Le novità giurisprudenziali sulla riabilitazione penale e i suoi effetti estintivi

Leonardo Degl'Innocenti
Eleonora Antonuccio
20 Giugno 2024

La giurisprudenza fornisce alcune soluzioni in merito ai rapporti tra la riabilitazione penale comune e alcune altre forme di estinzione del reato, della pena e degli altri effetti penali della condanna nonché in merito alle ricadute extrapenali.

La riabilitazione penale e il suo oggetto

Il codice penale non fornisce una definizione dell'istituto, ma lo contempla agli artt. da 178 a 181. Lo colloca, quindi, tra le “cause di estinzione della pena”. In particolare, la riabilitazione estingue, salvo che la legge disponga altrimenti, le pene accessorie e gli effetti penali di qualsiasi condanna, anche straniera, purché riconosciuta in Italia, e per qualsiasi reato intervenuta.

L'espressa menzione della “condanna” comporta che la riabilitazione sia concedibile solo in presenza di un esito, appunto, condannatorio.

Tale littera legis esclude, dunque, che possano essere oggetto di riabilitazione le sentenze di proscioglimento, tra cui la sentenza di estinzione del reato per esito positivo della messa alla prova (artt. 168-bis e ss. c.p. e 464-bis e ss. c.p.p.).

Nella giurisprudenza di merito, si segnala che, nonostante l'inequivoco dato normativo, risultano alcune istanze di riabilitazione avanzate da prosciolti per esito positivo della messa alla prova e il Tribunale di Sorveglianza di Firenze ne ha dichiarato l'inammissibilità sulla scorta di tre considerazioni: il già rammentato dato letterale dell'art. 178 c.p., che contempla le sole sentenze di condanna; la mancanza di un interesse alla riabilitazione a fronte di un provvedimento di proscioglimento, dal quale non possono, secondo il Tribunale, derivare effetti pregiudizievoli; la valenza latu sensu riabilitativa della messa alla prova, che già presuppone l'ottemperanza a un compendio di prescrizioni significativo [Trib. Sorv. Firenze, ord., 3 ottobre 2023, n. 2910].

Invero, quella di limitare la riabilitazione alle sentenze di condanna è una scelta legislativa non obbligata, come dimostra la previsione, in ambito minorile, della riabilitazione speciale prevista dall'art. 24 del r.d.l. 20 luglio 1934, n. 1404, Istituzione e funzionamento del tribunale per i minorenni.

La riabilitazione minorile funziona, infatti, anche con riferimento alle sentenze di proscioglimento per fare «cessare le pene accessorie e tutti gli altri effetti preveduti da leggi e regolamenti penali, civili e amministrativi, salvo le limitazioni stabilite per la concessione della sospensione condizionale della pena e del perdono giudiziale».

Di recente, la Corte di cassazione ha ribadito l'applicabilità della riabilitazione speciale alle sentenze di proscioglimento per esito positivo della messa alla prova minorile (artt. 28 e 29 d.P.R. 22 settembre 1988, n. 448).

Il giudice del merito aveva dichiarato inammissibile l'istanza del minorenne ritenendo che la messa alla prova svolta avesse già natura latamente riabilitativa, sottintendendo una valutazione positiva della personalità dell'imputato, e che non ne conseguisse alcun effetto pregiudizievole.

La Suprema Corte, invece, accogliendo il ricorso della difesa, ha sottolineato che la riabilitazione speciale ha effetti più ampi del proscioglimento per messa alla prova.

Ha ricordato, sul punto, che, conseguita la riabilitazione speciale, non si fa più menzione dei precedenti del minorenne nel certificato penale, anche se richiesto da una pubblica amministrazione, salvo che esso abbia attinenza con procedimenti penali; inoltre, «la riabilitazione speciale consente di riacquistare in pieno, in tutti i settori dell'ordinamento giuridico, la capacità giuridica perduta mentre la declaratoria estintiva del reato come quella in esame [estinzione del reato per messa alla prova, n.d.r.], lascia, tra l'altro, del tutto impregiudicata l'applicazione delle sanzioni amministrative accessorie» [Cass. pen., sez. IV, 2 ottobre 2019, n. 3907].

Ora, il processo minorile segue, com'è noto, una logica e dei principi che sono strettamente connessi allo specifico percorso educativo e di recupero sociale dei soggetti in giovane età, per cui le soluzioni in tale sede individuate non possono né devono essere immediatamente trasferite in altra sede.

Tuttavia, sembra importante evidenziare che la Corte di cassazione ha rilevato la sussistenza di effetti pregiudizievoli anche nel caso in cui sia stata pronunciata una sentenza di proscioglimento e che, quindi, permangano dei margini di utilità dello strumento riabilitativo anche laddove non sia stata emessa una condanna di condanna.

Nel processo penale per adulti, esisteva, invero, nel codice di rito previgente, la c.d. “riabilitazione impropria”: era, infatti, previsto, all'art. 601, che, in caso di sentenza di proscioglimento per insufficienza di prove, il prosciolto potesse richiedere l'”estinzione delle incapacità giuridiche perpetue” derivanti da tale sentenza dopo cinque anni dall'irrevocabilità e fornendo prova della sua buona condotta.

Il proscioglimento per insufficienza di prove non è più contemplato e così la riabilitazione che ne doveva cancellare gli effetti.

Negli ultimi anni, però, il legislatore ha sempre più fatto ricorso a istituti sostanziali e processuali – come la sospensione del procedimento con messa alla prova, la non punibilità per particolare tenuità del fatto, l'estinzione del reato per condotte riparatorie – con i quali, pur giungendosi a un proscioglimento, viene richiesto in sede penale un minimum di accertamento del fatto di reato dal quale poi derivano altre conseguenze, come l'annotazione sul casellario giudiziale, l'applicazione di sanzioni amministrative accessorie, l'impossibilità di accedere nuovamente allo stesso o ad altri benefici.

In tale quadro, sembra meritare una rimeditazione l'attuale impossibilità per il prosciolto di accedere alla riabilitazione o ad altro strumento che gli consenta di ottenere l'elisione di tali pregiudizi a determinate condizioni.

Rientrano senz'altro nella “condanna” per cui l'art. 178 c.p. ammette la riabilitazione sia l'applicazione della pena su richiesta delle parti (c.d. patteggiamento), sia il decreto penale di condanna.

Per entrambi tali riti speciali, si pone, invece, un problema di sovrapponibilità degli effetti estintivi e, quindi, di difetto di interesse per l'istanza riabilitativa.

Infatti, come la riabilitazione, anche l'applicazione di una pena concordata non superiore a due anni di pena detentiva soli o congiunti a pena pecuniaria e l'emissione del decreto penale di condanna ad una pena pecuniaria prevedono, tra i benefici premiali che “controbilanciano” la contrazione delle garanzie difensive, che al condannato non siano applicate le pene accessorie (rispettivamente, art. 445, commi 1, 1-bis e 1-ter, e art. 460, comma 5, c.p.p.).

Per ottenere l'estinzione degli altri effetti penali, è previsto un meccanismo più complesso: ai sensi dell'art. 445, comma 2, c.p.p., è necessario che nel termine di cinque o di due anni, a seconda che il reato oggetto di patteggiamento sia un delitto o una contravvenzione, l'imputato non abbia commesso un delitto ovvero una contravvenzione della stessa indole sempre che, giusto il disposto dell'art. 136 disp. att. c.p.p., non si sia sottratto volontariamente all'esecuzione della pena concordata; ai sensi dell'art. 460, comma 5, c.p.p., gli effetti penali vengono meno quando, divenuto irrevocabile il decreto penale di condanna, il condannato abbia pagato la pena pecuniaria e non abbia commesso nei successivi cinque anni, in caso di delitto, o due anni, in caso di contravvenzione, altro delitto o contravvenzione della stessa indole.

Riguardo al patteggiamento, la giurisprudenza si è inizialmente orientata verso l'inammissibilità della richiesta di riabilitazione per difetto d'interesse ritenendo che attraverso il meccanismo estintivo previsto dall'art. 445 c.p.p. si potesse ottenere lo stesso risultato di cui all'art. 178 c.p. [Cass. pen., sez. I, 15 ottobre 2004, n. 44665; cfr. Cass. pen., sez. I, 31 gennaio 2000, n. 584; Cass. pen., sez. I, 19 febbraio 1999, n. 534].

È divenuto successivamente prevalente ed è stato riaffermato anche di recente [v. Cass. pen., sez. I, 18 gennaio 2023, n. 1836, che cita Cass. pen., sez. I, 18 luglio 2012, n. 35893; cfr. Cass. pen., sez. I, 18 giugno 2009, n. 31089 e Cass. pen., sez. I, 11 luglio 2007, n. 28469], l'orientamento che riconosce alla riabilitazione un contenuto diverso e più ampio: per concederla il Giudice compie una valutazione discrezionale sulla meritevolezza che si fonda sulla favorevole considerazione del percorso rieducativo seguito dal condannato con il concreto reinserimento nel contesto sociale, aspetti assenti nel patteggiamento; la riabilitazione consente, inoltre, di ottenere l'iscrizione nel casellario della relativa pronuncia; infine, nel caso concreto deciso dalla Suprema Corte sussisteva l'ulteriore profilo di interesse concreto collegato all'ottenimento della cittadinanza italiana, rispetto alla quale solo la riabilitazione consente di elidere l'effetto preclusivo collegato alla presenza di precedenti penali (l. 5 febbraio 1991, n. 92, art. 6, comma 3).

Peraltro, l'art. 179 c.p. prevede che la riabilitazione possa essere presentata dopo che siano decorsi tre anni dall'esecuzione o comunque dall'estinzione della pena principale, mentre per l'estinzione del delitto (non della contravvenzione) in caso di pena patteggiata non superiore a due anni è necessario attendere almeno cinque anni.

Anche questo aspetto più favorevole può, secondo la giurisprudenza citata, fondare di per sé l'interesse ad agire.

È importante ricordare che la riabilitazione può essere richiesta anche per il patteggiamento con pena concordata superiore a due e non superiore a cinque anni, per il quale il codice di rito non prevede alcun effetto estintivo del reato.

Anche con riferimento al decreto penale di condanna, la giurisprudenza si è, inizialmente, orientata in senso contrario alla concessione della riabilitazione per carenza d'interesse, finché non sono stati trasfusi anche per tale rito speciale gli argomenti enucleati per l'applicazione della pena su richiesta [v., da ultimo, Cass. pen., sez. I, 18 luglio 2012, n. 35893].

La perfetta coincidenza di disciplina tra i due riti speciali in punto di estinzione del reato e degli effetti penali consente, infatti, di ritenere valide anche per il decreto penale di condanna le seguenti argomentazioni: il termine dilatorio per introdurre la domanda di riabilitazione (tre anni) è più breve anche rispetto a quello per l'estinzione del delitto (non della contravvenzione) successivo all'emissione di decreto penale di condanna (cinque anni); il giudizio di meritevolezza ai fini della riabilitazione valuta il percorso rieducativo e il concreto reinserimento sociale, profili mancanti in sede di estinzione ex art. 460 c.p.p.; l'inserimento del provvedimento di riabilitazione nel casellario giudiziale consente alle pubbliche autorità abilitate di ottenere un integrale certificato del casellario da cui sia evincibile il positivo percorso di risocializzazione compiuto e riconosciuto in sede giudiziale.

È risalente l'arresto giurisprudenziale con cui si è rilevato che la riabilitazione, riguardando tutte le condanne, può essere richiesta anche per una condanna con sospensione condizionale della pena, sottolineandosi, altresì, in quella sede, che gli esiti della concessione della sospensione condizionale della pena, previsti dagli artt. 166 e 167 c.p., sono meno ampi di quelli conseguibili ai sensi dell'art. 178 c.p. [Cass. pen., sez. I, 1° dicembre 1999, n. 6617].

Più in particolare, è stato ribadito ancora di recente che l'estinzione del reato ai sensi dell'art. 167 c.p. non comporta, a differenza della riabilitazione, l'estinzione degli effetti penali della condanna, diversi da quelli espressamente previsti, con la conseguenza che di questa deve tenersi conto, ai sensi dell'art. 165, comma 2, c.p., anche ai fini della necessità di subordinare l'ulteriore concessione del beneficio all'adempimento di uno degli obblighi previsti dall'art. 165, comma 1, c.p. [Cass. pen., sez. II, 9 gennaio 2024, n. 6017, che rinvia a Cass. pen., sez. I, 14 aprile 2019, n. 47647 e Cass. pen., sez. V, 26 novembre 2013, n. 3553].

Gli effetti della riabilitazione

Ove la riabilitazione sia concessa, alle condizioni previste dall'art. 179 c.p., la relativa ordinanza dichiara l'estinzione delle pene accessorie e di ogni altro effetto penale della condanna. Con la precisazione di cui all'art. 179, comma 7, c.p. per la quale, in caso di pene accessorie perpetue, per la dichiarazione di estinzione deve trascorrere un termine ulteriore non inferiore a sette anni dalla concessa riabilitazione e l'interessato deve dare prove effettive e costanti di buona condotta.

Brevemente e senza pretese definitorie, si rammenta che le pene accessorie sono quelle pene che si uniscono alle pene principali (art. 17 c.p.) e consistono in limitazioni di varia natura della capacità giuridica del reo ovvero, nel caso della pubblicazione della sentenza di condanna, in una misura “infamante”.

L'elenco delle pene accessorie comuni, distinte tra quelle applicabili ai delitti e quelle applicabili alle contravvenzioni, è contenuto nell'art. 19 c.p., ma lo stesso codice sostanziale ne prevede alcune speciali per specifici reati o soggetti, mentre altre sono rinvenibili nella legislazione speciale.

L'art. 20 c.p. sancisce che le pene accessorie conseguano alla condanna accomunandole in tale automatismo agli effetti penali.

L'automatismo delle pene accessorie quale conseguenza della condanna viene meno in quei casi in cui la loro applicazione è rimessa alla valutazione discrezionale del giudice riguardo all'an, al quomodo o al quantum.

Originariamente concepite come indefettibili in caso di condanna, le pene accessorie, oltre che elise con la riabilitazione, possono, essere oggi escluse anche con altri strumenti, tra cui l'amnistia impropria (art. 151 c.p.), l'indulto e la grazia (art. 174 c.p.), la concessione della sospensione condizionale della pena (art. 166 c.p.), l'applicazione su richiesta delle parti di una pena che non superi i due anni (art. 445, commi 1, 1-bis c.p.p., fatta salva l'applicazione del comma 1-ter dello stesso art. 445 c.p.p.), mentre nel caso in cui sia stata concordata l'applicazione di una pena superiore a due anni ma non superiore a cinque anni le parti possono, ai sensi dell'art. 444, comma 1, c.p.p. chiedere al giudice di non applicare le pene accessorie o di applicarle per una durata determinata, salvo quanto previsto dal c. 3-bis dello stesso art. 444 c.p.p.; l'emissione del decreto penale di condanna (art. 460, comma 5, c.p.).

Per quanto, come si è accennato, le pene accessorie siano effetti penali, questi ultimi hanno un ambito d'estensione più ampio la cui esatta individuazione è, però, problematica.

A ricomporre le posizioni contrastanti rinvenibili sia dottrina sia in giurisprudenza, sono intervenute le Sezioni Unite della Corte di cassazione che hanno riconosciuto quali effetti penali della condanna le conseguenze di carattere sanzionatorio che la legge faccia derivare dalla sentenza penale non solo nell'ambito del diritto penale, sostanziale e processuale, ma anche nell'ambito dei rapporti di natura diversa (civile, amministrativa, etc.).

Secondo il massimo consesso, gli elementi che caratterizzano questa categoria di conseguenze sanzionatorie discendono: «1) dall'essere conseguenza soltanto di una sentenza irrevocabile di condanna e non pure di altri provvedimenti che possano determinare quell'effetto; 2) dall'essere conseguenza che deriva direttamente, ope legis, dalla sentenza di condanna e non da provvedimenti discrezionali della pubblica amministrazione, ancorché aventi come necessario presupposto la sentenza di condanna; 3) dalla natura 'sanzionatoria' dell'effetto» [Cass. pen., sez. un., 20 aprile 1994, n. 7].

Si è già ricordato che gli effetti penali della condanna, oltre che con la riabilitazione, vengono estinti, in caso di applicazione della pena concordata non superiore a due anni e di decreto penale di condanna, se nel termine di cinque o di due anni, a seconda che il reato sia un delitto o una contravvenzione, l'imputato non abbia commesso un delitto ovvero una contravvenzione della stessa indole.

Estingue ogni effetto penale della condanna, ad eccezione delle pene accessorie perpetue, anche l'esecuzione con esito positivo della misura alternativa dell'affidamento in prova al servizio sociale ordinario di cui all'art. 47 l. 26 luglio 1975, n. 354 e in casi particolari di cui all'art. 94 d.P.R. 309/90 [v. Cass. pen., sez. un., 27 ottobre 2011, n. 5859, in materia di recidiva].

Ciò non significa, però, che riabilitazione ed effetto estintivo dell'affidamento in prova siano, per così dire, interscambiabili.

La giurisprudenza amministrativa si è occupata del caso dell'autorizzazione alla somministrazione di alimenti e bevande, rispetto alla quale il secondo comma dell'art. 71 d.lgs. 26 marzo 2010, n. 59 prevede alcuni divieti di esercizio in ragione della condanna per determinati reati e il terzo comma precisa che la durata quinquennale del divieto decorre dal passaggio in giudicato della sentenza "salvo riabilitazione".

Ebbene, il T.A.R. Lombardia ha chiarito che il divieto non è escluso quando il condannato abbia eseguito la pena con esito positivo in regime di affidamento in prova, nonostante la misura alternativa produca lo stesso effetto estintivo degli effetti penali della riabilitazione, perché le valutazioni che il Giudice compie per concedere quest'ultima operano su un piano diverso [T.A.R. Lombardia, sez. II - Brescia, 17 febbraio 2017, n. 220].

La soluzione risulta differente quando, invece, la legge richiede, più genericamente, l'intervento di un “provvedimento riabilitativo”.

A proposito dei requisiti soggettivi per il rilascio della patente di guida, l'art. 120 C.d.S. prevede il diniego per coloro che siano stato condannati «per i reati di cui agli articoli 73 e 74 del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, fatti salvi gli effetti di provvedimenti riabilitativi».

La Cassazione civile ha ritenuto che in tale locuzione non rientri soltanto la riabilitazione di cui agli artt. 178 e 179 c.p., bensì anche l'affidamento in prova al servizio sociale [Cass. civ., sez. II, 1° agosto 2022, n. 23815].

Si noti, però, che lo stesso art. 120 C.d.S. prevede nella seconda parte del comma 2 che «la revoca non può essere disposta se sono trascorsi più di tre anni dalla data di applicazione delle misure di prevenzione, o di quella del passaggio in giudicato della sentenza di condanna per i reati indicati al primo periodo del medesimo comma 1» (artt. 73 e 74 d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309). Ciò significa che l'ottenimento della riabilitazione per queste condanne è utile quando intervenga prima del triennio, ma dopo questo periodo non è più necessario un provvedimento riabilitativo bensì è sufficiente il mero decorso del tempo [Consiglio di Stato sez. III, 5 giugno 2023, n. 5507].

Sempre con riferimento alla patente di guida, sembra utile segnalare, per la sua rilevanza pratica, come la Cassazione civile abbia recentemente statuito che, quando il reato da cui dipenda la revoca della patente di guida sia stato estinto per esito positivo della messa alla prova, il Prefetto non possa applicare la sanzione accessoria [Cass. civ., sez. II, 1° febbraio 2024, n. 3019].

La S.C. ha ritenuto di estendere alla revoca della patente di guida il risultato della dichiarazione di incostituzionalità dell'art. 224-ter comma 6 C.d.S. nella parte in cui prevede che il prefetto verifica la sussistenza delle condizioni di legge per l'applicazione della sanzione amministrativa accessoria della confisca del veicolo, anziché disporne la restituzione all'avente diritto, in caso di estinzione del reato di guida sotto l'influenza dell'alcool per esito positivo della messa alla prova.

La Consulta aveva censurato come manifestamente irragionevole che fosse prevista per alcuni reati stradali la possibilità di sostituire la pena con il lavoro di pubblica utilità e, ove positivamente svolto, il giudice penale dichiarasse l'estinzione del reato e revocasse la confisca del veicolo, mentre, in caso di svolgimento della messa alla prova la confisca potesse essere disposta, non dal giudice, ma per ordine del prefetto, cosicché «la sanzione amministrativa accessoria della confisca, mentre viene meno per revoca giudiziale nell'ipotesi di svolgimento positivo del lavoro sostitutivo, può essere disposta per ordinanza prefettizia nell'ipotesi di esito positivo della messa alla prova, nonostante quest'ultima costituisca una misura più articolata ed impegnativa dell'altra» [C. cost. n. 75/2020].

Ebbene, secondo la Cassazione civile la stessa irragionevolezza impone ora di escludere che il prefetto possa disporre la revoca della patente.

Di recente, la Corte di cassazione ha precisato che la c.d. "confisca allargata" di cui all'art. 240-bis c.p. non rientra né tra le sanzioni atipiche né tra le pene accessorie né tra gli effetti penali della condanna e, dunque, non subisce gli esiti estintivi della riabilitazione ottenuta dall'interessato in relazione al reato-presupposto della misura ablativa.

Il pronunciamento si fonda sulla natura giuridica non sanzionatoria di tale forma di ablazione, che si caratterizza - come la confisca di prevenzione - per una vocazione essenzialmente restitutoria e recuperatoria di accumulazioni illecite [Cass. pen., sez. I, 8 novembre 2022, n. 8783].

La riabilitazione fa venire meno la preclusione all'accesso alla procedura per l'emersione dei rapporti di lavoro irregolare di cui all'art. 103 del decreto-legge 19 maggio 2020, n. 34 (Misure urgenti in materia di salute, sostegno al lavoro e all'economia, nonché di politiche sociali connesse all'emergenza epidemiologica da COVID-19), convertito, con modificazioni, nella legge 17 luglio 2020, n. 77.

Il comma 10, lett. c) dell'art. 103 cit. prevede, infatti, che non possano accedere alla procedura di regolarizzazione i cittadini stranieri che «risultino condannati, anche con sentenza non definitiva, compresa quella adottata a seguito di applicazione della pena su richiesta ai sensi dell'articolo 444 c.p.p., per uno dei reati previsti dall'articolo 380 c.p.p. o per i delitti contro la libertà personale ovvero per i reati inerenti agli stupefacenti, il favoreggiamento dell'immigrazione clandestina verso l'Italia e dell'emigrazione clandestina dall'Italia verso altri Stati o per reati diretti al reclutamento di persone da destinare alla prostituzione o allo sfruttamento della prostituzione o di minori da impiegare in attività illecite».

La norma è stata recentemente dichiarata incostituzionale nella parte in cui, nel prevedere i «reati inerenti agli stupefacenti», non esclude dalla preclusione il reato di spaccio di lieve entità di cui all'art. 73, comma 5, d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 [C. cost., 19 marzo 2024, n. 43].

Secondo il Consiglio di Stato, la riabilitazione fa venire meno l'automatismo preclusivo connesso alla condanna per i reati ostativi individuati dalla norma e ne consegue che l'autorità amministrativa debba compiere una nuova e specifica valutazione per verificare l'eventuale permanenza di pericolosità sociale in capo al cittadino straniero richiedente [Cons. di St., sez. III, 5 aprile 2024, n. 3177].

Il provvedimento che concede la riabilitazione è iscritto nel casellario giudiziale ai sensi della lett. m) dell'art. 3 d.P.R. 14 novembre 2002, n. 313.

La disciplina del casellario ha subito una significativa rivisitazione con il d.lgs. 2 ottobre 2018, n. 122.

Dopo aver unificato i tre certificati generale, penale e civile (con relativa abrogazione degli artt. 23 e 25 e modifica dell'art. 24), è previsto che nel(l'unico) certificato del casellario giudiziale a richiesta dell'interessato non siano riportate le condanne per le quali è stata dichiarata la riabilitazione, senza che questa sia stata in seguito revocata (art. 24, comma 1, lett. d).

L'elenco dei provvedimenti non riportati nel casellario a richiesta dell'interessato – in cui, per quanto detto nel paragrafo precedente, si segnala che compaiono anche i provvedimenti previsti dall'art. 445 c.p.p. quando la pena irrogata non superi i due anni di pena detentiva soli o congiunti a pena pecuniaria e i decreti penali di condanna – è stato arricchito coi provvedimenti giudiziari che hanno dichiarato la non punibilità ai sensi dell'articolo 131-bis c.p., quando la relativa iscrizione non è stata eliminata (f-bis), con i provvedimenti che ai sensi dell'articolo 464-quater c.p.p. dispongono la sospensione del procedimento con messa alla prova (m-bis), con le sentenze che ai sensi dell'articolo 464-septies c.p.p. dichiarano estinto il reato per esito positivo della messa alla prova (m-ter).

Diverso il regime delle certificazioni acquisibili dall'autorità giudiziaria, per la quale l'art. 21, comma 1, d.P.R. consente, con riferimento agli uffici che esercitano la giurisdizione penale e a quelli del pubblico ministero, per ragioni di giustizia, di acquisire dal sistema il certificato di tutte le iscrizioni esistenti riferite a un determinato soggetto.

Invece, le altre amministrazioni pubbliche e i gestori di pubblici servizi, quando è necessario per l'esercizio delle loro funzioni possono richiedere, oltre al certificato del casellario dei carichi pendenti come quello richiesto dall'interessato (art. 27) e al casellario giudiziale europeo (28-bis), anche il certificato "selettivo", ossia quello contenente le sole iscrizioni esistenti nel casellario giudiziale a carico di un determinato soggetto pertinenti e rilevanti rispetto alle finalità istituzionali dell'amministrazione o del gestore (art. 28, comma 2).

Solo quando non può procedersi, sulla base delle disposizioni che regolano i singoli procedimenti amministrativi, alla selezione delle iscrizioni pertinenti e rilevanti (art. 28, comma 3), viene rilasciato il certificato generale che riporta tutte le iscrizioni esistenti nel casellario giudiziale a carico di un determinato soggetto.

Da ultimo, con il d.l. 2 marzo 2024, n. 19, convertito con modificazioni dalla l. 29 aprile 2024, n. 56, oltre a implementare la digitalizzazione del sistema del casellario giudiziale, la cui gestione informatica è oggi rimessa alla DGSIA, Direzione generale per i sistemi informativi automatizzati del Dipartimento per la transizione digitale (art. 42-bis), è stato precisato che, se il certificato del casellario è richiesto dalle pubbliche amministrazioni o dai gestori di pubblici servizi ai fini del rilascio del passaporto o di altro documento valido per l'espatrio, esso contiene anche le iscrizioni relative alle condanne per contravvenzioni punite con la sola ammenda (art. 28, commi 7 e 7-bis, come interpolati dall'art. 26 d.l. n. 19/2024).

Questa previsione è funzionale al controllo sulla sussistenza dell'elemento ostativo al rilascio del passaporto di cui all'art. 3, comma 1, lett. d), l. 21 novembre 1967, n. 1185, Norme sui passaporti, ossia il mancato pagamento di una multa o ammenda, salvo che l'autorità che cura l'esecuzione della sentenza di riferimento abbia rilasciato il nulla osta e sempreché la multa o l'ammenda non siano già state convertite in pena restrittiva della libertà personale, o la loro conversione non importi una pena superiore a mesi 1 di reclusione o 2 di arresto.

È stato, altresì, previsto che, nel caso in cui il certificato del casellario sia richiesto per il rilascio di autorizzazioni in materia di armi, munizioni ed esplosivi, esso deve contenere tutte le iscrizioni, senza esclusione alcuna (art. 28, commi 7 e 7-bis, come interpolati dall'art. 26 d.l. n. 19/2024).

Ai sensi dell'art. 28, comma 8, l'interessato che, a norma degli articoli 46 e 47 d.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445, rende dichiarazioni sostitutive relative all'esistenza nel casellario giudiziale di iscrizioni a suo carico, non è tenuto a indicare la presenza di quelle iscrizioni la cui menzione sarebbe esclusa, dall'art. 24, comma 1, nel certificato rilasciato a sua richiesta e non è tenuto neanche a indicare i provvedimenti che dispongono la sospensione del procedimento con messa alla prova e le sentenze che dichiarano estinto il reato per esito positivo della messa alla prova.

La Cassazione penale ha già avuto modo di chiarire, a tale proposito, che non integra gli estremi del reato di falsa dichiarazione resa all'autorità mediante dichiarazione sostitutiva di certificazione (art. 483 c.p.) l'attestazione di non avere riportato condanne nel caso di sentenza di applicazione della pena contenuta nel limite di due anni in quanto trattasi di sentenza contemplata dall'art. 24 d.P.R. n. 313/2002 tra i provvedimenti da non riportare nei certificati richiesti dal privato al pari di quelle inflitte con decreto penale di condanna [Cass. pen., sez. V, 18 settembre 2023, n. 38152].

Aspetti procedurali

A norma dell'art. 683 c.p.p., la competenza in materia di riabilitazione è attribuita al Tribunale di sorveglianza, la cui competenza territoriale sarà individuata secondo il criterio generale di cui all'art. 677 c.p.p.

Per il combinato disposto degli artt. 667, comma 4, e 678, comma 1-bis, c.p.p., il giudizio sulla richiesta di riabilitazione si svolge obbligatoriamente nelle forme del rito cosiddetto "de plano", a seguito dell'intervento del d.l. 23 dicembre 2013, n. 146 (Misure urgenti in tema di tutela dei diritti fondamentali dei detenuti e di riduzione controllata della popolazione carceraria), convertito con modificazioni dalla l. 21 febbraio 2014, n. 10.

L'istanza di riabilitazione viene, quindi, decisa dal Tribunale di Sorveglianza con procedura semplificata, senza la comparizione delle parti.

È prevista una fase successiva, di "recupero" delle garanzie così contratte, mediante opposizione al provvedimento pronunciato senza formalità dal giudice, introdotta dalla parte che vi abbia interesse.

Si ripristinano, allora, per la fase di opposizione le modalità ordinariamente previste per il procedimento di sorveglianza (che, a sua volta, segue il modello procedurale dell'art. 666 c.p.p.) con la partecipazione necessaria all'udienza camerale del difensore e del pubblico ministero, la facoltà per l'interessato di chiedere di essere sentito, l'eventuale acquisizione di ogni documento o informazione ritenuti necessari da parte del giudice, anche su istanza di parte, la possibilità di assumere prove in udienza nel contraddittorio tra le parti e la facoltà per l'interessato di chiedere la celebrazione dell'udienza in forma pubblica.

Tale congegno procedurale è stato portato all'attenzione della Corte costituzionale che ha dichiarato non fondata la questione di costituzionalità [C. cost., 24 marzo 2022, n. 74]. Secondo la Consulta, il sovraccarico della magistratura di sorveglianza rischia di pregiudicare l'effettività della tutela giurisdizionale e l'adozione della procedura semplificata per tale tipo di decisioni costituisce un ragionevole compromesso tra la ragionevole durata del processo, l'economia processuale e la possibilità per le parti di esercitare le proprie prerogative difensive nella fase di opposizione, senza pregiudizi effettivi.

È opportuno, infine, evidenziare come non sussista alcuna incompatibilità del magistrato di sorveglianza, che ha emesso il provvedimento opposto, a partecipare al giudizio di opposizione in quanto le ipotesi di incompatibilità presuppongono che le valutazioni di merito, per assumere valore pregiudicante, appartengano a gradi diversi o a fasi diverse del processo, mentre il giudizio di opposizione non ha natura di impugnazione né rappresenta una fase distinta ed autonoma, ma integra un segmento, nell'ambito di un procedimento unitario, attraverso il quale si attua, in via eventuale e su iniziativa della parte medesima, il contraddittorio pieno, onde la decisione non reca pregiudizio alcuno ai canoni di imparzialità e terzietà del giudice [Cass. pen., sez. I, 14 febbraio 2017, n. 30638].

Riferimenti

  • Cerquetti, Pene accessorie, in Enc. dir., XXXII, Milano, 1982, 802;
  • Cerquetti, Riabilitazione, in Enc. dir., XL, Milano, 1989, 302;
  • Frisoli, Effetti penali della sentenza di condanna, in Enc. dir., XIV, Milano, 1965, 408;
  • Garavelli, Riabilitazione, in Digesto pen., XII, Torino, 1997;
  • Marino, Riabilitazione ed esito dell'affidamento in prova: il procedimento semplificato è incostituzionale?, in D&G, 2022, 61, 11.

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