Malpractice medica: rivalsa e regresso tra responsabilità civile e responsabilità amministrativa

Pasquale Mautone
04 Settembre 2024

Il presente commento delinea e indaga la differenza tra azione di rivalsa e azione di regresso in ambito di responsabilità civile e responsabilità amministrativa, azioni autonome e distinte connesse ad ipotesi di malpractice medica.

L'azione di rivalsa

L'azione di rivalsa, prevista dall'art. 9 l. n. 24/2017, è la facoltà data alla struttura sanitaria o sociosanitaria privata di rivalersi sul sanitario che ha causato un danno al paziente.

Questo può avvenire solo se il professionista ha agito con dolo o colpa grave; non è ammessa, invece, in caso di colpa lieve.

Infatti, laddove le strutture non forniscano la prova di responsabilità grave del medico, ed anche straordinaria, soggettivamente imprevedibile e oggettivamente improbabile, i danni per malpractice riconoscibili ai pazienti dovranno essere ripartiti al 50% (in misura paritaria).

La rivalsa, tradizionalmente ricondotta all'istituto del regresso tra condebitori solidali di cui all'art. 2055 c.c., «presuppone che l'obbligazione gravante su un soggetto possa essere trasferita ad un terzo tenuto, per legge o per contratto, a rivalere il soccombente di quanto egli sia tenuto a pagare al creditore», mentre nel rapporto tra condebitori solidali cui è imputato il medesimo danno «ciascuno è obbligato nei confronti del danneggiato per l'intero, salva l'azione di regresso di colui che abbia corrisposto l'intero credito nella misura determinata dalla gravità delle rispettive colpe e dalle conseguenze da esse derivanti».

È stato osservato che, a prescindere dal nomen utilizzato spesso in giurisprudenza (regresso) o da quello previsto nella l. n. 24/2017 (rivalsa), è certo che la struttura sanitaria, che abbia risarcito integralmente il paziente in forza del suo obbligo, sia per fatto proprio sia per fatto del suo ausiliario, avrà poi diritto di recuperare dal medico suo collaboratore l'intero risarcimento pagato, in caso di colpa esclusiva del medico, o parte di esso, in proporzione alla misura della diversa attribuzione di responsabilità a quello e a se stessa (cfr.: MANDRIOLI E., La diversa natura della responsabilità sanitaria: della struttura e del medico, in IUS Responsabilità civile).

Più precisamente, si afferma che si ha “regresso” ogni qual volta si agisca nei confronti di quel soggetto che è già parte del “sinallagma”, mentre si ha “rivalsa” ogni qual volta si agisca nei confronti di quel soggetto che non è già parte del “sinallagma” (Cfr.: MAUTONE P., Responsabilità Sanitaria e Risk Management, L'azione di rivalsa della struttura sanitaria e di responsabilità amministrativa nei confronti dell'esercente la professione sanitaria. La sentenza di “San Martino 2019” per danni da malpractice medica anteriore alla Legge Gelli-Bianco e l'azione di rivalsa/regresso delle strutture nei confronti degli esercenti la professione sanitaria - Cass. civ., sez. III, 11.11.2019, n. 28987, pp. 462 e ss., Giuffrè Francis Lefebvre, 2020).

L'art. 9 della l. n. 24/2017 stabilisce che, se l'esercente la professione sanitaria (legittimato passivo) «non è stato parte del giudizio o della procedura stragiudiziale di risarcimento del danno», il giudizio nei confronti di questi potrà essere promosso solo dopo il risarcimento in favore del danneggiato, sulla base di un titolo giudiziale o stragiudiziale, e comunque entro un anno dall'avvenuto pagamento.

Si tratta di un doppio regime delimitativo dell'azione sotto il profilo cronologico, poiché, da un lato, l'azione potrà essere esercitata solo successivamente all'avvenuto pagamento del danno, sia esso avvenuto per titolo giudiziale o stragiudiziale; dall'altro lato, una volta determinato tale dies a quo, l'azione dovrà essere esercitata, a pena di decadenza, entro un anno da tale pagamento.

Inoltre, l'art. 9, comma 3 l. n. 24/2017, precisa che la decisione resa nel giudizio promosso contro la struttura sanitaria o socio sanitaria o contro l'impresa di assicurazione «non fa stato ... se l'esercente la professione sanitaria non è stato parte del giudizio», ma il giudice può desumere argomenti di prova dalle prove assunte nel giudizio instaurato dal danneggiato se l'esercente la professione sanitaria ne è stato parte e che la transazione, conclusa tra struttura sanitaria o impresa di assicurazione e soggetto danneggiato, non è mai opponibile al professionista (ex art. 9, comma 4 l. n. 24/2017).

Inoltre, la disposizione richiamata introduce un limite al quantum della rivalsa nel caso in cui sia accertato che il sanitario abbia agito con colpa grave.

Tale limite corrisponde, per singolo evento lesivo, alla «somma pari al valore maggiore del reddito professionale, ivi compresa la retribuzione lorda, conseguito nell'anno di inizio della condotta causa dell'evento o nell'anno immediatamente precedente o successivo, moltiplicato per il triplo». Tale limite quantitativo va inteso come il triplo «del valore maggiore del reddito professionale, ivi compresa la retribuzione lorda, conseguito nell'anno di inizio della condotta causa dell'evento o nell'anno immediatamente precedente o successivo».

Pertanto, la limitazione ex art. 9, comma 6, l. n. 24/2017 è esclusa per la quantificazione della rivalsa nei confronti degli esercenti la professione sanitaria che hanno svolto l'attività all'interno della struttura sanitaria in regime libero-professionale e per coloro i quali si sono avvalsi della struttura sanitaria nell'adempimento di una propria obbligazione contrattuale con il paziente, oltre che nei confronti di chi abbia agito con dolo, a prescindere dal tipo di rapporto intercorrente con la struttura sanitaria.

D'altronde, la ratio della disciplina è sempre stata quella di favorire la posizione del sanitario circa l'azione di rivalsa esperibile nei suoi confronti, cercando di delimitare una pratica recuperatoria delle somme erogate a ristoro dei danni sanitari, che costituiva uno strumento di distribuzione del carico finanziario delle conseguenze di danno generate in ambito sanitario, ma anche un appesantimento della posizione del clinico mal tollerata dalla categoria. Ciò sia dal punto di vista della delimitazione della esposizione pubblica verso l'erario sia per quella di contenuto privato, e che attiene alla azione svolta da aziende non pubbliche o da assicuratori ex art. 1916 c.c.

Alla luce di quanto sopra evidenziato, è opportuno precisare che la giurisprudenza, ormai costante, afferma che «in tema di responsabilità medica, nel regime anteriore alla legge n. 24 del 2017, la responsabilità della struttura sanitaria integra, ai sensi dell'art.1228 c.c., una fattispecie di responsabilità diretta per fatto proprio, fondata sull'elemento soggettivo dell'ausiliario, la quale trova fondamento nell'assunzione del rischio per i danni che al creditore possono derivare dall'utilizzazione di terzi nell'adempimento della propria obbligazione contrattuale, e che deve essere distinta dalla responsabilità indiretta per fatto altrui, di natura oggettiva, in base alla quale l'imprenditore risponde, per i fatti dei propri dipendenti, a norma dell'art. 2049 c.c.

Pertanto, nel rapporto interno tra la struttura e il medico, la responsabilità per i danni cagionati da colpa esclusiva di quest'ultimo deve essere ripartita in misura paritaria secondo il criterio presuntivo degli art. 1298, comma 2 c.c. e art. 2055, comma 3, c.c., atteso che, diversamente opinando, la concessione di un diritto di regresso integrale ridurrebbe il rischio di impresa, assunto dalla struttura, al solo rischio di insolvibilità del medico convenuto con l'azione di rivalsa, e salvo che, nel relativo giudizio, la struttura dimostri, oltre alla colpa esclusiva del medico rispetto allo specifico evento di danno sofferto dal paziente, da un lato, la derivazione causale di quell'evento da una condotta del sanitario del tutto dissonante rispetto al piano dell'ordinaria prestazione dei servizi di spedalità e, dall'altro, l'evidenza di un difetto di correlate trascuratezze, da parte sua, nell'adempimento del relativo contratto, comprensive di omissioni di controlli atti ad evitare rischi dei propri incaricati» (Cass. civ, sez. III, 20 ottobre 2021, n. 29001, proprio in tema di responsabilità medica che, come si evince, ribadisce che, nel rapporto interno tra la struttura e il medico, la responsabilità per colpa esclusiva di quest'ultimo va ripartita in misura paritaria).

Invero, nel regime anteriore alla l. n. 24 del 2017, nel rapporto interno tra la struttura sanitaria e il medico, la responsabilità per i danni cagionati da colpa esclusiva di quest'ultimo doveva essere ripartita in misura paritaria sulla concezione che la struttura accetta il rischio derivante dall'adempimento di terzi della propria obbligazione contrattuale, salvo che non provi una condotta del tutto imprevedibile e oggettivamente improbabile del sanitario dal programma condiviso di tutela della salute che è oggetto dell'obbligazione.

Non basta, quindi, ritenere che l'inadempimento sia ascrivibile alla condotta del medico, ma occorre considerare il titolo in virtù del quale la struttura risponde del proprio operato.

Dunque, per escludere del tutto una quota di rivalsa, la struttura dovrà dimostrare non soltanto la colpa esclusiva del medico rispetto allo specifico evento di danno, ma anche che il processo causale che ha condotto a quel determinato evento dannoso sia oggettivamente discordante rispetto all'ordinario svolgimento della prestazione sanitaria dovuta.

Per superare, invece, la presunzione di parità delle quote, ferma l'impossibilità di comprimere del tutto quella della struttura - tranne, come appena detto, nel caso in cui si voglia del tutto escludere la quota di rivalsa - è necessario dimostrare che, alla colpa del medico, si affianchi l'evidenza di un difetto nell'adempimento del contratto di spedalità da parte della struttura circa i controlli atti volte ad evitare i rischi dei propri addetti (sul punto, si veda la sentenza del 27 gennaio 2022 del Tribunale di Arezzo, il quale si è pronunciato sulla responsabilità contrattuale della struttura sanitaria e del medico operante nel regime anteriore alla l. n. 24/2017, nonché della operatività dell'azione di rivalsa; in particolare, il Tribunale ha affermato che per individuare i limiti quantitativi per l'esperibilità dell'azione di rivalsa, il danno deve essere ripartito tra struttura ed esercente la professione sanitaria anche nel caso in cui la colpa sia esclusivamente di quest'ultimo, salvo caso eccezionali).

A tal proposito, la sentenza Cass. civ., sez. III, 26 aprile 2022, n. 12965, oltre a ribadire che, sempre con riferimento al regime normativo precedente alla l. n. 24/2017, la responsabilità della struttura sanitaria, ai sensi dell'art. 1228 c.c., era diretta per fatto proprio, ha chiarito che tale responsabilità deve essere tenuta necessariamente distinta da quella indiretta per fatto altrui di natura oggettiva. Infatti, in tal caso, l'imprenditore risponde per i fatti dei propri dipendenti, ai sensi dell'art. 2049 c.c. 

Conseguentemente, è possibile ritenere che, nel rapporto interno tra la struttura e il medico, la responsabilità per i danni causati da quest'ultimo debba essere ripartita, in genere in misura paritaria, in base al criterio presuntivo di cui all'art. 1298, comma 2 c.c. e art. 2055, comma 3 c.c..

Diversamente opinando, l'attribuzione di un diritto di regresso o rivalsa integrale ridurrebbe il rischio d'impresa della struttura solo al caso di insolvibilità del medico convenuto «in ipotesi, con l'azione di rivalsa, distinta, quest'ultima, da quella propriamente di regresso che presuppone la nascita di un'obbligazione, avente il medesimo titolo, in capo ai condebitori solidali a seguito dell'integrale adempimento dell'obbligazione originaria da parte di uno di essi», salvo che la struttura dimostri «un'eccezionale, inescusabilmente grave ma altresì del tutto imprevedibile, e oggettivamente improbabile, devianza del sanitario dal programma condiviso di tutela della salute che è oggetto dell'obbligazione (nel qual caso, logicamente, ne può e deve rispondere solo lo stesso)» (In tal senso: Cass. civ., sez. III, 26 aprile 2022, n. 12965).

Quindi, attraverso l'azione di rivalsa il danneggiato può agire verso la struttura e/o il sanitario, ex art. 7 l. n. 24/2017, oppure direttamente verso la società di assicurazione ex art. 12.

L'azione di responsabilità amministrativa nei confronti del sanitario esercitata dal pubblico ministero presso la Corte dei Conti

In realtà, la natura dell'azione di rivalsa non è solo civile, ma anche amministrativa, sempre in caso di dolo o colpa grave, mentre è esclusa in caso di colpa lieve.

Più precisamente, l'azione di responsabilità amministrativa per dolo o colpa grave nei confronti del sanitario è esercitata dal pubblico ministero presso la Corte dei Conti.

Quindi, da un lato, nei casi di colpa grave, c'è una responsabilità tipicamente amministrativa, che tiene conto di tutte quelle circostanze di particolare difficoltà, anche di natura organizzativa, della struttura sanitaria o sociosanitaria pubblica, in cui il sanitario ha operato.

In ogni caso, è prevista la surroga da parte della struttura, ex art. 1916 c.c., verso il professionista, ove l'importo della condanna per la responsabilità amministrativa e della surrogazione di cui all'art. 1916, comma 1 c.c., per singolo evento, non può superare una somma pari al valore maggiore della retribuzione lorda o del corrispettivo convenzionale conseguiti nell'anno di inizio della condotta causa dell'evento o nell'anno immediatamente precedente o successivo, moltiplicato per il triplo.

È previsto, altresì, anche un blocco della carriera per tre anni nei confronti del professionista che abbia posto in essere la condotta pregiudizievole.

Dall'altro lato, invece, si distingue una responsabilità tipicamente civile, in cui la misura della rivalsa e quella della surrogazione richiesta dall'impresa di assicurazione ai sensi dell'art. 1916, comma 1 c.c., per singolo evento, in caso di colpa grave, non possono superare una somma pari al valore maggiore del reddito professionale, compresa la retribuzione lorda, conseguito nell'anno di inizio della condotta causa dell'evento o nell'anno immediatamente precedente o successivo, moltiplicato per il triplo.

È evidente che tali limitazioni inerenti al quantum debeatur dell'esercente la professione sanitaria non valgono per il professionista che svolga la propria attività al di fuori delle strutture pubbliche o che, comunque, presti la sua opera all'interno della stessa in regime libero-professionale o, ancora, che si avvalga della stessa nell'adempimento della propria obbligazione contrattuale assunta con il paziente.

Inoltre, si precisa che, per i tre anni successivi al passaggio in giudicato della decisione di accoglimento della domanda di risarcimento proposta dal danneggiato, al sanitario dipendente presso una struttura sanitaria o sociosanitaria pubblica è preclusa la possibilità di essere preposto ad incarichi professionali superiori rispetto a quelli ricoperti e il giudicato costituisce oggetto di specifica valutazione da parte dei commissari nei pubblici concorsi per incarichi superiori.

L'art. 9, comma 5, l. n. 24/2017, richiama la normativa con riguardo all'azione conseguente ad un danno erariale conclamato.

Infatti, sia l'azione disciplinata dall'art. 9, comma 5 (a seguito di pagamento avvenuto su azione promossa contro la struttura pubblica) sia l'ipotesi prevista dall'art. 9, comma 6 (in caso di azione contro l'azienda privata), attengono alla massima esposizione finanziaria che si potrà imporre al soggetto passivo dell'azione stessa e che consiste nel triplo della retribuzione lorda annua o del corrispettivo convenzionale conseguiti e prossimali all'esercizio ove si verificò l'evento di danno.

L'art. 9, comma 5 prevede, in particolare, per quanto concerne la struttura sanitaria o sociosanitaria pubblica, che il giudizio di responsabilità amministrativa, nei confronti dell'esercente la professione sanitaria, è nel dominio della Corte dei Conti.

Si arriva a tale conclusione a seguito di un percorso parlamentare articolato, permeato da critiche e da diversi cambiamenti di rotta, l'opzione per l'affidamento dell'azione di responsabilità amministrativa al pubblico ministero presso la Corte dei Conti piuttosto che all'iniziativa del rappresentante la struttura pubblica in ambito di rivalsa davanti al giudice ordinario. In quest'ultimo caso ha eliminato le criticità a valenza “gestionale” correlate ad una tale prospettiva, ovvero alla conservazione dell'azione di rivalsa intentata, in loco, da parte della struttura verso un proprio professionista (onere presidiato da responsabilità erariale a carico del responsabile della struttura nel caso di mancata attivazione) che avrebbe innestato forte conflittualità tra management aziendale e professionista (Cfr. FIORE A., Sicurezza delle cure e responsabilità sanitaria, in Quotidiano Sanità Edizioni 2017. pp. 129 e ss.).

La responsabilità amministrativa è, dunque, un apparato di norme distinto e autonomo rispetto al sistema della responsabilità civile e della giurisdizione ordinaria, sia dal punto di vista sostanziale che procedurale.

L'azione per la responsabilità amministrativa è volta all'accertamento della responsabilità degli amministratori e dipendenti pubblici per danno erariale in base all'art. 28 Cost., che prevede la responsabilità di funzionari e i dipendenti dello Stato o degli Enti pubblici per gli atti compiuti in violazione dei diritti, ed è caratterizzata dall'affidamento esclusivo della materia alla Corte dei Conti, giudice diverso da quello ordinario.

Quindi, l'esclusività del potere di “azione” è affidata, non al “rappresentante legale” dell'amministrazione danneggiata bensì, per ragioni di imparzialità, ad un organo terzo costituito dalla Procura presso la stessa Corte dei Conti.

La particolarità della responsabilità amministrativa risiede nella determinazione dell'entità del risarcimento, in termini di graduazione dell'entità del danno, tramite l'uso del cd. “potere riduttivo” da parte del giudice contabile, escluso nel caso di azione davanti al giudice civile.

In relazione al cd. “potere riduttivo” sono stati stabiliti tetti massimi alla misura delle condanne, rispettivamente al comma 5 e al comma 6 del citato art. 9, con limitazione della responsabilità amministrativa al dolo e alla colpa grave, a differenza del sistema risarcitorio esteso anche alla colpa lieve.

Conseguentemente, risponde di responsabilità amministrativa per danno erariale il medico o altro esercente la professione sanitaria che, con dolo o colpa grave, abbia commesso un fatto illecito nell'ambito del rapporto d'impiego o di servizio con l'amministrazione pubblica sanitaria, cagionando nocumento patrimoniale (si veda, in particolare, l'art. 21 sulla responsabilità erariale della l. n. 120/2020, conv. d.l. n. 76/2020, il quale prevede che: «1. L'art. 1 comma 1, della legge 14 gennaio 1994, n. 20, dopo il primo periodo è inserito il seguente: “La prova del dolo richiede la dimostrazione della volontà dell'evento dannoso.”. 2. Limitatamente ai fatti commessi dalla data di entrata in vigore del presente decreto e fino al 30 giugno 2023, la responsabilità dei soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti in materia di contabilità pubblica per l'azione di responsabilità di cui all'articolo 1 della legge 14 gennaio 1994, n. 20, è limitata ai casi in cui la produzione del danno conseguente alla condotta del soggetto agente è da lui dolosamente voluta. La limitazione di responsabilità prevista dal primo periodo non si applica per i danni cagionati da omissione o inerzia del soggetto agente. (termine differito dall'art. 51, comma 1, lettera h), legge n. 108 del 2021)». Trattandosi di una previsione di carattere generale, non v'è dubbio che la stessa riguardi anche il personale sanitario, in relazione al quale le fattispecie di danno indiretto caratterizzate dall'elemento soggettivo in questione assumono natura eccezionale. Essa pone, innanzitutto, un problema di diritto intertemporale, la cui soluzione dipende dall'interpretazione del termine «fatti commessi». Si tratta cioè di comprendere se il concetto di fatto debba intendersi come limitato alla condotta ovvero, secondo quanto ha ritenuto la giurisprudenza in relazione a disposizioni che contengono espressioni analoghe, come comprensivo di tutti gli elementi costitutivi delle fattispecie di responsabilità, incluso il danno. Quest'ultimo - è il caso di osservare - può verificarsi, specialmente nell'ipotesi di danno indiretto, anche a distanza di molti anni dal comportamento illecito).

Il presupposto dell'illecito erariale e, quindi, l'interesse e la legittimazione ad agire, è l'esborso di denaro da parte della struttura sanitaria, in esecuzione di un precedente titolo giudiziale (sentenza di condanna) o stragiudiziale (esito di mediazione finanziariamente impegnativa per l'amministrazione verso la parte danneggiata), ivi compresa la transazione, nonché di altro titolo, collegato a fatti che prospettano ipotesi di responsabilità per colpa grave o dolo da parte del medico dipendente o comunque in servizio.

Il giudizio dinanzi alla Corte dei Conti è volto all'accertamento e alla valutazione di una distinta responsabilità per illecito amministrativo, autonomo rispetto ai presupposti previsti per l'illecito civilistico su cui ha statuito la preliminare sentenza del giudice ordinario verso l'amministrazione.

Difatti, la sentenza civile - o il titolo stragiudiziale - non fa stato nell'autonomo giudizio di rivalsa attivato presso la Corte dei Conti poiché il titolo, pur essendo il presupposto della stessa azione erariale, non esplica efficacia vincolante nel processo erariale, anche quando nel giudizio civile ha partecipato lo stesso dipendente.

L'esistenza di un eventuale danno erariale non si determina automaticamente, in quanto il giudice contabile dispone di autonomo potere di valutazione circa l'attribuibilità (del danno) al dipendente chiamato in causa a titolo di colpa grave.

In ogni caso, il giudice può comunque utilizzare il materiale probatorio del processo civile per il proprio autonomo convincimento circa la decisione da intraprendere.

Termini prescrizionali dell'azione di responsabilità erariale

Altro delicato profilo dell'azione erariale concerne la decorrenza dei termini prescrizionali entro cui chiedere il risarcimento.

È importante rilevare l'esatta decorrenza della prescrizione, non solo per il dipendente della struttura sanitaria o sociosanitaria, ma anche per gli stessi amministratori, per quanto riguarda la responsabilità in caso di maturazione della prescrizione a causa di omissione o ritardo della denuncia loro attribuibile (sul punto, l'art. 1 della l. n. 20/1994 e s.m.i., in tema di prescrizione, prevede che «il diritto al risarcimento del danno si prescrive in ogni caso in cinque anni, decorrenti dalla data in cui si è verificato il fatto dannoso, ovvero, in caso di occultamento doloso del danno, dalla data della sua scoperta» - comma 2, articolo 1. Inoltre prevede che «qualora la prescrizione del diritto al risarcimento sia maturata a causa di omissione o ritardo della denuncia del fatto, rispondono del danno erariale i soggetti che hanno omesso o ritardato la denuncia. In tali casi, l'azione è proponibile entro cinque anni dalla data in cui la prescrizione è maturata» - comma 3, articolo 1).

In merito alla prescrizione del danno erariale indiretto, che presuppone la preesistente condanna dell'amministrazione a ristorare il danneggiato, sono riscontrabili diversi orientamenti della giurisprudenza.

In particolare, secondo un primo orientamento della giurisprudenza contabile, il momento della consumazione del danno erariale indiretto, con decorrenza della prescrizione da detta data e contestuale consolidamento dell'interesse all'azione erariale, sarebbe esclusivamente nel momento del pagamento dell'amministrazione, ancorché basato su sentenza non ancora definitiva, indipendentemente cioè dal suo passaggio in giudicato. Tale orientamento fa leva sull'autonomia ed indipendenza del giudizio erariale rispetto al giudizio di condanna sottostante (Corte dei Conti, Sez. Riun. n. 14/2011/QM: «il dies a quo della prescrizione dell'azione di responsabilità per il risarcimento del danno c.d. indiretto va individuato nella data di emissione del titolo di pagamento al terzo danneggiato»).

Da altro angolo visuale, un differente e opposto orientamento sostiene quale condizione necessaria e sufficiente agli effetti della consumazione del danno erariale e della decorrenza della prescrizione la rilevanza del solo passaggio in giudicato della sottostante sentenza, non considerando rilevante l'effettività del pagamento (Corte dei Conti, Sez. Riun. n. 3/2003/QM: «...in ipotesi di danno c.d. indiretto l'esordio della prescrizione del diritto dell'Amministrazione al risarcimento del danno va fissato alla data in cui il debito della P.A. nei confronti del terzo è divenuto certo, liquido ed esigibile in conseguenza del passaggio in giudicato della sentenza di condanna dell'Amministrazione o dalla esecutività della transazione»).

Ancora, una terza opinione imporrebbe la contestuale presenza delle due condizioni, quella dell'effettuazione da parte dell'amministrazione dell'esborso unitamente alla formazione del giudicato del correlato titolo giudiziale, dando carattere di certezza, effettività ed attualità al danno erariale indiretto e all'interesse sotteso al giudizio di rivalsa in ambito pubblico (AA.VV., L'azione di rivalsa e la responsabilità amministrativa del medico per danno erariale indiretto in Riv. it. medicina legale, fasc. 3, 2012, 945).

Di recente, si è posto il problema circa la configurabilità del risarcimento del danno erariale per il direttore generale e l'avvocato dell'Ausl, in caso di mancato raggiungimento di accordo transattivo.

Il caso di specie preso in esame dalla Corte dei Conti dell'Umbria, ove l'Azienda Sanitaria era convenuta in giudizio dinanzi alla Sezione Lavoro del Tribunale di Perugia da quindici dipendenti per il riconoscimento della retribuzione dovuta in relazione al tempo necessario a ciascun lavoratore per indossare la tenuta da lavoro. Durante il procedimento, l'avvocato dell'Ausl formulava una proposta transattiva, ritirata poi alla successiva udienza, nonostante al contempo era stata depositata l'accettazione da parte dei ricorrenti (Corte Conti Umbria, sez. reg. giurisd., 25 febbraio 2022, n. 9, di cui si riporta la massima: «Il danno risarcibile va identificato nel differenziale tra il costo che l'ente ha dovuto sostenere a seguito della soccombenza e quanto avrebbe potuto essere pattuito per definire la controversia in via bonaria. Questo ammontare rappresenta, dunque, il danno ingiusto e quindi risarcibile all'amministrazione, posto che si rileva irragionevole la mancata adesione alla soluzione transattiva, conveniente per l'Ausl e condivisa tra le parti»).

Il Tribunale di Perugia, con sentenza 19 maggio 2017, n. 200, accoglieva le domande dei ricorrenti e condannava parte resistente al pagamento di € 117.954,44.

Successivamente, la Procura regionale umbra, venuta a conoscenza dell'esito sfavorevole del giudizio per l'amministrazione, avviava un'azione di responsabilità nei confronti dei dirigenti e del legale dell'azienda.

La soluzione prospettata dalla Corte Conti Umbria, sez. reg. giurisd., 25 febbraio 2022, n. 9 è stata quella di rimarcare «…come sia sindacabile una transazione ove irragionevole, altamente diseconomica o contraria ai fini istituzionali (cfr. ex multis Corte dei conti, Sez. giur. Lombardia, 31 luglio 2016, n. 127; Sez. giur. Campania, 29 febbraio 2012, n. 250; Sez. giur. Abruzzo, 5 gennaio 2012, n. 1)».

Il medesimo principio trova applicazione nella fattispecie qui in esame nel senso che, così come è sindacabile la scelta di addivenire ad una transazione palesemente svantaggiosa per l'amministrazione, altrettanto sindacabile è la scelta di non concludere una transazione palesemente vantaggiosa, in applicazione dell'ancor più generale principio in base al quale il limite all'insindacabilità delle scelte discrezionali della Pubblica Amministrazione risiede nella «esigenza di accertare che l'attività svolta si sia ispirata a criteri di ragionevole proporzionalità tra costi e benefici (Corte dei Conti, sez. III, 9 luglio 2019, n. 132 e 30 luglio 2019, n. 147; sez. II, sent. 13 febbraio 2017, n. 91). ... Quanto al legale, la circostanza di aver dato notizia ai vertici aziendali della convenienza dell'ipotesi transattiva non può da sola escludere l'illiceità della condotta del convenuto, in relazione alle funzioni esercitate ed al grado di diligenza e di perizia che esse avrebbero richiesto né tantomeno il nesso causale che lega tale condotta alla mancata definizione dell'accordo transattivo. Gli obblighi afferenti al rapporto di servizio dell'avvocato dirigente avrebbero dovuto, infatti, opportunamente suggerirgli di attivarsi con maggior premura, se del caso sollecitando ulteriormente i vertici aziendali, cosa di cui non vi è prova in atti; la formalizzazione di una mera comunicazione, la quale sembra abbia avuto essenzialmente lo scopo di precostituire una circostanza da voler utilizzare a propria discolpa, non può infatti ritenersi sufficiente né adeguata. ... Viene sostanzialmente in rilievo una fattispecie nella quale i dirigenti dell'amministrazione sembrano essersi per tutto il tempo maggiormente premuniti di addossare la responsabilità l'uno all'altro, piuttosto che di tutelare le ragioni dell'ente di appartenenza; pertanto le condotte di entrambi, causative del danno così determinato, risultano caratterizzate da colpa grave, sotto forma di negligenza ed imperizia, sebbene l'apporto causale al manifestarsi del danno deve ritenersi maggiore nel caso del direttore generale, per le ragioni esposte».

Tale pronuncia è importante per comprendere le difficili dinamiche concernenti i sinistri in ambito sanitario.

Innanzitutto, è noto che al momento dell'arrivo di una denuncia di sinistro, le strutture sanitarie pubbliche provvedono ad aprire la pratica e a protocollarla, invitando il danneggiato alla sottoscrizione di moduli privacy.

Allo stesso tempo, la denuncia di sinistro viene notificata ai dipendenti coinvolti della vicenda ai fini dell'azione di rivalsa. Tuttavia, nonostante la celerità di tali adempimenti preliminari, non è sempre agevole comprendere le tempistiche di un eventuale procedimento, sia giudiziale che stragiudiziale.

In linea di principio, raro è il caso in cui le aziende sanitarie partecipino o concludano in via transattiva l'intera vicenda, ex art. 8 l. 24/2017.

Sarebbe auspicabile una organizzazione interna tale da gestire i sinistri in maniera attiva ed efficiente, sia rispetto ai principi conformi a qualsivoglia pubblica amministrazione (buon andamento ed efficienza della P.A.), sia per evitare problematiche che potrebbero sorgere dalla cattiva gestione di tutto il procedimento all'apertura del sinistro (ritardi valutabili ai fini di una eventuale responsabilità aggravata in giudizio).

Una corretta gestione, dunque, deve potersi qualificare come «buona amministrazione del patrimonio», da intendersi quale «ragionevole, economica e coerente con le finalità istituzionali» (volendo utilizzare le parole della stessa Corte umbra).

Inoltre, la normativa vigente (l. n. 120/2020, conv. d.l. n. 76/2020, nonché l. n. 108 del 2021), agevola l'attività dei comitati valutazione sinistri (C.V.S., ove presenti nelle strutture sanitarie), in quanto espone facilmente a responsabilità amministrativa per omissione o inerzia nella definizione stragiudiziale di un sinistro, piuttosto che per una errata gestione (sul punto, si veda C. Conti Sez. Giur. Reg. Trentino Alto Adige, Bolzano, 17.12.2012, in www. cortedeiconti.it, in cui è stata presa in esame la gestione stragiudiziale del contenzioso. Il responsabile amministrativo aveva autorizzato un accordo transattivo ed era stato chiamato a rispondere in sede amministrativo - contabile per un presunto errore di gestione assicurativa - errata valutazione delle franchigie. Assolto in primo grado, nella decisione di appello si è valutato anche il rischio che la mancata transazione avrebbe potuto provocare sull'esito del giudizio. Vedasi sentenza CDC Umbria n. 9/2022 con condanna di dirigente avvocato e D. G. dell'Ente per mancata transazione).

Ed ancora, le compagnie di assicurazione raramente partecipano ai procedimenti di mediazione, sottraendosi al potere discrezionale di corretto e ragionevole impiego del denaro pubblico, coerente con le finalità di efficienza e di economicità richieste dall'ordinamento istituzionale.

«Altrettanto sindacabile è la scelta di non concludere una transazione palesemente vantaggiosa, in applicazione dell'ancor più generale principio in base al quale il limite all'insindacabilità delle scelte discrezionali della Pubblica Amministrazione risiede nella “esigenza di accertare che l'attività svolta si sia ispirata a criteri di ragionevole proporzionalità tra costi e benefici”» (Corte dei Conti, sez. III, 9 luglio 2019, n. 132 e 30 luglio 2019, n. 147; sez. II, sent. 13 febbraio 2017, n. 91).

Appare, dunque, necessario che tutti i soggetti implicati nel processo decisionale, a prescindere dal raggiungimento o meno di un ragionevole accordo, siano dotati di specifica competenza e che procedano ad analisi tempestive, esprimendo pareri motivati ed assumendo decisioni improntate a ragionevolezza, economia e coerenza con le finalità istituzionali, al fine di garantire una esenzione da responsabilità per danno erariale.

I dirigenti sanitari, dunque, rispondono, oltre che in sede civile e penale, anche in sede erariale, dirigenziale e disciplinare.

Allo stesso modo anche i legali interni o esterni all'azienda sanitaria rispondono in via amministrativa.

Tuttavia, allo stato, non si esclude che possano essere sottoposti a tale tipo di responsabilità anche i medici legali, specialisti, periti e liquidatori, ovvero tutti quei soggetti che partecipano alla definizione della controversia in ambito di sinistro sanitario.

Ci si chiede, quindi, se le due tipologie di responsabilità, quella civile di rivalsa e quella amministrativa, possano coesistere tra loro.

La Suprema Corte ha statuito che «l'azione di responsabilità contabile nei confronti dei sanitari dipendenti di un'azienda sanitaria non è sostitutiva delle ordinarie azioni civilistiche di responsabilità nei rapporti tra amministrazione e soggetti danneggiati, sicché, quando sia proposta da una azienda sanitaria domanda di manleva nei confronti dei propri medici, non sorge una questione di riparto tra giudice ordinario e contabile, attesa l'autonomia e non coincidenza delle due giurisdizioni. Se l'azione di responsabilità per danno erariale tutela l'interesse pubblico generale al buon andamento della p.a., quella di responsabilità civile proposta dalla singola amministrazione tende infatti al pieno ristoro del danno, con funzione riparatoria e compensativa» (nel caso di specie, le Sezioni Unite, con la sentenza Cass. civ., sez. un.,12 ottobre 2020 n. 21992, hanno cassato la decisione della Corte d'appello, che non avrebbe potuto affermare il difetto di giurisdizione ordinaria in favore di quella contabile, ma avrebbe dovuto accertare la fondatezza o meno dell'autonoma domanda di manleva proposta dall'Azienda Ospedaliera nei confronti del proprio sanitario).

Nel caso esaminato dalle Sezioni Unite, un'Azienda Ospedaliera ricorreva per cassazione lamentando la violazione degli art. 52 r.d. n. 1214/1934 e art. 103 Cost., in quanto la Corte d'Appello di Roma aveva rigettato la domanda di manleva svolta dalla Azienda Ospedaliera nei confronti di un suo medico dipendente in relazione al risarcimento di danni da responsabilità medica.

In primo grado, il Tribunale aveva accolto la domanda dell'Azienda Ospedaliera nei confronti del suo medico dipendente condannandolo a rifondere in via di regresso l'Azienda Ospedaliera di quanto corrisposto ai danneggiati.

Al contrario, la Corte d'Appello aveva accolto il gravame proposto dal chirurgo, dichiarando il difetto di giurisdizione del giudice ordinario in favore della Corte dei Conti, richiamando la sentenza Cass. civ., sez. un., 4 dicembre 2001, n. 15288, che affermava l'esclusività della giurisdizione contabile per le azioni di responsabilità nei confronti dei dipendenti.

Sulla scorta di questo orientamento, la Corte d'Appello aveva ritenuto, quindi, che competesse alla giurisdizione della Corte dei Conti la controversia avente ad oggetto l'azione di rivalsa esercitata da un ente ospedaliero pubblico nei confronti del proprio dipendente a seguito di condanna dell'ente ospedaliero al risarcimento del danno subito da un assistito per fatto colposo imputabile proprio a quel dipendente. Ciò posto, ci si chiedeva se l'azione esperita dalla struttura sanitaria pubblica nei confronti del proprio medico dipendente per il danno cagionato a terzi dovesse essere proposta avanti al giudice civile o contabile, ovvero ancora proposta dinanzi ad entrambe le autorità giudiziarie.

Prima di comprendere il ragionamento adottato dalla Corte, occorre innanzitutto richiamare l'art. 52 r.d. n. 1214/1934 il quale prevede che «i funzionari impiegati ed agenti, civili e militari, compresi quelli dell'ordine giudiziario e quelli retribuiti da amministrazioni, aziende e gestioni statali a ordinamento, autonomo, che nell'esercizio delle loro funzioni per azione od omissione imputabili anche a sola colpa o negligenza cagionino danno allo Stato e ad altra amministrazione dalla quale dipendono sono sottoposti alla giurisdizione della Corte nei casi e modi previsti dalla legge sull'amministrazione del patrimonio e sulla contabilità generale dello Stato e da leggi speciali. La Corte, valutate le singole responsabilità, può porre a carico dei responsabili tutto o parte del danno accertato o del valore perduto».

Ebbene, si evidenzia che nella sua decisione, la Corte d'Appello aveva richiamato la sentenza Cass. civ., sez. un., 4 dicembre 2001, n. 15288, con cui la Cassazione aveva affermato che la giurisdizione contabile non riguardava solo «fatti inerenti al maneggio di denaro», estendendosi, invece, «ad ogni ipotesi di responsabilità per pregiudizi economici arrecati allo Stato o ad enti pubblici da persone legate da vincoli di impiego o di servizio ed in conseguenza di violazione degli obblighi inerenti a detti rapporti».

Esiste, tuttavia, altro orientamento delle stesse Sezioni Unite che afferma, invece, il principio per cui l'azione di responsabilità contabile nei confronti dei sanitari dipendenti di un'azienda sanitaria non è sostitutiva delle ordinarie azioni civilistiche di responsabilità nei rapporti tra amministrazione e soggetti danneggiati (Cass. civ., sez. un., 18 dicembre 2014, n. 26659).

Ed è proprio a questo secondo orientamento che si uniformano le Sezioni Unite con la sentenza in commento, ritenendo che quello richiamato dalla Corte d'Appello sia superato.

Infatti, le Sezioni Unite ribadiscono il principio espresso con la sentenza Cass. civ., sez. un., 18 dicembre 2014, n. 26659 secondo cui, quando sia proposta da una azienda sanitaria domanda di manleva nei confronti dei propri medici, non sorge una questione di riparto tra giudice ordinario e contabile, attesa l'autonomia e non coincidenza delle due giurisdizioni (Cfr. anche Cass. civ., sez. III, 23 agosto 2018, n. 21021).

L'orientamento confermato dalla Suprema Corte si fonda sulla cosiddetta teoria del “doppio binario”, secondo cui l'azione di responsabilità contabile e l'azione di responsabilità civile perseguirebbero due finalità distinte.

L'azione contabile è volta alla tutela dell'interesse pubblico generale e, in particolare, alla tutela dell'interesse al buon andamento della pubblica amministrazione, e avrebbe finalità sanzionatoria nei confronti del dipendente. Diversamente l'azione civilistica avrebbe la funzione di far ottenere all'azienda ospedaliera il pieno ristoro del danno patito e avrebbe quindi funzione riparatoria e compensativa.

Sul punto, la Cassazione a Sezioni Unite richiama una recente pronuncia delle stesse Sezioni Unite (Cass. civ., sez. un., 19 febbraio 2019, n. 4883) che aveva affermato proprio l'indipendenza delle due azioni, ove le eventuali interferenze tra i due giudizi integrano una questione non di giurisdizione, ma di proponibilità delle azioni. In altre parole, il Giudice civile o contabile non deve chiedersi se quell'azione rientri nella propria giurisdizione o meno, ma deve verificare la proponibilità dell'azione a seconda che il danno sia già stato risarcito o meno a seguito della eventuale decisione dell'altro organo giudicante.

Con la sentenza in esame, le Sezioni Unite ribadiscono gli indirizzi della Consulta e della stessa Cassazione «sul generale parallelismo tra le autonome azioni contabile e civile nei limiti del ne bis in idem (Corte dei Conti, Sez. giur. per la Lombardia, 7 ottobre 2020, n. 152)», già affermata dalla giurisprudenza risalente della Corte Costituzionale.

Le differenze tra le due azioni - sia nella funzione sia nei presupposti - escludono la possibilità di violazione del principio del ne bis in idem (Cass. civ., sez. un., 27 agosto 2019, n. 21742; Cass. civ., sez. III, 20 dicembre 2018, n. 32929), come affermato dalla recente giurisprudenza della CEDU (CEDU, sez. II, 4 marzo 2014, n. 18640, Causa Grande Stevens e altri c. Italia), che ravvisa una violazione del predetto principio soltanto nell'ipotesi in cui la distinzione tra i giudizi instaurati avverso la medesima condotta si fonda sulla sanzione e non sui relativi presupposti.

La responsabilità civile e quella amministrativo-contabile traggono origine dal medesimo fatto, ma propongono presupposti e struttura diversi.

Essi si muovono su piani distinti, regolano rapporti giuridici differenti sotto il profilo soggettivo e oggettivo e presentano i parametri normativi di riferimento diversi. L'autonomia tra le due azioni incontra quale unico limite la necessità di «tener conto, con effetto decurtante, di quanto già liquidato in sede contabile, che il debitore potrà far valere, se del caso, anche in fase di esecuzione» (Cass. civ., sez. III, 14 luglio 2015, n. 14632; Cass. civ., sez. III, 20 dicembre 2018, n. 32929).

Il recente dibattito giurisprudenziale ha sottolineato la centralità dell'interesse patrimoniale dell'Amministrazione, che privilegia un sistema di integrale riparazione.

Infatti, l'azione di rivalsa della P.A. costituisce una forma di tutela avverso quei comportamenti illeciti, che integrano una violazione degli obblighi di servizio, produttiva di un danno patrimoniale nei confronti della collettività.

La sua natura obbligatoria esprime la tutela dell'interesse finanziario di tutto il settore pubblico.

In conclusione

Il tema principale che viene in evidenza in subiecta materia è quello relativo alla c.d. “graduazione della responsabilità” tra struttura sanitaria e medico esercente.

La Suprema Corte, come evidenziato, anche nella sentenza Cass. civ., sez. III, 22 febbraio 2023, n. 5475 ribadisce il principio secondo cui la graduazione della responsabilità tra Casa di cura e medico curante da essa dipendente, quali soggetti obbligati in solido, è possibile solo dopo che uno dei condebitori abbia esercitato l'azione di regresso nei confronti dell'altro.

Si riporta di seguito la massima della sentenza Cass. civ., sez. III, 22 febbraio 2023, n. 5475: «Il soggetto (paziente) danneggiato in conseguenza di un fatto illecito imputabile a più persone legate dal vincolo di solidarietà (nella specie, Casa di cura e medico curante da essa dipendente), può pretendere la totalità della prestazione risarcitoria anche nei confronti di una sola delle persone coobbligate, mentre la diversa gravità delle rispettive colpe di costoro e l'eventuale loro diseguale efficienza causale, può avere rilevanza soltanto ai fini della ripartizione interna del peso del risarcimento fra i corresponsabili. Di conseguenza, una ripartizione di responsabilità diversamente graduata, tra la Casa di cura e il medico curante, è possibile solo dopo che uno dei predetti condebitori abbia esercitato l'azione di regresso nei confronti degli altri, atteso che, solo nel giudizio di regresso, può discutersi della gravità delle rispettive colpe e delle conseguenze da esse derivanti».

Il caso di specie trae origine dalla richiesta di risarcimento del danno di un paziente nei confronti del medico curante, convenuto insieme alla Casa di cura, che proponeva domanda di manleva nei confronti della propria Compagnia assicuratrice.

Il Tribunale accoglieva la domanda di risarcimento del danno, ma rigettava la domanda di manleva in ragione dell'intervenuta prescrizione del diritto dell'assicurato. Appellata la sentenza dai soccombenti, la Corte d'Appello confermava la correttezza della decisione del giudice di primo grado nella parte in cui aveva individuato specifici profili di responsabilità colposa e confermava, altresì, il riconoscimento dell'intervenuta prescrizione rilevata dal primo giudice in relazione al diritto del medico chirurgo di vedersi garantito dalla propria Compagnia assicuratrice.

La causa giungeva in Cassazione ed il Giudice di Legittimità richiamava il consolidato insegnamento ai sensi del quale il soggetto danneggiato in conseguenza di un fatto illecito, imputabile a più persone legate dal vincolo di solidarietà, può pretendere la totalità della prestazione risarcitoria anche nei confronti di una sola delle persone coobbligate; mentre la diversa gravità delle rispettive colpe e l'eventuale diseguale efficienza causale possono avere rilevanza soltanto ai fini della ripartizione interna del peso del risarcimento fra i corresponsabili. Conseguentemente, afferma la Cass. civ., sez. III, 22 febbraio 2023, n. 5475 «il giudice del merito può e deve pronunciarsi sulla graduazione delle colpe solo se uno dei predetti condebitori abbia esercitato l'azione di regresso nei confronti degli altri, atteso che, solo nel giudizio di regresso può discutersi della gravità delle rispettive colpe e delle conseguenze da esse derivanti» (in tal senso, anche Cass. civ., sez. III, 8 novembre 2005, n. 21664Cass. civ., sez. III, 10 ottobre 2004, n. 15428).

Nel caso di specie, invece, non essendo stata proposta alcuna azione di regresso dalla Casa di cura convenuta, il giudice del merito non avrebbe potuto pronunciarsi sulla graduazione delle colpe invocata dal ricorrente.

La Cassazione ribadisce il principio secondo cui la solidarietà che lega i coautori di un fatto dannoso fonda il diritto del danneggiato di agire per ottenere la totalità della prestazione anche da parte di uno solo dei coobbligati; il diverso grado delle colpe e la diversità dell'efficienza causale delle condotte imputabili ai responsabili del danno rilevano, invece, esclusivamente ai fini della “ripartizione interna” del debito, e cioè in sede di esercizio dell'azione di regresso.

Si tratta di un principio già ribadito in passato dalla giurisprudenza di legittimità (Cfr. Cass. civ., sez. III, 10 agosto 2004, n. 15428) e la pronuncia in esame evoca principi già contenuti in una delle “sentenze decalogo” di San Martino, in particolare la Cass. civ., sez. III, 11 novembre 2019, n. 28987, che, intervenendo in merito all'interpretazione dell'art. 9 della legge Gelli-Bianco, aveva chiarito la questione della ripartizione dei rapporti interni tra Struttura sanitaria e medico esercente, ove si evidenziava la differenza tra azione di regresso e azione di rivalsa. Ovvero che trattasi di concetti simili ma giuridicamente diversi: infatti, mentre l'azione di regresso presuppone la nascita di una obbligazione avente il medesimo titolo, nonché la presenza di più coobbligati solidali, uno dei quali adempia per l'intero, l'azione di rivalsa riguarda il riparto della responsabilità da inadempimento imputata al debitore e al suo ausiliario, in via solidale.

E qui la Corte di legittimità nella citata Cass. civ., sez. III, 22 febbraio 2023, n. 5475 ha anche precisato contenuto e limiti quantitativi della relativa azione in tema di responsabilità medica, ritenendo di ripartire il danno da malpractice tra Struttura e sanitario, anche in ipotesi di colpa esclusiva di quest'ultimo, salvo i casi del tutto eccezionali di inescusabilmente grave, del tutto imprevedibile e oggettivamente improbabile, devianza da quel programma condiviso di tutela della salute che accomuna tali soggetti.

Last but not least: in punto di quantificazione del giudizio di rivalsa, la Corte si è espressa per l'applicabilità dei criteri generali di cui agli art. 1298 c.c. (Rapporti interni tra debitori o creditori solidali: «Nei rapporti interni l'obbligazione in solido si divide tra i diversi debitori o tra i diversi creditori, salvo che sia stata contratta nell'interesse esclusivo di alcuno di essi. Le parti di ciascuno si presumono uguali, se non risulta diversamente») e art. 2055 c.c. (Responsabilità solidale: «Se il fatto dannoso è imputabile a più persone, tutte sono obbligate in solido al risarcimento del danno. Colui che ha risarcito il danno ha regresso contro ciascuno degli altri, nella misura determinata dalla gravità della rispettiva colpa e dall'entità delle conseguenze che ne sono derivate. Nel dubbio, le singole colpe si presumono uguali»).

Tali norme, da cui deriva la necessità di parametrare la misura del regresso alla gravità delle rispettive colpe e all'entità delle conseguenze che ne sono derivate.

In mancanza di prova circa la diversa gradazione delle colpe e la derivazione causale del sinistro - evidenzia il Collegio di legittimità - dovrà necessariamente trovare applicazione il principio presuntivo di «pari contribuzione al danno da parte dei condebitori solidali».

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