, di un documento nativo analogico. In ultimo la Suprema Corte con sentenza del 14 febbraio 2019, n. 4505 ha sancito che, l'irritualità della notificazione via PEC di un atto (o provvedimento) processuale non comporta la nullità della medesima, quando il suo destinatario abbia comunque avuto piena conoscenza di quanto notificato. |