La colpa del farmacista preparatore nella somministrazione dei farmaci off label

Vittorio Nizza
07 Agosto 2024

La Corte di cassazione si è occupata di individuare, in relazione al reato di lesioni colpose riconducibili a responsabilità medica, il dies a quo dal quale far decorrere non solo la presentazione della querela bensì il termine di prescrizione del reato.

Massima

Nel reato di lesioni personali colpose riconducibili a responsabilità medica, la prescrizione inizia a decorrere dal momento dell'insorgenza della malattia in fieri, anche se non ancora stabilizzata in termini di irreversibilità o di impedimento permanente. Il termine per proporre la querela invece inizia a decorrere non già dal momento in cui la persona offesa ha avuto consapevolezza della patologia contratta, bensì da quello, eventualmente successivo, in cui la stessa sia venuta a conoscenza della possibilità che sulla menzionata patologia abbiano influito errori diagnostici o terapeutici dai sanitari che l'hanno curata.

Il caso

La Corte di cassazione, con la sentenza in oggetto, viene chiamata a pronunciarsi in merito ad una contestazione per lesioni personali colpose mossa nei confronti di un farmacista per aver prodotto e somministrato pillole dimagranti ad una cliente, la sig. Vu.Si.

La donna si era rivolta all'imputato, titolare di una farmacia e noto per l'esercizio di fatto dell'attività di dietologo, per intraprendere una dieta, benché avesse un peso di 60 kg per un'altezza di 172 cm.

Lo stesso la rassicurava che le pillole di cui sopra, avrebbero consentito un rapido dimagrimento in quanto avrebbero eliminato le calorie introdotte con il cibo.

In tale occasione, tuttavia, non veniva effettuata alcuna visita medica né venivano ordinate analisi di laboratorio né veniva stilata una classica dieta con l'indicazione dei pasti e delle relative quantità.

Tale trattamento aveva sin da subito causato notevoli disagi alla Vu.Si, consistenti in perdita dell'appetito, conati di vomito, spossatezza, amenorrea, perdita di capelli (che l'avevano costretta a ricorrere a una parrucca), fino a giungere a una paralisi agli arti inferiori estesa alle mani e alla testa.

Per tali motivazioni veniva ricoverata presso il nosocomio locale.

Il giudice di primo grado, verificato il profilo della procedibilità, messo in discussione dalla difesa, ha ritenuto la sussistenza della fattispecie criminosa contestata, condannando così il farmacista per il reato di cui all'art. 590 c.p. alla pena di mesi due di reclusione, nonché al risarcimento dei danni patiti dalla parte civile da liquidarsi in separata sede.

I giudici d'appello avevano recepito integralmente l'impianto motivatorio della sentenza di primo grado, confermando così la penale responsabilità dell'imputato.

Quest'ultimo aveva pertanto proposto ricorso per cassazione avverso la sentenza, deducendo violazione di legge in ordine non solo al termine prescritto per la presentazione della querela, ma anche in tema di prescrizione del reato, nonché vizio di motivazione relativo alla sussistenza del nesso causale tra il trattamento somministrato e le lesioni patite dalla persona offesa.

La questione

La questione rimessa alla Corte di cassazione riguarda l'individuazione, in relazione al reato di lesioni colpose riconducibili a responsabilità medica, del dies a quo dal quale far decorrere non solo la presentazione della querela bensì il termine di prescrizione del reato.

Le soluzioni giuridiche

La Suprema Corte, sulla base delle doglianze formulate dal ricorrente in ordine alla sussistenza del nesso causale nonché ai vizi di legge, dichiara il ricorso inammissibile.

Poiché è “causa” di un evento quell'antecedente senza il quale l'evento stesso non si sarebbe verificato, per effettuare il giudizio controfattuale, si rende necessario ricostruire con precisione la sequenza degli accadimenti che hanno condotto all'evento, chiedendosi poi se, ipotizzando come realizzata la condotta dovuta dall'agente, l'evento lesivo si sarebbe o meno evitato o posticipato (Cass. pen., sez. IV, 4 ottobre 2012, n. 43459). Di estrema rilevanza è pertanto la ricostruzione degli anelli determinanti della sequenza eziologica, necessari per stabilire se sussista o meno il nesso di condizionamento tra la condotta del farmacista e l'evento lesivo.

Il medico del nosocomio ove la paziente era stata ricoverata a seguito dei disagi che l'avevano afflitta, aveva affermato che questi fossero stati causati dall'assunzione delle pillole dimagranti, accertando che le stesse contenevano, oltre a diuretici e vitamine:

  • efedrina, sostanza solitamente usata per la cura dell'asma ma che nelle diete agisce aumentando il metabolismo cellulare e stimolando la secrezione di catecolamine;
  • naxeltrone, che riduce l'attività dei centri cerebrali che controllano la sensazione di piacere collegata all'ingestione del cibo, ma che è anche fortemente epatossico e va pertanto somministrato in casi di assoluta necessità.

      

Si trattava pertanto di un farmaco “off label”, ovvero utilizzato per scopi diversi da quelli consigliati, senza adeguata valutazione clinica, senza ricetta e fuori dai canoni previsti dalla legge 94/1998 (la c.d. Legge di Bella) e del codice deontologico e peraltro da soggetto che, essendo farmacista, non era nemmeno abilitato a somministrarli.

La scelta di usare un farmaco off label, infatti, spetta unicamente al medico curante.

La sussistenza del nesso di causalità tra il trattamento somministrato dal farmacista e le lesioni patite dalla persona offesa era stata riconosciuta in termini di assoluta certezza da tutti i consulenti.

La ipokaliemia, e più in generale il grave squilibrio elettrolitico riscontrato nella paziente, che l'aveva pericolosamente disidratata, non poteva che essere derivato dalla somministrazione spregiudicata e in massicce quantità di molecole quali il bumetamide, associate ad altre molecole presenti nel farmaco che pure presentavano un grado di tossicità non trascurabile e che addirittura interagivano sui centri nervosi.

Ricordando come il rapporto di causalità tra omissione ed evento non può ritenersi sussistente sulla base del solo coefficiente di probabilità statistica ma deve altresì essere verificato alla stregua di un giudizio di altra probabilità logica, la Suprema Corte evidenzia come, in quell'arco temporale, non sussistevano ulteriori fattori “esterni” che potessero determinare l'intervento di un diverso e alternativo decorso causale.

Durante i tre mesi di trattamento, la terapia era stata identificata quale unica circostanza che aveva portato la persona offesa, una sana giovane donna, al rapido aggravamento della salute in maniera così rilevante da dover essere ricoverata nel locale nosocomio.

Per quanto attiene alla doglianza relativa al dies a quo dal quale far decorrere il termine per la proposizione della querela, considerata tardiva dal ricorrente, i Giudici sottolineano come in giurisprudenza si sia ormai da tempo consolidato il principio per cui «il termine per proporre la querela per il reato di lesioni colpose determinate da colpa medica inizia a decorrere non già dal momento in cui la persona offesa ha avuto consapevolezza della patologia contratta, bensì da quello, eventualmente successivo, in cui la stessa sia venuta a conoscenza della possibilità che sulla menzionata patologia abbiano influito errori diagnostici o terapeutici dai sanitari che l'hanno curata (Cass. pen., sez. IV, n.35424/2020; Cfr. Cass. pen., n. 17592/2010, Cass. pen., n. 13938/2008; Cass. pen., n. 21527/2015)».

La cartella clinica era stata consegnata alla paziente il giorno 14.12.2015, momento in cui la stessa aveva acquisito la consapevolezza della riconducibilità del fatto lesivo all'imperizia dell'imputato e ciò in quanto solo allora la donna aveva avuto la possibilità di porre in relazione le lesioni patite con l'operato del professionista.

Pertanto, avendo la persona offesa presentato la querela in data 14.3.2016, la stessa risultava tempestiva.

In relazione alla doglianza relativa all'inosservanza ed erronea applicazione della legge penale in riferimento alla violazione dell'art. 157 c.p., secondo la difesa, essendo il reato consumato tra il marzo e luglio 2015, sarebbe maturata la prescrizione prima della sentenza di secondo grado.

Tuttavia, come ricorda la Suprema Corte, nel reato di lesioni colpose riconducibile a responsabilità medica, la prescrizione inizia a decorrere dal momento dell'insorgenza della malattia “in fieri”, anche se non ancora stabilizzata nei termini di irreversibilità o impedimento permanente (Cass. pen., sez. IV, n. 18347/2021).

Pertanto, nel caso in esame, tale momento può ricondursi all'acquisizione della cartella clinica avvenuta in data 14.12.2015, di talché la prescrizione, pari a sette anni e mesi sei, risulta maturata in epoca successiva a quella della decisione impugnata.

Per tali motivazioni la Suprema Corte ha dichiarato inammissibile il ricorso, condannando il ricorrente al pagamento delle spese processuali nonché alla somma di euro tremila in favore della cassa delle Ammende.

Osservazioni

La Corte nel caso di specie viene chiamata a pronunciarsi su una vicenda peculiare che vede un farmacista imputato per lesioni colpose nei confronti di una cliente, in quanto quest'ultima aveva riportato gravi danni alla salute a seguito dell'assunzione di pillole dimagranti prescritte e prodotte dallo stesso imputato.

Il medico del nosocomio ove la stessa era stata ricoverata a causa dei danni di cui sopra, aveva affermato che si trattava di farmaci off label, poiché contenevano sostante, nello specifico l'efedrina e il naxeltrone, utilizzate per scopi differenti da quelli specifici: l'uno per la cura dell'asma e l'altro, antagonista degli oppioidi, andando a controllare la sensazione di piacere collegata all'ingestione del cibo, ne riduce il desiderio e blocca l'effetto di farmaci e droghe oppiacei. Essendo inoltre quest'ultimo fortemente epatossico, deve essere somministrato unicamente in caso di assoluta necessità.

    

La sentenza in oggetto afferma pertanto come la condotta dell'imputato sia stata tenuta al di fuori dei canoni della legge n.94 dell'8 aprile del 1998 (cd. Legge di Bella), la quale, all'articolo 3 stabilisce che  «in singoli casi il medico può, sotto la sua diretta responsabilità̀ e previa informazione del paziente e acquisizione del consenso dello stesso, impiegare un medicinale prodotto industrialmente per un'indicazione o una via di somministrazione o una modalità̀ di somministrazione o di utilizzazione diversa da quella autorizzata, ovvero riconosciuta agli effetti dell'applicazione dell'articolo 1, comma 4, del decreto-legge 21 ottobre 1996, n. 536, convertito dalla legge 23 dicembre 1996, n. 648, qualora il medico stesso ritenga, in base a dati documentabili, che il paziente non possa essere utilmente trattato con medicinali per i quali sia già approvata quella indicazione terapeutica o quella via o modalità̀ di somministrazione e purché̀ tale impiego sia noto e conforme a lavori apparsi su pubblicazioni scientifiche accreditate in campo internazionale».

Dunque, solamente il medico, sulla base di documentazione scientifica e sotto la sua diretta responsabilità, dopo aver informato il paziente e avere ottenuto il consenso, può decidere di trattare il proprio assistito con un medicinale prodotto per una indicazione terapeutica o modalità di somministrazione diverse da quelle registrate.

In particolare, il medico nell'ottenere il consenso del paziente deve spiegare in dettaglio la ratio della terapia off label, il rischio dei possibili eventi avversi, e i dati di efficacia disponibili per l'impiego del farmaco che intende somministrare. 

Un esempio molto recente dell'utilizzo di questa tipologia di farmaci, risale all'inizio della pandemia Covid-19: durante le prime fasi, infatti, i medici non avevano a disposizione nessun medicinale specifico contro il virus SARS-CoV-2 e quindi hanno cercato di curare l'infezione utilizzando antivirali o altri farmaci già noti.

Tuttavia, la condotta contestata nel caso di specie non era stata tenuta da un medico, bensì da un farmacista, il quale aveva prescritto una terapia dimagrante alla cliente anziché indirizzarla dallo specialista competente in materia.

Il farmacista, infatti, non è abilitato alla prescrizione di farmaci, attività esclusiva del medico, come non è nemmeno autorizzato a sindacarne i trattamenti terapeutici farmacologici prescritti, dovendosi attenere a quanto prescritto da quest'ultimo.

Tale obbligo incontra l'unico e legittimo limite nell'ipotesi in cui il farmacista rilevi la prescrizione di sostanze velenose a dosi non medicamentose o pericolose. In tal caso il farmacista deve esigere, ai sensi art. 40 del RD (Regolamento per il Servizio Farmaceutico) n. 1706 del 1938, che il medico «dichiari per iscritto che la somministrazione avviene sotto la sua responsabilità̀, previa indicazione dello scopo terapeutico perseguito».

L'articolo 6 del codice deontologico dei farmacisti infatti prevede, quale unica prerogativa del farmacista, la dispensazione del medicinale e, pertanto, non la prescrizione dello stesso.

Il farmacista non può effettuare diagnosi, in quanto non può a sostituirsi a nessun medico: ciò significa che il farmacista non può prescrivere farmaci di propria iniziativa. Se lo facesse, incorrerebbe in gravi responsabilità, anche di tipo penale (art. 348 c.p.): il farmacista che prescrive medicine, infatti, finirebbe per esercitare un'altra professione, che è quella del medico.

Il divieto di prescrizione di farmaci che incombe sui farmacisti, tuttavia, non è assoluto: esistono medicinali che possono essere liberamente consigliati e venduti dal farmacista ai clienti che si recano presso la farmacia. Si tratta dei cd medicinali da banco, i quali possono essere venduti liberamente senza alcuna prescrizione medica preventiva.

Tali farmaci senza obbligo di ricetta si distinguono in due:

  • i farmaci senza obbligo di prescrizione (cosiddetti S.O.P.), che in etichetta devono riportare obbligatoriamente la dicitura “Medicinale non soggetto a prescrizione medica”;
  • i farmaci da banco in senso stretto (cosiddetti O.T.C., dall'inglese “Over The Counter”, cioè “sopra il banco”), detti anche di automedicazione, che possono essere oggetto di pubblicità presso il pubblico e venduti anche presso esercizi commerciali diversi dalle farmacie.

     

In ragione della particolare composizione di tali medicinali, possono essere dispensati senza una preventiva diagnosi, prescrizione e sorveglianza operata dal medico, in quanto utilizzati per il trattamento di disturbi di lieve entità e pertanto possono essere consigliati ai clienti.

Tuttavia nel caso in esame, la composizione delle pillole dimagranti prodotte dal farmacista nonché l'attività di prescrizione era tale per cui necessitava la prescrizione del medico, impedendo così all'imputato di poterla esercitare, in quanto non abilitato nel farlo.

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