Responsabilità dell’appaltatore per rovina e difetti di cose immobili e decorrenza del termine decennale

La Redazione
10 Maggio 2024

La Corte di cassazione, nella sentenza 3 maggio 2024, n. 11906, è tornata a pronunciarsi sull’azione risarcitoria prevista dall'art. 1669 c.c. ed, in particolare, sulla decorrenza del termine decennale di durata della responsabilità dell’appaltatore nei confronti del committente.

Nel caso di specie, il committente conveniva in giudizio l'appaltatore chiedendo il risarcimento dei danni da vizi dell'opera (costruzione di un edificio a tre piani). In primo grado la domanda veniva rigettata per la prescrizione annuale ex art. 1669 c.c. In secondo grado la pronuncia veniva riformata. 

L'appaltatore ricorreva così in cassazione denunciando la violazione dell'art. 1699 c.c., per avere la Corte d'appello omesso di accertare il decorso del termine decennale del rapporto di responsabilità dell'appaltatore nei confronti del committente. L'appaltatore faceva valere che il contratto di appalto aveva ad oggetto la costruzione di pilastri e di solai e che tali lavori erano stati completati nel 1988, mentre il grave difetto si era manifestato solo nel 2022, con il «rinvenimento di lesioni sulle travi di fondazione e lo sfaldamento del cemento». L'appaltatore concludeva quindi che il termine di dieci anni dall'ultimazione dei lavori era decorso al momento del presentarsi evidente del grave difetto.

La Corte ritiene fondato il motivo di ricorso. Preliminarmente si evidenzia che «con riferimento ad edifici, l'art. 1669, comma 1, c.c. dispone – con decorrenza dal «compimento» – una durata decennale del rapporto di responsabilità dell'appaltatore nei confronti del committente, per il caso che l'opera, per vizio del suolo o per difetto della costruzione, rovini in tutto o in parte, ovvero presenti evidente pericolo di rovina o gravi difetti, purché sia fatta la denunzia entro un anno dalla scoperta. Il secondo comma prevede che «il diritto del committente si prescriva entro un anno dalla denunzia». 

Nel caso di specie, la questione tra le parti è se sia avverato il «compimento» di cui all'art. 1669 comma 1, c.c., atteso che, mentre il ricorrente ritiene che esso si sia avverato, il controricorrente obietta che il compimento non si si mai avverato (e che quindi il rapporto di responsabilità dell'appaltatore nei confronti del committente non si è ancora esaurito), poiché rilegge il contratto di appalto e vi trova che esso ha ad oggetto non l'edificazione unicamente di pilastri e di solai, bensì la costruzione dell'intero stabile completo in ogni sua parte.

Ebbene, sotto tale profilo la Corte evidenzia l'errore in cui è incorsa la Corte di appello che ha invocato l'orientamento secondo il quale: «Ai fini della proponibilità dell'azione risarcitoria prevista dall'art. 1669 c.c. in caso di rovina o di gravi difetti di cose immobili destinate a durare nel tempo, il termine di dieci anni dal compimento dell'opera previsto da tale norma attiene alle condizioni di fatto che danno luogo a responsabilità del costruttore». Tale è, in effetti, la parte rilevante della massima di Cass. n. 5920/1993 (citata dalla Corte territoriale). In particolare, questo il ragionamento seguito dai giudici di secondo grado: se il termine di dieci anni dal compimento dell'opera previsto dall'art. 1669 c.c. attiene alle «condizioni di fatto che danno luogo a responsabilità del costruttore», nel caso di specie la condizione di fatto generatrice della responsabilità sarebbe la «gittata del calcestruzzo palesemente privo di qualità idonea a sopportare le ordinarie tensioni e pressioni», da cui la conseguenza che  «il termine decennale non risulti compiuto, avuto altresì riguardo alla ordinaria data di consolidamento della struttura in conglomerato cementizio».

L'argomento è (apparentemente) disarmante. Cosicché (in un certo senso) disarmante deve essere – secondo i giudici – anche la risposta. «L'ordinamento giuridico italiano rinviene le proprie fonti nel diritto, per come esso è scritto nella Costituzione, nei codici e nelle leggi e per come esso è di conseguenza interpretato dalla giurisprudenza, ma l'interpretazione giurisprudenziale trova espressione esclusiva nel testo integrale delle sentenze, e non già nel testo delle massime, che non a caso (anche quando sono "ufficiali") sono estratte da un ufficio cui sono addetti magistrati che in quella qualità esercitano una funzione amministrativa, non giurisdizionale. Alle massime vanno riconosciute funzioni di documentazione e di euristica: esse sono uno strumento di ricerca e di selezione delle sentenze rilevanti per la trattazione e la decisione del caso».

Ne deriva che la massima in questione, certamente rilevante, rinvia al testo della sentenza e il significato di questa, a sua volta, è da cogliere alla luce della sua funzione interpretativa dell'art. 1669 c.c., ove si dispone esplicitamente che, nel «corso di dieci anni dal compimento», il grave difetto deve presentarsi come «evidente».

In particolare, in caso di rovina, pericolo di rovina, gravi difetti, l'art. 1669 c.c. offre (maggiore) tutela al committente. Siffatta maggiore tutela è da contemperare però con l'interesse imprenditoriale dell'appaltatore ad individuare con la maggiore certezza possibile il momento in cui il rapporto decennale di responsabilità si esaurisce. Ciò comporta innanzitutto l'esigenza di fissare in modo certo il dies a quo di decorrenza del termine, neutralizzando l'impatto negativo del maggiore fattore di incertezza: l'eventuale diatriba tra le parti sul contenuto dell'obbligazione assunta dall'appaltatore in base al contratto di appalto (esemplare sotto tale profilo è l'attuale caso di specie). Il legislatore ha conseguito l'obiettivo delineando ex art. 1669, comma 1, c.c. una nozione di «compimento» autonoma rispetto all'oggetto dell'obbligazione che ha fonte nel contratto di appalto. Tale nozione rinviene, cioè, i propri tratti distintivi entro il campo tracciato dalla struttura e dalla funzione dell'art. 1669 c.c. Sul piano della struttura della fattispecie, saliente è l'assenza di qualsivoglia complemento di specificazione: «nel corso di dieci anni dal compimento», senz'altro. Ciò suggerisce immediatamente all'interprete una lettura disciplinata e rigorosa, diretta a controllare (del resto inevitabili) precomprensioni, come quella di assumere che il significato della successiva parola («opera») coincida automaticamente (sempre e comunque) con l'«opera» di cui parla l'art. 1655 c.c. Esemplare – sottolinea la Corte – è il caso di specie: le lesioni sulle travi di fondazione e lo sfaldamento del cemento si sono «presentate evidenti» (nel senso di cui all'art. 1669 c.c.) nel 2022, mentre i lavori di cui si allega il grave difetto che le ha causate (la costruzione dei pilastri e di solai) si sono «compiuti» (sempre nel senso di cui all'art. 1669 c.c.) nel 1988.  

In conclusione, secondo i giudici, la (parte di) massima giurisprudenziale di cui si discute è da leggere in questi termini: ai fini della proponibilità dell'azione risarcitoria prevista dall'art. 1669 c.c. , in caso di rovina o di gravi difetti di cose immobili destinate a durare nel tempo, il termine di dieci anni dal compimento dell'opera previsto da tale norma attiene alle condizioni di fatto che rendono evidente la responsabilità del costruttore ovvero, in modo ancora migliore: che rendono evidente il pericolo di rovina o i gravi difetti (scontando il tacito presupposto che la rovina totale o parziale sia di per sé evidente). Nel caso di specie, il grave difetto si è «presentato evidente» a distanza di quasi quindici anni dal «compimento».

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