Il diritto all’oblio degli imputati e degli indagati: il mancato automatismo della riforma Cartabia per un imperante diritto di cronaca?

28 Maggio 2024

Il d.lgs. n. 150/2022 (c.d. “riforma Cartabia”) ha inserito, tra le Disposizioni di attuazione del codice di procedura penale, l'art. 64-ter, rubricato “Diritto all'oblio degli imputati e delle persone sottoposte ad indagini”. Nel presente articolo verrà esaminata la “nuova” facoltà attribuita all'indagato e all'imputato di richiedere l'apposizione di un'attestazione sul provvedimento ottenuto, volto a precludere l'indicizzazione ovvero a disporre la deindicizzazione sul web dei dati personali riportati nella sentenza o nel provvedimento di riferimento, con un esame critico rispetto alle plurime perplessità normative sorgenti da tale nuova disposizione.

Premessa

Tra le diverse introduzioni della riforma Cartabia, una recente disposizione che merita di essere approfondita è quella dell'art. 64-ter disp. att. c.p.p., rubricato “Diritto all'oblio degli imputati e delle persone sottoposte ad indagini” (in merito, Marandola, Provvedimenti penali, identità digitale e deindicizzazione, in Diritto penale e processo, 1/2023, p. 207; Marandola, La tutela dell'identità (informatica), anche del soggetto coinvolto in un processo penale, in Proc. e giust., 2017, p. 371 e Garzone, Sovranismo ed europeismo nel dialogo fra Corti di Giustizia, Milano, 2023, p. 140).

Tale articolo trova il proprio fondamento nel dettato di cui all'art. 1, comma 25, della legge 27 settembre 2021, n. 134, contenente “Delega al Governo per l'efficienza del processo penale nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari”, ove è stato previsto che «[n]ell'esercizio della delega di cui al comma 1, i decreti legislativi recanti modifiche alle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale, di cui al decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271, in materia di comunicazione della sentenza sono adottati nel rispetto del seguente principio e criterio direttivo: prevedere che il decreto di archiviazione e la sentenza di non luogo a procedere o di assoluzione costituiscano titolo per l'emissione di un provvedimento di deindicizzazione che, nel rispetto della normativa dell'Unione europea in materia di dati personali, garantisca in modo effettivo il diritto all'oblio degli indagati o imputati» (a tal proposito, Procaccino, Deindicizzazione nella delega Cartabia: rose e spine, in Giur. it., 2022, p. 984).

La novella legislativa ha, invero, previsto un sistema operante su un duplice livello di tutela: la prima di tipologia anticipatoria con una richiesta, da parte del soggetto interessato, di vietare l'indicizzazione ed una seconda di natura successiva volta a richiedere la deindicizzazione dei dati, già divulgati, dell'interessato concernenti un procedimento penale a suo carico.

L'art. 64-ter disp. att. c.p.p.: il duplice piano di tutela normativa

Prima di approfondire meglio i due livelli di protezione normativa che la riforma Cartabia ha voluto (rectius: cercato) garantire all'imputato e all'indagato, è bene soffermarsi sul dato letterale della norma (cfr. Borgobello, Manuale di diritto della protezione dei dati personali, dei servizi e dei mercati digitali, Milano, 2023, pp. 383-388 e per un esame critico rispetto alla normativa degli altri Paesi, v. Battaglia, Riforma Cartabia e diritto all'oblio – applicazione in Italia e parallelo con la normativa di altri Paesi, in NT + Diritto, 16 marzo 2023).

L'art. 64-ter, comma 1, disp. att. c.p.p. ha, invero, disposto che «[l]a persona nei cui confronti sono stati pronunciati una sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere ovvero un provvedimento di archiviazione può richiedere che sia preclusa l'indicizzazione o che sia disposta la deindicizzazione, sulla rete internet, dei dati personali riportati nella sentenza o nel provvedimento, ai sensi e nei limiti dell'articolo 17 del regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 aprile 2016. Resta fermo quanto previsto dall'articolo 52 del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196».

Nell'eventualità di richiesta finalizzata alla preclusione di indicizzazione, ai sensi del secondo comma dello stesso articolo, sarà compito della cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento apporre e sottoscrivere la seguente annotazione, recante l'indicazione degli estremi della presente disposizione: «Ai sensi e nei limiti dell'articolo 17 del regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 aprile 2016, è preclusa l'indicizzazione del presente provvedimento rispetto a ricerche condotte sulla rete internet a partire dal nominativo dell'istante».

Il terzo ed ultimo comma dell'art. 64-ter disp. att. c.p.p. ha, poi, previsto che, allorquando intervenga una richiesta destinata all'ottenimento della deindicizzazione, la cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento dovrà apporre e sottoscrivere la seguente annotazione, con l'indicazione degli estremi della corrente disposizione: «Il presente provvedimento costituisce titolo per ottenere, ai sensi e nei limiti dell'articolo 17 del regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 aprile 2016, un provvedimento di sottrazione dell'indicizzazione, da parte dei motori di ricerca generalisti, di contenuti relativi al procedimento penale, rispetto a ricerche condotte a partire dal nominativo dell'istante».

Le origini normative nel d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196 e nel Regolamento (UE) 2016/679

Come si può facilmente intuire dalla lettura della norma, questa trae il proprio fondamento nell'art. 52 d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196 (c.d. “Codice Privacy”) ove, al primo comma, è previsto il diritto del soggetto interessato di richiedere alla cancelleria, per motivi legittimi, prima della definizione del relativo grado di giudizio, l'apposizione a cura della stessa, sull'originale della sentenza o del provvedimento, di un'annotazione per precludere, in caso di loro riproduzione, l'indicazione delle generalità o di altri dati identificativi dell'interessato, aggiungendo al successivo comma che l'autorità, la quale ha pronunciato la sentenza o adottato il provvedimento, deve provvedere in calce con decreto, senza ulteriori formalità, con una disposizione d'ufficio, da parte della stessa autorità, a tutela dei diritti o della dignità del soggetto interessato (potere ex officio, tuttavia, assente nella formulazione della riforma Cartabia).

Un altro pilastro da cui l'art. 64-ter disp. att. c.p.p. ha tratto le proprie origini è da ricercare nell'art. 17 del regolamento (UE) 2016/679 (c.d. “GDPR”), denominato “Diritto alla cancellazione”, grazie al  quale l'interessato ha il diritto di ottenere, da parte del titolare del trattamento, la cancellazione dei dati personali che investono la propria persona senza ingiustificato ritardo, con un esonero, in capo al titolare del trattamento, di dovervi procedere nelle seguenti casistiche: allorquando il trattamento sia indispensabile ai fini dell'esercizio del diritto alla libertà di espressione e di informazione, per l'adempimento di un determinato obbligo giuridico, per l'esecuzione di un compito svolto nel pubblico interesse oppure per motivi di interesse pubblico nell'ambito della sanità pubblica, ai fini di archiviazione nel pubblico interesse, di ricerca scientifica, storica o ai fini statistici nonché per l'accertamento, l'esercizio o la difesa di un diritto in sede giudiziaria.

La precisazione del Garante per la protezione dei dati personali sulla mancanza di automatismo

Proprio sulla scorta di quanto sopraesposto rispetto alla sussistenza di specifiche clausole di deroga, con provvedimento del 28 settembre 2023, il Garante per la protezione dei dati personali è intervenuto in materia, a seguito del ricorso promosso da un soggetto interessato che, dopo aver ottenuto un provvedimento di archiviazione di un procedimento penale in cui era stato implicato, aveva richiesto, senza successo, la deindicizzazione delle informazioni concernenti la propria vicenda giudiziaria al gestore di un motore di ricerca, lamentando un danno alla propria reputazione sia personale che professionale.

Il Garante replicava di non poter accogliere il ricorso, essendo sussistente un interesse pubblico alle notizie che erano state, peraltro, aggiornate con l'intervenuta archiviazione, anche alla luce del ruolo pubblico che l'interessato ricopriva in questo momento.

In tale circostanza, il Garante, richiamando la novella legislativa introdotta dall'art. 64-ter disp. att. c.p.p., ha rilevato la sussistenza di una precisa clausola di salvaguardia delle deroghe di cui all'art. 17 del GDPR in tema di esercizio del diritto di cancellazione, tra cui la necessità di assicurare «il corretto espletamento della libertà di espressione e di informazione con la quale il diritto di cancellazione, anche nella sub specie del diritto all'oblio, deve essere pertanto bilanciato e ciò anche nelle ipotesi ricadenti nell'ambito di applicazione dell'art. 64-ter sopra citato il quale, facendo salvi i limiti dell'art. 17 del Regolamento, pone una presunzione relativa e non assoluta in merito all'accoglibilità dell'istanza di deindicizzazione dell'interessato».

Il Garante ha aggiunto che la valutazione del singolo caso concreto dovrà avvenire in un'ottica di bilanciamento tra il diritto di cronaca e di informazione, in capo alla collettività ed il diritto del soggetto interessato alla protezione dei propri dati personali, in virtù di ulteriori criteri tra cui l'elemento temporale, l'interesse pubblico delle informazioni, il carattere attuale o meno delle stesse e, da ultimo, il ruolo assunto dall'interessato tra la collettività (ad esempio, gli esponenti della classe politica).

Le lacune normative dell'art. 64-ter disp. att. c.p.p.

La norma in esame avrebbe introdotto un meccanismo che, seppur non automatico, sembrerebbe facile, fluido e rapido, con un'attuazione diretta, in capo alla cancelleria di riferimento e non già al giudice, con un apparente taglio alle consuete lungaggini temporali, in un'ottica generale di celerità ed efficienza giudiziaria.

Ad ogni modo, alcuni quesiti sorgono spontanei di fronte ad una disposizione che appare estremamente semplicistica.

In primo luogo, rispetto all'istanza volta ad ottenere il divieto di indicizzazione, verrebbe da chiedersi quali strumenti avrebbe l'interessato, di fronte alla richiesta accolta ma non eseguita, da parte della cancelleria.

La mancanza di ogni automatismo, seppur sottoposto ad una presunzione relativa e al regime delle deroghe di cui all'art. 17 del GDPR, andrebbe, in secondo luogo, a porre, in capo all'imputato o all'indagato, un preciso onere di attivazione (si dovrebbe ritenere anche tramite il proprio difensore), che sembrerebbe cozzare con la voluntas ispiratrice sottostante alla nuova disposizione di tutela, addirittura, anticipatoria del soggetto interessato, senza, peraltro, alcun riferimento, rispetto a quanto previsto dall'art. 52 del Codice della Privacy, ad un potere di attivazione d'ufficio ovvero ad un vaglio da parte dell'autorità giudiziaria che ha emesso il relativo provvedimento che, rispetto alla cancelleria, avrà, ovviamente, maturato, per studi ed esperienza, maggiori competenze.

Inoltre, nessun riferimento è stato inserito rispetto ai termini di presentazione della domanda e di risposta ovvero, in caso di esito positivo, di attivazione da parte della cancelleria, con dubbi anche rispetto ad eventuali danni reputazionali arrecati al soggetto richiedente nelle more dell'avvio della procedura da parte della cancelleria ovvero in caso di mancato adempimento, una volta accolta l'istanza. Proprio rispetto a tale ultimo punto, nessun appunto è stato, poi, incluso rispetto ai poteri in capo all'interessato in caso di inottemperanza della cancelleria.

Da ultimo, la norma parla, sic et simpliciter, di sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere ovvero di provvedimento di archiviazione, dimenticando, quasi ingenuamente, di disciplinare tutti quei casi di sentenze parzialmente assolutorie, dando vita a gravi situazioni di diseguaglianza.

Rispetto, poi, alla richiesta di deindicizzazione, anche in tal caso la norma non sembra evidenziare limiti temporali volti alla decadenza dell'istanza. Parimenti si riportano le medesime perplessità sopra evidenziate rispetto alla possibile inerzia della cancelleria e all'assenza di un previo vaglio giudiziale. Ad ogni modo, anche in caso di attestazione ottenuta, l'interessato dovrà rivolgersi al motore di ricerca chiedendo la deindicizzazione dei contenuti che lo riguardano, con un ulteriore aggravio a carico del soggetto leso, il quale potrà veder non dar seguito alla propria istanza da parte del motore di ricerca, con un addizionale onere di adire il Garante della Privacy.

Le radici giurisprudenziali del diritto all'oblio

Per comprendere pienamente il diritto all'oblio, risulta essenziale svolgere una breve disamina della nascita del c.d. “diritto ad essere dimenticato” che ha trovato una nuova considerazione, soprattutto, con l'avvento delle nuove tecnologie ovvero di Internet e, pertanto, dei motori di ricerca (primo tra tutti, Google).

Invero, antecedentemente all'era digitale, l'interessato, desideroso di avvalersi della facoltà di invocare il proprio diritto all'oblio, poteva richiedere la rettifica e il risarcimento del danno cagionato, ad oggi la platea degli strumenti a disposizione ha conosciuto un apprezzabile ampiamento.

Il soggetto interessato può, ad esempio, richiedere l'aggiornamento della notizia già diffusa che lo vede coinvolto, la deindicizzazione della pagina web che ha riportato la notizia oppure la cancellazione dei propri dati personali (di recente, Cass. civ., sez. I, 7 marzo 2023, n. 6806), la quale, in conformità di quando già esplicitato nelle ordinanze nn. 2893/2023 e 6116/2023, ha affermato che «il gestore di un sito web non è tenuto a provvedere, a seconda dei casi, alla cancellazione, alla deindicizzazione o all'aggiornamento di un articolo di stampa, a suo tempo legittimamente pubblicato, anche se relativo a fatti risalenti nel tempo, se non c'è un'esplicita richiesta [supportata da sufficienti e validi elementi probatori]. Solo su domanda dell'interessato scatta per il gestore l'obbligo di provvedere “senza indugio”»).

Proprio con riferimento al succitato Google, non può non essere menzionata la rinomata e discussa sentenza, sul piano europeo, Google Spain SL, Google Inc. contro Agencia Española de Protección de Datos (AEPD), Mario Costeja González (C-131/12) pronunciata il 13/05/2014 dalla Corte Europea di Giustizia (in materia, cfr. l'approfondimento di Giordano-Lanzo, Diritto all'oblio e motori di ricerca, Il diritto di essere dimenticati. I casi decisi dal Garante, Milano, 2021, pp. 12-18), all'interno della quale la stessa, premettendo che i motori di ricerca svolgono un importante compito per la diffusione massiccia dei dati personali, rendendoli accessibili a qualsivoglia utente di Internet (par. 36), ha poi precisato la necessità di addivenire ad un corretto bilanciamento tra i succitati diritti contrapposti, dal momento che tale equilibrio dipende dalla natura dell'informazione, dal suo carattere sensibile, dall'interesse della collettività a disporre di tale informazione ovvero dal ruolo rivestito dall'interessato nella vita pubblica (par. 97).

In tale contesto, veniva evidenziato l'importante ruolo del gestore del motore di ricerca, chiamato ad esaminare la fondatezza delle richieste pervenute, con facoltà da parte del soggetto interessato, in caso di inerzia del gestore a cui di fatto veniva riconosciuto un grande potere discrezionale di scelta, di adire l'autorità di controllo o l'autorità giudiziaria per l'effettuazione di accertamenti volti ad imporre al responsabile l'adozione di precise misure.

Seppur il tema del diritto all'oblio sia stato trattato in Italia a livello giurisprudenziale già da svariati decenni (ex plurimis, qualificato, dalla Cass. civ., sez. III, 9 aprile 1998, n. 3679, quale «giusto interesse di ogni persona a non restare indeterminatamente esposta ai danni ulteriori che arrecano al suo onore e alla sua reputazione la reiterata pubblicazione di una notizia in passato legittimamente divulgata» ed inquadrato, dalla Cass. civ., sez. III, 5 aprile 2012, n. 5525, come il diritto «a che non vengano ulteriormente divulgate notizie che per il trascorrere del tempo risultino ormai dimenticate o ignote alla generalità dei consociati»), lo stesso ha trovato una sua precisa codificazione solo il 25 maggio 2018 quando è divenuto vigente in ogni Stato membro il Regolamento UE 2016/679 e, in particolar modo, l'art. 17 rubricato “Diritto alla cancellazione”.

Tale dato normativo non deve risultare di secondaria importanza ma dovrebbe imporre un'importante riflessione sulla tutela giuridica fino a quel momento assente, se non sul piano della prassi giurisprudenziale, di un fondamentale diritto dell'identità personale (sul punto, cfr. Sanzari, Prova e diritti della personalità, in Le prove civili, (a cura di) Previti, Milano, 2014, p. 206).

In conclusione

Se è risultato ammirevole lo spirito che ha mosso tale novella volto ad offrire una maggiore tutela, anche in via anticipatoria, al diritto alla riservatezza di tutti quei soggetti imputati o sottoposti ad indagine, lesi nella propria reputazione dalla massiccia e rapida diffusione sul web dei propri dati personali legati a vicende giudiziarie che li hanno visti coinvolti, dall'altro, la disposizione in questione non sembra aver introdotto nuovi principi in materia, se non ribadendo quanto già disposto con il Codice della privacy e con il GDPR (dal quale non è stato, tuttavia, “adottato” l'automatismo del potere di procedere d'ufficio).

In merito al divieto di indicizzazione, come sopra spiegato, la disposizione è apparsa estremamente vaga, escludendo non solo ogni riferimento ai limiti temporali dell'istanza, della risposta e dell'attivazione da parte della cancelleria di riferimento ma anche tutte quelle vicende giudiziarie concluse con un provvedimento parzialmente assolutorio (ad esempio, nel caso in cui vi siano più capi d'imputazione).

Con riferimento, invece, alla richiesta di deindicizzazione, l'attestazione della cancelleria può sicuramente rappresentare un elemento di rinforzo rispetto ad una richiesta inoltrata al motore di ricerca, facendo sì che il procedimento possa seguire un iter più celere.

Ad ogni modo, però, non è dato comprendere se la disposizione debba trovare applicazione retroattiva rispetto  a tutti quei procedimenti conclusi prima del 30 dicembre 2022, con un'incognita anche in relazione all'atteggiamento dei motori di ricerca per quei procedimenti terminati prima della riforma i cui provvedimenti vengono inoltrati alla loro attenzione privi dell'apposizione ovvero per quei procedimenti terminati a seguito della riforma, i cui provvedimenti vengono ugualmente trasmessi al motore di ricerca senza l'apposizione per il mancato invio dell'istanza di cui all'art. 64-ter disp. att. c.p.p.

I quesiti sono davvero molti e cercare di offrire una soluzione esaustiva alle plurime problematiche scaturite risulta assai complicato, avendo mancato, il legislatore, di introdurre un regime transitorio con un'efficacia retroattiva di un certo spessore temporale.

Necessario, in questo senso, sarà un ulteriore intervento legislativo volto a dirimere le criticità della disposizione, onde evitare che tale norma, a tratti insufficiente ed altamente discriminatoria, possa rimanere operante solo sulla carta.

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