Il nuovo elenco di reati “ostativi” alla messa alla prova al vaglio della Corte costituzionale

09 Agosto 2024

Il decreto legge 15 settembre 2023, n. 123, convertito con modificazioni nella legge 13 novembre 2023, n. 159, ha introdotto all'art. 28 d.P.R. n. 448/1988 un comma 5-bis, che preclude l'accesso alla sospensione del processo con messa alla prova ai minorenni imputati per uno dei «delitti previsti dall'articolo 575 c.p., limitatamente alle ipotesi aggravate ai sensi dell'articolo 576, dagli articoli 609-bise 609-octies c.p., limitatamente alle ipotesi aggravate ai sensi dell'articolo 609-ter, e dall'articolo 628, comma 3, nn. 2), 3) e 3-quinquies), c.p.».

Massima

Il G.u.p. rimettente ritiene l'automatismo incompatibile con le direttrici di fondo della giustizia penale minorile, giacché impedisce di adeguare la risposta statuale all'illecito penale alla personalità in divenire del giovane e ne pregiudica le chance (ri)educative, in contrasto con quanto dispongono gli artt. 3 e 31, comma 2, Cost.

Il caso

Il caso che occupa il Tribunale per i minorenni di Trento riguarda una violenza sessuale di gruppo su una ragazza minorenne. Esaminato nel corso dell'udienza preliminare, il giovane imputato (giudicato separatamente rispetto ai supposti correi) ammetteva l'addebito e formulava richiesta di sospensione del processo con messa alla prova.

Il giudice, acquisito il parere favorevole del pubblico ministero e incaricati i servizi sociali di verificare la fattibilità del probation e di predisporre un programma trattamentale, rinviava a successiva udienza per decidere sulla richiesta dell'imputato. Peraltro, come si evince dalla lettura dell'ordinanza, rispetto al tempo, risalente, in cui è stato commesso il reato, il giovane si era già autonomamente impegnato in attività sociali e di volontariato e viveva in una condizione familiare e sociale sensibilmente migliorata, dimostrando «una evoluzione positiva della personalità».

Nelle more, in seguito agli allarmanti e noti fatti di Caivano, il legislatore ha licenziato d'urgenza il d.l. 15 settembre 2023, n. 123, convertito con modificazioni nella legge 13 novembre 2023, n. 159. Il provvedimento in parola, adottando un approccio evidentemente rigorista, ha introdotto all'art. 28 d.P.R. n. 448/1988 un comma 5-bis, che preclude l'accesso alla sospensione del processo con messa alla prova ai minorenni imputati per uno dei «delitti previsti dall'articolo 575 del codice penale, limitatamente alle ipotesi aggravate ai sensi dell'articolo 576, dagli articoli 609-bise 609-octies c.p., limitatamente alle ipotesi aggravate ai sensi dell'articolo 609-ter, e dall'articolo 628, comma 3, nn. 2), 3) e 3-quinquies), c.p.».

Il giudice si è trovato, quindi, a cospetto di un panorama normativo in cui il legislatore sembra impedire l'ammissione al probation del minorenne imputato per alcune gravi fattispecie incriminatrici, tra cui quella oggetto del procedimento a quo.

La questione

In punto di rilevanza, il rimettente ritiene che il neointrodotto comma 5-bis dell'art. 28 d.P.R. n. 448/1988 imponga il rigetto della richiesta dell'imputato perché il reato per cui si procede è compreso nell'elenco per cui vige la preclusione ex lege. Tale assunto è fondato sulla natura dell'istituto, che secondo il giudice è «intrinsecamente caratterizzato da una dimensione processuale», nonostante la produzione di effetti sostanziali, primo tra tutti l'estinzione del reato in caso di esito favorevole della prova. Da ciò discende l'applicabilità «del principio del tempus regit actum e non del principio della lex mitior riferibile esclusivamente alla fattispecie incriminatrice e al trattamento sanzionatorio». D'altronde, rileva il giudice, la richiesta della messa alla prova da parte dell'imputato costituisce un passaggio procedimentale non sufficiente a “radicare” la disciplina applicabile; è, infatti, solo il momento della decisione che «determina l'individuazione della norma» destinata a operare.

Sul versante della non manifesta infondatezza, poi, nell'ordinanza di rimessione si valorizzano i tratti fondamentali della giustizia penale minorile, imperniata sui principi di personalizzazione e di adeguatezza applicativa, ritenuti incompatibili con la previsione di preclusioni “automatiche” all'accesso alla prova. In quest'ottica, si fa notare citando alcune risalenti decisioni della Corte costituzionale (sentenze nn. 125 del 1992, 206 del 1987 e 222 del 1983) «tutta la ratio della disciplina del processo penale minorile è in effetti basata sulle finalità del recupero del minore e della sua rapida fuoriuscita dal circuito penale».

Forse più di ogni altro istituto processuale, in fin dei conti, la messa alla prova rappresenta uno strumento idoneo a indirizzare il giovane verso una evoluzione positiva della personalità e del suo rapporto con gli altri. Un simile potenziale (ri)educativo, che fa della individualizzazione del trattamento un carattere distintivo, assicura le migliori chance di recupero sociale. D'altronde, il probation è un istituto che si sviluppa in un arco di tempo non trascurabile (fino a tre anni per i reati più gravi), durante il quale sono previste verifiche in itinere dei progressi effettuati, che consentono al giudice di valutare, se del caso, l'interruzione del percorso in ragione di risultati insoddisfacenti. Circostanze, queste, che secondo il giudice a quo scongiurano una “strumentalizzazione” dell'istituto, che non potrebbe, quindi, essere utilizzato dall'imputato come escamotage per evitare il processo e l'eventuale condanna.

L'efficacia dello strumento è testimoniata anche dal fatto che lo stretto contatto coi servizi sociali, oltre alla possibilità di prevedere durante il trattamento diversi e duttili percorsi di supporto psicologico, riduce sensibilmente i tassi di recidiva nei giovani che superano la prova.

Così ricostruito il panorama normativo, il giudice a quo conclude che la previsione di un catalogo di reati per i quali è proibito l'accesso alla messa alla prova costituisce «un vulnus non solo di tutela e protezione del minore autore del reato ma anche di tutela dell'intera collettività contro i rischi di una possibile recidiva». In definitiva, osserva il giudice, le scelte d'urgenza del legislatore non tracciano un adeguato bilanciamento tra le esigenze di ordine pubblico e quelle di protezione della gioventù, «privilegiando automaticamente le prime».

Le soluzioni giuridiche

La prima delle questioni con cui la Corte costituzionale si dovrà confrontare attiene alla rilevanza della eccezione sollevata.

Uno dei presupposti da cui muove l'ordinanza è, infatti, la natura processuale della messa alla prova, che impone di applicare al caso concreto la legge vigente al momento della decisione sull'ammissione. In effetti, il legislatore ha licenziato la normativa senza preoccuparsi di disciplinare i risvolti di diritto intertemporale, facendo sì che la questione debba essere risolta secondo i canoni interpretativi generali. D'altronde, se convenissimo sulla natura sostanziale, neppure il legislatore potrebbe derogare, se non con norma incostituzionale, al principio della lex mitior. La soluzione, al problema, ad ogni modo, non è scontata. In dottrina, la natura dell'istituto è ancora discussa: secondo alcuni il probation rappresenta una misura penale sostanziale in ragione sia della connotazione afflittiva che innegabilmente possiede, sia in virtù gli effetti estintivi che ne caratterizzano gli esiti; secondo altri, invece, i profili sostanziali dell'istituto non valgono a sovvertirne la fisionomia essenzialmente processuale (sul punto v. C. Cesari, sub art. 28, in G. Giostra (a cura di), Processo penale minorile. Commentario al d.P.R. n. 448/1988, Giuffrè Francis Lefebvre, 2024, p. 519; nonché C. Cottatellucci, sub art. 28, in G. Lattanzi-E. Lupo (a cura di), Codice di procedura penale. Rassegna di giurisprudenza e dottrina, vol. VI, Giuffrè Francis Lefebvre, 2021, p. 442). La presa di posizione della Consulta in ordine a tale profilo costituirà un importante approdo ermeneutico.

Riguardo al merito, nel “mirino” del rimettente si colloca l'automatismo rappresentato dal novero di reati che impedisce l'accesso alla messa alla prova. Si tratta di una scelta legislativa che sottrae «al vaglio di un giudice specializzato e interdisciplinare la possibilità di valutare, caso per caso, le condizioni contingenti, per rendere la risposta del processo penale minorile aderente alla personalità del minore e maggiormente rispondente alle finalità rieducative, di recupero e di reinserimento sociale del minore autore di reato».

A giudicare dai precedenti rinvenibili nella giurisprudenza costituzionale, non è difficile pronosticare che la questione sollevata sarà accolta.

All'indomani dell'approvazione del nuovo rito minorile era stata messa in dubbio la compatibilità costituzionale degli artt. 28 d.P.R. n. 448/1988 e 30 disp. att. d.P.R. n. 448/1988 nella parte in cui sembravano non consentire l'ammissione alla prova degli imputati per reati puniti con l'ergastolo. In effetti, nonostante l'assenza nella legge delega di una simile preclusione, le norme richiamate modulavano la durata temporale della sospensione del processo facendo riferimento al quantum di pena della reclusione, senza menzionare l'ergastolo. La questione era stata dichiarata non fondata dalla Consulta in base ad una interpretazione che comprendeva l'ergastolo nel range di pena che giustifica la sospensione del processo fino a tre anni. Tra le argomentazioni spese dal rimettente e dalla Corte costituzionale, peraltro, se ne rinviene una che sembra vincolare anche il Giudice delle Leggi nel caso che ci occupa. Sosteneva, infatti, la Corte che sarebbe incomprensibile «rendere inapplicabile l'istituto in esame nei confronti di minorenni proprio nelle ipotesi dei più gravi reati nelle quali l'accertamento in ordine alla personalità del minore è sicuramente più necessario, se non indispensabile». In altri termini, si avvertiva come paradossale che «l'innovazione più significativa e coraggiosa operata dal nuovo codice di procedura penale» non trovasse «applicazione proprio nei casi più gravi in cui essa innovazione è più che mai necessaria, la stessa gravità del reato non potendo escludere, in un minorenne, un eccezionale, non più ripetibile, momento di anomalo sviluppo della personalità» (C. cost., 27 settembre 1990, n. 412). Una simile indicazione è stata poi recepita dal legislatore, che ha sgombrato il campo dalle ambiguità aggiungendo al primo comma dell'art. 28 d.P.R. n. 448/1988 la menzione esplicita dell'ergastolo, accanto alla reclusione. Sicché, ad oggi, la durata della messa alla prova non può superare i tre anni quando si procede per reati per i quali è prevista la pena dell'ergastolo o della reclusione non inferiore nel massimo a dodici anni; e non può superare un anno negli altri casi.

Ancora di recente, poi, quando la Corte costituzionale si è trovata a giudicare preclusioni e automatismi tranchant in materia minorile, ne ha dichiarato l'illegittimità. È accaduto in materia di misure penali di comunità e dei permessi premio nei confronti dei condannati minorenni, per cui è stata eliminata l'ostatività ai sensi dell'art. 4-bis comma 1 ord. penit. (C. cost., 6 dicembre 2019, n. 263, che ha censurato l'art. 2, comma 3, d.lgs. 2 ottobre 2018, n. 121); è accaduto con riguardo alla sospensione dell'esecuzione della pena detentiva nei confronti dei minori condannati per i delitti di cui all'art. 4-bis ord. penit. (C. cost., 28 aprile 2017, n. 170, che ha dichiarato l'illegittimità in parte qua dell'art. 656, comma 9, lett. a), c.p.p.).

Di fronte a tali precedenti – salvo che non ne ritenga l'irrilevanza per inapplicabilità nel caso concreto della sopravvenuta legge sostanziale più sfavorevole – è verosimile pensare che la Corte, là dove esamini il merito della questione, calerà la scure dell'incostituzionalità sulla nuova previsione normativa.

Osservazioni

Dal punto di vista della natura giuridica della messa alla prova, da cui dipende l'analisi del merito della questione sollevata, è auspicabile che la natura «ancipite» dell'istituto veda prevalere la componente processuale (in questo senso v. L. Camaldo, Condivisibili dubbi di legittimità costituzionale della disposizione introdotta dal decreto Caivano che prevede alcuni reati ostativi alla concessione della messa alla prova minorile, in Sist. pen., 30 maggio 2024). Certo, l'esito positivo del probation porta con sé l'estinzione del reato; tuttavia, tale esito dipende da un insieme di condizioni procedurali che non autorizzano l'operatività del favor rei. D'altronde, al reo è riconosciuto il diritto di poter contare su un trattamento sanzionatorio non più grave di quello previsto quando ha commesso il reato, ma non anche sull'immutabilità in senso favorevole delle “vie processuali” che saranno a sua disposizione se e quando sarà chiamato a rispondere di quel reato davanti ad un giudice.

Se tale presupposto sarà condiviso dalla Corte costituzionale, il giudizio passerà al merito della questione. In particolare, si tratterà di valutare una scelta «in netta controtendenza, non solo rispetto alla ratio originaria dell'istituto, ma anche a quella del rito per i minorenni e alla stessa metodologia di costruzione della normativa ad essi dedicata» (così C. Cesari, sub art. 28, cit., p. 530, preconizzando profili di incostituzionalità). L'intervento del legislatore, peraltro, sembra dare per presupposta l'ammissione alla prova di tutti gli imputati che si macchiano di crimini seri e odiosi. La prassi, invero, racconta altro: secondo la giurisprudenza di legittimità «l'applicazione di tale istituto diventa inopportuna e non praticabile allorché, (…) a causa dell'estrema gravità dei delitti e delle agghiaccianti modalità esecutive, si è venuta a creare una profonda frattura con la società, il cui superamento richiede tempo, non potendosi risolvere nel termine di tre anni previsto dall'art. 28 d.P.R. n. 448/1988» (Cass. pen., 9 aprile 2003, D.N., in Cass. pen. 05, p. 905). 

Si è accennato che la giurisprudenza costituzionale relativa al rito minorile ha sempre espunto dall'ordinamento le preclusioni assolute e gli automatismi. Nel caso della messa alla prova, peraltro, la declinazione di un elenco di reati per i quali viene interdetto l'accesso al rito implica una sorta di inaccettabile presunzione di non rieducabilità dei giovani imputati tratti a giudizio: una soluzione in contrasto con il principio di individualizzazione e mirante a depotenziare «la più significativa ed ardita innovazione» della codificazione minorile del 1988 (C. Cottatellucci, sub art. 28, cit., p. 441).

In base a tali presupposti, là dove la Corte optasse per la declaratoria di illegittimità, dovrebbe valutare di farlo oltre il petitum del rimettente. L'ordinanza in commento, infatti, si limita a chiedere una pronuncia di incostituzionalità della nuova norma «nella parte in cui prevede che le disposizioni di cui al comma 1 non si applicano ai delitti previsti dall'art. 609-octies c.p. limitatamente alle ipotesi aggravate ai sensi dell'art. 609-ter c.p.». Il giudice a quo era certamente vincolato a formulare un simile quesito, limitandosi a quanto rilevante per il caso esaminato; ma la Corte costituzionale ben potrebbe auto-sollevare la questione di legittimità estendendola all'intero comma 5-bis dell'art. 28 d.P.R. n. 448/1988, considerato che le valutazioni alla base dell'incompatibilità costituzionale si estendono anche alle altre fattispecie di reato elencate dalla disposizione. 

Quanto sin qui detto non significa, ovviamente, che al legislatore sia impedito di intervenire in materia, in modo tale da irrobustire l'intervento di recupero di fronte alla commissione di reati particolarmente gravi. Potrebbe essere auspicata, ad esempio, una diversa modulazione della definizione dei termini massimi di durata della prova, innalzandoli per alcuni reati. Potrebbe essere introdotto un percorso trattamentale che tenga necessariamente in considerazione alcune prestazioni dettate dal “tipo criminologico” per cui si procede (ad esempio, servizio sociale in favore degli anziani, in caso di reati commessi contro di essi; approfondimento di tematiche di genere, in caso di reati collegati al fenomeno, e così via). Insomma, il legislatore può procedere a una messa a punto della risposta penale nei confronti del minorenne imputato, ma senza impedire ex ante al giudice un intervento individualizzato e, soprattutto, senza frustrare irragionevolmente le prospettive (ri)educative e di evoluzione della personalità del minorenne.

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