Diritto all’alimentazione (sana) del detenuto: la Cassazione dice no all’acquisto di lievito e farina al 41-bis

29 Agosto 2024

La Cassazione si è pronunciata sul tema del diritto all'alimentazione del detenuto, facendo un distinguo tra ciò che è ritenuto diritto soggettivo e tutelabile giudizialmente tramite il reclamo di cui all'art. 35-bis ord. penit., in caso di diniego da parte dell'Amministrazione penitenziaria, e ciò che invece attiene più alle modalità di esercizio del diritto che, al contrario, risulta comprimibile a discrezione dell'Amministrazione e non coperto da diretta tutela azionabile davanti al magistrato di sorveglianza.

Massima

È escluso che la selezione di alcuni alimenti da parte dell'Amministrazione possa configurare una diretta lesione del diritto soggettivo all'alimentazione, ben potendo individuare quali alimenti escludere, per ragioni oggettive, dal regime del 41-bis ord penit.

Il caso

Con sentenza del 17 maggio 2024, la Prima Sezione ha deciso in merito al ricorso per cassazione presentato dalla Direzione del carcere, dal DAP e dal Ministero della Giustizia avverso la decisione del Tribunale di Sorveglianza di Sassari (che aveva a sua volta confermato il provvedimento del magistrato contro il reclamo dell'Amministrazione) con cui il Collegio aveva respinto le doglianze del DAP sulla richiesta avanzata da detenuto ristretto al regime al 41-bis ord. penit. per l'acquisto di farina e lievito.

Secondo il Collegio il divieto del DAP era stato ritenuto irragionevole e privo di riscontri documentati: secondo l'Amministrazione il divieto si giustificava per il pericolo che tali prodotti alimentari potessero risultare idonei alla produzione di incendi e potessero diventare elementi per la produzione artigianale di esplosivi.

La questione

Avverso tale decisione di conferma, tuttavia, il DAP ha presentato ricorso per cassazione deducendo che la questione dell'individuazione degli elementi in ingresso non è di competenza del magistrato ma è di tipo amministrativo: si ritiene infatti che in gioco non sia il diritto all'alimentazione del detenuto di per sè, ma ciò che riguarda la potestà regolamentare da parte dell'amministrazione penitenziaria. Si fa presente inoltre che tale divieto si applicherebbe anche ai detenuti comuni e quindi non sussisterebbe alcuna discriminazione. Si insiste poi sulla pericolosità dell'alimento in sé, che potrebbe essere usato come colla e resa incendiabile: tenuto conto che ai detenuti è consentito l'acquisto di accendini, con la sola acqua ossigenata si darebbe il via a strumenti idonei a offendere o creare situazioni di pericolo per l'incolumità degli agenti e degli altri ristretti.

Le soluzioni giuridiche

Secondo la Prima Sezione, quanto prospettato dal ricorrente, anche sulla base della requisitoria scritta del Procuratore Generale, merita accoglimento e il ricorso è fondato. In sostanza la Cassazione ritiene che la regolamentazione delle modalità di esercizio di un diritto non siano di competenza del magistrato e non abbiano attinenza con il reclamo dell'art. 35-bis ord. penit., in quanto questioni pratiche e amministrative di appannaggio dell'Amministrazione penitenziaria. Gli aspetti pratici di mera regolazione dei limiti di esercizio di un diritto soggettivo non godono quindi di tutela giurisdizionale e pertanto eventuali limitazioni imposte dall'Amministrazione non sono tutelabili con il rimedio del reclamo. In questo caso, inoltre, oggetto del contendere è tutto ciò che concerne la disciplina tecnica e amministrativa della selezione degli alimenti in ingresso, sulla base di valutazioni effettuate in ambito amministrativo dal DAP: all'interno del regime del 41-bis ord. penit., sulla base di valutazioni di idoneità ad offendere e di pericolosità (potenziale) si ritiene che gli alimenti del lievito e della farina non possano trovare ingresso tenuto conto dell'alta potenzialità di tali elementi a divenire, se combinati con altri elementi invece consentiti (come l'acqua o l'uso degli accendini), armi idonee ad offendere. La valutazione discrezionale dell'Amministrazione esulerebbe da ciò che invece è il diritto all'alimentazione in sé e per sé, tenuto conto che ilo venir meno in alimento piuttosto che di un altro, non precluderebbe al detenuto di mantenere in ogni caso un'alimentazione sana e quindi preservare integro il suo diritto soggettivo. Il secondo tutelabile dinanzi al magistrato mediante reclamo giurisdizionale; il secondo no: per motivare tale soluzione giuridica la Cassazione richiama anche precedenti in materia come, ad es., Cass. pen., sez. I, n. 23533/2020 e Cass. pen., sez. I, n. 767/2013. Secondo infatti, i giudici «soltanto la negazione del diritto in quanto tale integra lesione suscettibile di reclamo giurisdizionale, mentre le modalità di esplicazione del diritto restano affidate alle scelte discrezionali dell'Amministrazione penitenziaria, in funzione delle esigenze di ordine e disciplina interne, che, ove non manifestamente irragionevoli, ovvero sostanzialmente inibenti la fruizione del diritto non sono sindacabili in sede giudiziaria» (v. Cass. pen., sez. VII, n. 373/2014).

Osservazioni

Il ragionamento della Corte, pur condivisibile sul piano astratto, risulta non del tutto convincente poi nella sua applicazione concreta: ben potrebbe dirsi che ciò che attiene all'esercizio tecnico e materiale sia di appannaggio esclusivo dell'Amministrazione penitenziaria, ma è anche vero che dalla modalità esecutive dipende la stessa sussistenza del diritto soggettivo.

A meno che infatti non si voglia svuotare di contenuto il diritto all'alimentazione, è evidente che la regolamentazione amministrativa finisca per integrare di sostanza il diritto stesso, senza la quale, in altri termini, nemmeno verrebbe ad esistere il diritto stesso, né tanto meno sarebbe possibile garantirlo in concreto. Pur comprendendo infatti le ragioni di pericolosità e idoneità ad offendere di un bene piuttosto che di un altro e come sia indispensabile che sia l'Amministrazione a regolare questi aspetti, non potendo farlo il legislatore in modo esaustivo con il solo impiego di norme, è anche vero che poi dovrebbe essere sempre l'Amministrazione ad effettuare una verifica in concreto, anche alla luce delle esigenze alimentari del singolo detenuto: può infatti darsi che l'impiego della farina non rappresenti di per sé un aspetto essenziale nella vita di una persona, ma può altrettanto essere vero che quello stesso alimento rappresenti al contrario un elemento fondamentale nella dieta alimentare e possa rappresentare un elemento essenziale nella definizione stessa del diritto ad una alimentazione sana.

In questo secondo caso, non è possibile fermarsi al mero diniego, dato che in questo caso emerge un'esigenza strettamente connessa al diritto alla salute e allora torna dirimente la verifica in concreto della pericolosità soggettiva del detenuto e dell'idoneità in concreto ad offendere di quel bene. Fermarsi infatti ad una mera valutazione astratta e potenziale, finirebbe sì per ingenerare una violazione del diritto soggettivo ad una alimentazione sana che può di conseguenza incidere sulla salute del detenuto: l'Amministrazione deve effettuare quelle valutazioni in concreto ex ante e che se omesse e limitate ad un riscontro meramente potenziale ed astratto dovranno trovare una risposta ex post sul piano della tutela giurisdizionale.

Tale soluzione interpretativa rappresenta una sorta di compromesso tra ciò che è la situazione attuale, normativa e amministrativa e degli orientamenti della giurisprudenza di legittimità, da un lato, e quello che verrebbe a ritenersi, secondo l'applicazione del principio di proporzionalità (o congruità) delineato da numerosissime pronunce della Corte costituzionale in materia di 41-bis, per cui sarebbe ragionale prevedere il superamento di alcune limitazioni, specie quelle inerenti l'ingresso di alimenti o di beni di prima necessità, il cui uso può sicuramente influire sulla salute e sul benessere psico-fisico del detenuto, dall'altro.

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