Puntualizzazioni in tema di abbandono di incapace

Ferdinando Brizzi
03 Settembre 2024

La fattispecie di cui all'art. 591 c.p. è tale per cui chiunque sia la persona che, anche semplicemente di fatto, si trova a garantire l'incolumità fisica e/o psichica di un incapace, non può abbandonarlo, vale a dire non può cessare di esercitare la doverosa sorveglianza, volta ad impedire che il predetto causi danni a sé stesso o agli altri.

Massima

Il delitto di abbandono ha come presupposto l'esistenza in capo all'agente di un uno specifico dovere di custodia o di cura, il quale può essere imposto dalla legge, da un contratto o anche da uno stato di fatto creato dal soggetto attivo, purché si tratti di un dovere giuridico.

Il caso

Con la sentenza impugnata la Corte d'assise d'appello di Torino, parzialmente riformando la sentenza assolutoria resa il 12 settembre 2022 dalla Corte d'assise di Asti, dichiarava gli imputati responsabili del capo A) – reato di abbandono di minori o incapaci - dell'imputazione, condannandoli alla pena di anni tre di reclusione, alla pena accessoria dell'interdizione per anni cinque dai pubblici uffici, confermando nel resto.

In particolare, con il capo A risulta attribuito agli imputati il reato di cui all'art. 591, commi 1 e 3, c.p. per aver mantenuto una persona affetta dal morbo di Alzheimer invalida al 100% e incapace per malattia di mente di corpo, nonché per vecchiaia a provvedere a sé stessa in condizioni tali da creare pericolo per la sua incolumità e incompatibili col suo status di salute, benché lo stesso fosse affidato alla cura degli stessi, e così lo abbandonavano, fatto da cui derivava la morte della persona offesa. Invero - a fronte di un corrispettivo di euro 1200 mensili - accoglievano la PO presso il loro domicilio (una cascina) accettando di prendersene cura, di garantirgli vitto, alloggio e assistenza materiale e medica e, benché sforniti dei mezzi di personale medico infermieristico e delle autorizzazioni amministrative in data 13 settembre 2019, collocavano la PO nel cortile dell'immobile affinché potesse muoversi con il girello liberamente e mentre uno dei due imputati si trovava seduto su una sedia unitamente ad altro ospite la PO cadeva improvvisamente a terra, batteva la testa su una zona cementificata patendo un trauma cranico da cui conseguiva la morte il 14 settembre 2019.

La Corte territoriale ha rilevato, tra l'altro, ai fini della colpevolezza degli imputati, che lo stato di abbandono e susseguente pericolo nel quale la PO si è trovato era connesso alle sue effettive e concrete condizioni di salute quali erano venute a determinarsi dal 16 agosto 2019, condizioni assolutamente incompatibili con la condotta tenuta dagli imputati consistita nell'appoggiare la PO. ad un girello per farla circolare liberamente nel cortile della cascina tenuto in qualche modo d'occhio a qualche metro di distanza da uno degli imputati, intento a chiacchierare, perché la PO non era in grado di deambulare senza un'assistenza costante ed anzi non era nemmeno in grado di mantenere la stazione eretta.

La questione

Avverso la detta sentenza hanno proposto distinti ricorsi gli imputati, con atti sottoscritti dal comune difensore di fiducia del tutto sovrapponibili, deducendo, per quanto di rilievo in questa sede, due motivi pressoché identici, di seguito riportati.

Con il primo motivo si eccepisce l'erronea applicazione della legge penale in relazione all'elemento oggettivo dell'abbandono di persona incapace e contraddittorietà della motivazione in relazione alla capacità di deambulare della persona offesa. Il giudice di appello ha ritenuto sussistente una incapacità totale di deambulare della vittima, sicché le modalità di controllo realizzate dagli imputati erano espressive di abbandono. I giudici hanno sottolineato che sulla scorta del referto del 6 settembre 2019 del servizio recupero e riabilitazione funzionale dell'Asl di Torino emergeva che la PO non fosse assolutamente in grado di deambulare, sicché era certo che la persona offesa non venisse assistita in maniera continuativa e fosse abbandonata a sé stessa. Tale affermazione non si è confrontata con le diverse acquisizioni probatorie (dichiarazioni del fratello della vittima, di altri due testi) dalle quali è emerso che la vittima era in grado di deambulare, con l'ausilio di supporti. Non trattandosi di incapacità totale non può farsi questione di abbandono. Peraltro - ha dedotto specificamente una dei due imputati - ella non era in grado di conoscere i referti medici relativi all'asserita condizione della PO e conscia per la sua diretta percezione della capacità dello stesso di deambulare lo affidava alle cure del coimputato, sicché con riguardo specifico alla sua posizione l'abbandono non può assolutamente ritenersi configurabile, non essendo comunque presente al momento del fatto.

Con il secondo motivo si censura l'erronea applicazione della legge penale in relazione all'elemento soggettivo in termini di momento rappresentativo del dolo anche solo eventuale. Gli imputati non erano a conoscenza della documentazione medica relativa alle condizioni di salute della PO, sicché non potevano neppure rappresentarsi in termini di eventualità la sussistenza del pericolo per la l'incolumità della vittima.

Le soluzioni giuridiche

Nella sentenza in commento si è proceduto ad una pregevole ricognizione degli approdi interpretativi della giurisprudenza di legittimità a proposito della fattispecie di cui all'art. 591 c.p.

La fattispecie trova collocazione nel Titolo XII del Codice, dedicato ai delitti contro la persona e, nel quadro di questo titolo, è compresa tra i delitti contro la vita e l'incolumità individuale. Tale classificazione si riscontra anche nelle legislazioni precedenti, eccezion fatta per il Codice sardo­ italiano del 1859 che collocava l'esposizione e l'abbandono d'infante (art. 509 c.p.) tra i reati contro l'ordine delle famiglie e, più precisamente, tra quelli contro lo stato di famiglia (sia il Codice toscano del 1853, che il Codice Zanardelli del 1889 comprendevano le disposizioni corrispondenti alla disposizione vigente rispettivamente l'art. 532 e l'art. 386 tra i delitti contro la persona). La soluzione sistematica adottata dal legislatore del 1930, oltre a porsi in linea di continuità con le precedenti legislazioni appare appropriata, trovando la sua ragion d'essere nello stato di incapacità dei soggetti passivi di provvedere a sé stessi, dal quale deriva un intenso pericolo per la loro incolumità individuale qualora siano lasciati privi di adeguata assistenza.

Come emerge dalla Relazione Ministeriale (Il, 394): «trattasi di fatti che, prevalentemente espongono a pericolo la vita o l'incolumità delle persone, seppure presuppongano altresì la violazione di doveri di assistenza o di custodia, i quali sorgano da vincoli di parentele o da altri rapporti legali o convenzionali. La collocazione tra i reati contro l'ordine della famiglia, da taluni caldeggiata, mentre non avrebbe consentito di porre in piena luce l'obiettività caratteristica, rappresentata dalla esposizione a pericolo dell'incolumità personale, sarebbe risultata impropria anche perché i doveri e gli obblighi, di cui qui si considera la violazione, non tutti derivano da rapporti speciali di tutela o di assistenza, ma talora si ricongiungono, perfino, con il vincolo più generale che collega tutti i componenti della civile società». Scopo dell'incriminazione è quello di proteggere particolari categorie di soggetti che, per età o per altre cause legislativamente determinate sono particolarmente esposte ai pericoli, contro l'abbandono da parte di chi è tenuto ad averne cura.

La collocazione sistematica della figura criminosa in argomento denota come lo scopo di protezione della norma consista nell'osservanza degli obblighi umani ed assistenziali connessi alla cura dei minori o degli incapaci. In questo modo l'art. 591 c.p. ha finito per anticipare la costituzionalizzazione del dovere di solidarietà sociale, poi sancito all'art. 2 della Costituzione repubblicana.

D'altra parte, l'oggettività giuridica del delitto in questione non consiste tanto nella tutela della vita e dell'incolumità personale, quanto piuttosto nella violazione di un obbligo assistenziale o di custodia. Ciò è confermato dal fatto che in tutte le ipotesi di abbandono previste dall'art. 591 c.p. la condotta non debba essere diretta a ledere l'incolumità personale o la vita del soggetto passivo. Se infatti una tale volontà sussistesse, sia pure nella forma del dolo eventuale, e l'abbandono costituisse niente altro che un mezzo per realizzarla, si ricadrebbe nelle fattispecie delle lesioni personali o dell'omicidio.

Benché la disposizione in esame indichi il soggetto attivo del reato utilizzando il pronome "chiunque", si deve ritenere che ci si trovi in presenza di un reato proprio, suscettibile di essere commesso non da un qualsiasi soggetto, bensì solo da soggetti determinati forniti di una particolare qualità personale o che si trovino in una determinata posizione giuridica. È necessario, infatti, che il soggetto attivo del reato si trovi in un rapporto col soggetto passivo dal quale derivi un obbligo di custodia o di cura.

A proposito della fonte del dovere di custodia e di cura, la giurisprudenza di legittimità ha evidenziato come nessun limite si pone nella individuazione delle fonti da cui derivano gli obblighi di custodia e di assistenza che realizzano la protezione di quel bene e che si desumono dalle norme giuridiche di qualsivoglia natura, da convenzioni di natura pubblica o privata, da regolamenti o legittimi ordini di servizio, rivolti alla tutela della persona umana, in ogni condizione ed in ogni segmento del percorso che va dalla nascita alla morte.

Si è precisato, quindi, in una prospettiva volta ad assicurare integrale ed effettiva attuazione alla tutela giuridica del soggetto incapace di provvedere a sé stesso garantita dall'art. 591 c.p., come il dovere di custodia implichi una relazione tra l'agente e la persona offesa, che può sorgere non solo da obblighi giuridici formali, ma anche da una spontanea assunzione da parte del soggetto attivo, nonché dall'esistenza di una mera situazione di fatto, tale per cui il soggetto passivo sia entrato nella sfera di disponibilità e di controllo dell'agente, in ciò differenziandosi dal dovere di cura, che ha invece unicamente ad oggetto relazioni scaturenti da valide fonti giuridiche formali (Cass. pen., sez. V, n. 19448/2016, Corbascio, rv. 267126).

La relazione di custodia (che può consistere anche in una relazione di mero fatto) ha ad oggetto la sorveglianza diretta di soggetti non in grado di provvedervi autonomamente; la cura consiste nell'insieme delle prestazioni e cautele protettive compiute a favore di persone incapaci di provvedere a se stesse perché versanti, nel caso concreto, in particolari situazioni di difficoltà; tale relazione giuridica può trovare fondamento nella legge o nel contratto.

La giurisprudenza di legittimità ha valorizzato il valore etico sociale della sicurezza personale come bene/interesse tutelato dalla norma incriminante, senza porre limiti nell'individuazione delle fonti da cui derivano gli obblighi di assistenza e cura. In tal senso è stato evidenziato (Cass. pen., sez. V, n. 290/1993, dep. 1994, Balducci, rv. 196779) che la norma dell'art. 591 c.p., tutela il valore etico-sociale della sicurezza della persona fisica contro determinate situazioni di pericolo. In questa prospettiva, nessun limite si pone nella individuazione delle fonti da cui derivano gli obblighi di custodia e di assistenza che realizzano la protezione di quel bene e che si desumono dalle norme giuridiche di qualsivoglia natura, da convenzioni di natura pubblica o privata, da regolamenti o legittimi ordini di servizio, rivolti alla tutela della persona umana, in ogni condizione ed in ogni segmento del percorso che va dalla nascita alla morte.

La fattispecie di cui all'art. 591 c.p. è tale per cui chiunque sia la persona che, anche semplicemente di fatto, si trova a garantire l'incolumità fisica e/o psichica di un incapace, non può abbandonarlo, vale a dire non può cessare di esercitare la doverosa sorveglianza, volta ad impedire che il predetto causi danni a sé stesso o agli altri.

Nella giurisprudenza di legittimità si è da tempo affermata la "teoria del garante", fondata sul significato assegnato agli "obblighi di garanzia", ossia ai doveri giuridici di impedire l'evento, discendenti dallo speciale vincolo di tutela che lega il soggetto deputato a proteggere un determinato bene giuridico nei casi in cui il titolare dello stesso bene sia incapace di preservarlo da sè in via autonoma (Cass. pen., sez. IV, n. 4793/1990, Bonetti, rv. 191792).

Si è dunque chiarito che, nell'individuazione dei destinatari degli obblighi protettivi, vengono in rilievo le funzioni in concreto esercitate dal soggetto agente (Cass. pen., sez. un., n. 9874/1992, Giuliani, rv. 191185).

Si deve quindi concludere che il delitto di abbandono ha come presupposto l'esistenza in capo all'agente di un uno specifico dovere di custodia o di cura, il quale può essere imposto dalla legge, da un contratto od anche da uno stato di fatto creato dal soggetto attivo, purché si tratti di un dovere giuridico.

Il disvalore della condotta del reato di cui all'art. 591 c.p. si concentra, nell'economia della fattispecie incriminatrice, sulla nozione di "abbandono" di persona minore o incapace di cui si abbia la custodia o debba aversi cura; la tipicità oggettiva del reato ricorre, dunque, in presenza di qualunque azione od omissione contrastante con il dovere giuridico di cura o custodia gravante sull'agente.

Tuttavia, evidenziano i giudici di legittimità, la definizione del concetto di abbandono non è immune da risvolti problematici.

Nell'interpretazione del termine "abbandono", di cui all'art. art. 591 c.p., si è sostenuto da

una parte della dottrina che deve aversi riguardo a un duplice requisito: il primo, materiale, consistente nel mero fatto di lasciare la persona in balia di sé stessa e il secondo, psicologico, identificabile nell'animus derelinquendi, ossia nell'intenzione, da parte del titolare dell'obbligo di cura e custodia, di lasciare definitivamente e non solo-momentaneamente il minore infraquattordicenne o l'incapace.

A favore di una simile lettura sembrerebbe peraltro deporre un argomento di carattere sistematico.

Il successivo articolo 592 c.p. rubricato "Abbandono di un neonato per causa di onore", oggi abrogato, sembra offrire un forte argomento a supporto della conferma che il legislatore, con il termine "abbandono" intendesse punire quelle condotte che sottendessero una certa quale definitività dell'abbandono stesso. Appare chiaro e pacifico, infatti, come la vecchia disposizione facesse riferimento a un significato di "abbandono" caratterizzato da una precisa volontà di lasciare il neonato alla mercé del destino, presupponendosi una certa quale definitività. Un altro argomento che avvalora la lettura del vocabolo "abbandono" quale termine giuridico implicante una certa definitività è offerto dalla lettura dell'art. 1097 e 1098 cod. nav. che punisce il comandante o membro dell'equipaggio che, prima di una certa sequenza temporale, abbandonino la nave in situazione di pericolo. È chiaro che, anche qui, la disposizione faccia riferimento a un definitivo non ritorno sulla nave in situazione di pericolo da parte dei soggetti attivi del reato.

In altri termini il verbo "abbandonare" dovrebbe essere inteso nel senso di lasciare definitivamente o per lungo tempo, oppure lasciare senza aiuto, sostegno o simili in casi di oggettivo bisogno, implicandosi una certa quale definitività della situazione di abbandono.

Per tale posizione, una interpretazione della fattispecie in termini di reato di pericolo astratto che non richieda, per la sussistenza dell'elemento oggettivo, anche la connotazione di una volontà di abbandonare - l'animus derelinquendi - conduce, inevitabilmente, ad un indeterminato obbligo di custodia, per così dire a "vista", che porterebbe a conseguenze dai confini non adeguatamente chiari.

La costante giurisprudenza di legittimità, invece, interpreta la condotta dell'"abbandono" in maniera più ampia, volta a ricomprendere nell'alveo dell'art. 591 c.p. tutte quelle ipotesi in cui il soggetto attivo venga meno, anche soltanto transitoriamente, ai doveri di assistenza nei confronti della vittima.

L'elemento oggettivo del reato è integrato da qualsiasi condotta, attiva od omissiva, contrastante con il dovere giuridico di cura o di custodia, gravante sul soggetto agente, da cui derivi uno stato di pericolo, anche meramente potenziale, per la vita o l'incolumità del soggetto passivo (Cass. pen., sez. I, n. 5/2021, dep. 2022, S., rv. 282481; Cass. pen., sez. V, n. 50944/2019, R., rv. 277842; Cass. pen., sez. V, n. 27705/2018, P., rv. 273479).

Pertanto, sul piano del protocollo di tipicità materiale, il delitto di abbandono di persona incapace accorda rilievo a qualunque condotta attiva od omissiva che risulti contrastante con il dovere giuridico di custodia gravante sul soggetto agente e da cui derivi uno stato di pericolo anche solo potenziale per l'incolumità dello stesso incapace. Ne deriva, quale ovvio corollario, che l'interesse giuridico presidiato dalla norma incriminatrice deve ritenersi violato anche allorquando l'abbandono della persona indifesa ed incapace di provvedere a sé stessa risulti meramente relativo e parziale (Cass. pen., sez. V, n. 15245/2005, Nalesso, rv. 232158).

In una prospettiva siffatta, ai fini dell'integrazione del reato de quo non occorre che si realizzi un abbandono materiale assoluto e non è nemmeno necessaria una separazione "fisica" fra l'abbandonante e l'abbandonato, ma è sufficiente una "derelizione relativa", un'interruzione temporanea o finanche parziale della relazione di cura o custodia che lega l'autore del delitto al soggetto passivo, quando la vittima non risulti in grado di fronteggiare adeguatamente la necessità di assistenza, emergente dalla situazione concreta.

In definitiva l'“abbandono" per essere rilevante ai sensi dell'art. 591 c.p. richiede che il soggetto agente venga meno ad un preesistente obbligo di cura o custodia, la cui violazione costituisce l'essenza del reato in disamina.

Con riferimento all'elemento psicologico del reato, risulta del pari costante l'orientamento della giurisprudenza di legittimità che lo definisce in termini di dolo generico, consistente nella coscienza di abbandonare a se stesso il soggetto passivo, che non abbia la capacità di provvedere alle proprie esigenze, in una situazione di pericolo per la sua integrità fisica di cui si abbia l'esatta percezione, senza che occorra la sussistenza di un particolare malanimo da parte del reo (Cass. pen., sez. II, n. 10994/2012, dep. 2013, T. e altro, rv. 255173), potendo assumere, altresì, la forma del dolo eventuale (Cass. pen., sez. V, n. 44013/2017, Hmaidan e altri, rv. 271431).

In altri termini, ai fini della configurazione del dolo di fattispecie si richiede non solo la consapevolezza dell'obbligo giuridico di cura o di custodia verso il soggetto minore o incapace, ma altresì la coscienza del pericolo, creato con la propria condotta, per l'incolumità del soggetto passivo.

Osservazioni

I giudici di legittimità non si sono limitati a questa dotta ricostruzione dell'elemento oggettivo e soggettivo del reato collocando il concetto di abbandono ina prospettiva “di sistema”, ma l'hanno applicata alla valutazione della sentenza di merito impugnata sulla scorta delle doglienze difensive, così pervenendo ad una pronuncia di annullamento con rinvio. Hanno ritenuto invero che la sentenza impugnata presenta una inadeguata esposizione delle ragioni di fatto e di diritto per le quali è intervenuta la condanna dei ricorrenti per il reato loro ascritto.

I giudici di merito hanno ravvisato, a carico degli imputati, una responsabilità concorsuale in ordine al delitto, a matrice esclusivamente dolosa, di abbandono di persona incapace trattando in maniera identica le posizioni degli imputati, quando in realtà il principio costituzionale della responsabilità penale personale, avrebbe imposto - data la diversità delle situazioni (la coimputata non era presente quando si è verificata la caduta) - una attenta disamina ed una differenziazione in rapporto alla attualità del dovere di cura e custodia gravante su ciascuno degli imputati.

Fermo ciò, la maggiore carenza motivazionale è stata ravvisata in punto di elemento oggettivo dal momento che le dichiarazioni testimoniali acquisite si pongono in direzione opposta, rectius antitetica, rispetto alla asserita incapacità di deambulare della vittima, come puntualmente denunciato dalla Difesa.

La capacità della PO di deambulare, seppure con l'ausilio di un girello, emergente da tali dichiarazioni testimoniali è stata obliterata dalla Corte di assise di appello che non ha spiegato la ragione per la quale ha ritenuto prevalente la certificazione sanitaria, prima ricordata o comunque la ragione di tale evidente contrasto nelle risultanze probatorie.

Inoltre, da tali dichiarazioni, tuttavia, non emerge che la vittima fosse in "stato di abbandono", atteso che dalle dichiarazioni testimoniali suddette non è emerso che gli imputati, anche soltanto transitoriamente, siano venuti meno ai doveri di assistenza nei confronti della vittima, emergendo al contrario come la PO fosse sotto il loro costante monitoraggio.

In altri termini, le prove orali non pare confermino che gli imputati abbiano abbandonato per un arco di tempo significativo la PO, non garantendogli la dovuta assistenza, con l'evidente consapevolezza di esporlo ad un pericolo, sia pure potenziale, per la sua incolumità personale. Del resto, non appare controverso che la caduta sia avvenuta sotto la diretta sorveglianza di uno dei due coimputati, sicché la Corte non spiega esattamente in che cosa si sia tradotto l'abbandono della PO, disinteressandosi della sua sorte, non potendosi ravvisare in sé nella condotta imprudente tenuta dagli imputati, consentendo alla vittima di circolare con il girello su un terreno sconnesso- in assenza di ulteriori elementi -una situazione di abbandono della persona indifesa ed incapace di provvedere a sé stessa seppure relativa e parziale.

Le fonti probatorie orali prima richiamate non descrivono, ad avviso dei giudici di legittimità, una condotta materiale di "abbandono", tale da produrre una situazione di pericolo per l'incolumità del soggetto passivo, anzi evidenziano come gli imputati fossero costantemente presenti negli spostamenti della PO, non lasciandolo mai solo: la persona offesa non è uscita dal perimetro della sfera di vigilanza del custode.

La Corte di assise di appello non ha offerto alcuna indicazione della specifica connotazione dell'elemento oggettivo del reato, limitandosi ad affermare che l'incapacità a deambulare della PO (non pacifica delle complessive emergenze acquisite) aveva determinato un abbandono, con ciò senz'altro presumendo una situazione di pericolo, non verificata.

Quanto ai profili relativi alla mancata segnalazione ai competenti uffici regionali da parte degli imputati della presenza della PO ovvero della esistenza di fonti di pericolo per la

deambulazione nel cortile ove si è verificata la caduta, gli stessi neppure danno conto in sé di situazioni idonee ad integrare la nozione di "abbandono" di cui all'art. 591 c.p., dovendosi accertare in concreto se ne sia conseguito uno stato di pericolo.

Perplessità sorgono anche andando a considerare l'accertamento dell'elemento soggettivo. Il dolo viene dedotto essenzialmente dal progressivo peggioramento delle condizioni di salute, valutabili e percepibili in considerazione della convivenza presso l'abitazione degli imputati e, per altro verso, dal far circolare sul girello la PO per la necessità di riposare ovvero non ricevere sputi dalla vittima, circostanze che ponevano gli imputati in condizione di percepire il pericolo, nella sua concretezza e attualità.

Tuttavia, rimarcano i giudici di legittimità, è però sempre necessario che la condizione di pericolo sia frutto di una azione od omissione consapevole dell'imputato: nel delitto ex art. 591 c.p. il dolo esige non soltanto la volontà di privare dell'assistenza l'incapace, con la consapevolezza dello stato di incapacità, ma anche la rappresentazione di un pericolo anche solo potenziale per la vita e l'incolumità fisica dell'incapace, sicchè l'autore, persistendo nella sua condotta omissiva, accetta il rischio che l'evento si verifichi (Cass. pen., sez. V, n. 44013/2017, Rv. 271431 - 01). Il soggetto attivo deve, in altri termini, prevedere che la sua condotta determinerà una effettiva possibilità di danno per il minore o l'incapace.

La concreta situazione in cui si abbandona deve essere tale da far prevedere l'effettiva possibilità del verificarsi di un danno per la persona.

L'essenza del delitto in esame consiste nell'abbandono del minore o dell'altrimenti incapace, caratterizzato dalla volontà di sottrarsi esclusivamente ad un obbligo di cura o di custodia derivante dalla legge o da un particolare rapporto giuridico.

Tuttavia, gli elementi probatori, prima richiamati, descrivono in modo contraddittorio lo stato di abbandono, nei termini di cessazione della relazione di cura o di assistenza tra l'agente ed il soggetto passivo, con la conseguente consapevolezza dell'abbandono.

Anzi, le inadempienze contestate agli imputati – si legge nella sentenza in commento - potrebbero piuttosto riferirsi ad un'ipotesi colposa (assenza di mezzi, di personale medico ed infermieristico, nonché l'assenza di autorizzazioni amministrative per la presa in carico di soggetti non autosufficienti, la inidoneità dei locali, per la presenza di scale e di violazioni urbanistiche).

In altri termini, viene in rilievo un deficit organizzativo, sostanziantesi in assenza di controlli, di prescrizioni di sicurezza, di interventi alle strutture, da valutare unitamente al tema dell'omessa ponderata valutazione tra l'accettazione dell'anziano o il rifiuto di accoglierlo.

La sentenza impugnata è stata dunque annullata con rinvio dovendo il giudice di merito verificare -alla luce dei principi di legittimità esposti e di tutti gli elementi probatori acquisiti da leggere complessivamente- se la PO versasse al momento dei fatti in "stato di abbandono" sotto il profilo oggettivo e se gli imputati abbiano agito nella consapevolezza dell'esistenza di un pericolo anche solo potenziale per la vita e l'incolumità fisica della vittima accettando il rischio del verificarsi dell'evento e non piuttosto con imprudenza o negligenza.

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