Il “nuovo” affidamento in prova al servizio sociale dopo il d.l. n. 92/2024

23 Settembre 2024

La modifica apportata dal decreto-legge 4 luglio 2024, n. 92, convertito dalla legge 8 agosto 2024, n. 112, che ha introdotto un nuovo comma 2-bis all'interno dell'art.47 dell'ordinamento penitenziario, offre la possibilità di fruire della misura alternativa dell'affidamento in prova al servizio sociale anche qualora il condannato non sia in grado di offrire valide occasioni di reinserimento esterno tramite l'attività lavorativa, ma sia ammesso, in sostituzione, ad un idoneo servizio di volontariato oppure ad attività di pubblica utilità. Tale aggiunta si pone in ottica deflattiva e risolve, in parte, il problema del sovraffollamento carcerario, consentendo una più ampia fruizione della misura alternativa e adeguandosi a quello che già da tempo era l'orientamento consolidatosi nella giurisprudenza di legittimità circa la possibilità di concedere la misura dell'affidamento in prova anche in assenza del presupposto dell'attività lavorativa.

L'introduzione del decreto legge 4 luglio 2024, n. 92

Con l'introduzione del decreto-legge (c.d. “carcere sicuro”), pubblicato il 4 luglio 2024 e in vigore dal 5 luglio, si è introdotta una modifica significativa circa i presupposti di concessione della misura alternativa dell'affidamento in prova al servizio sociale, che trova la sua disciplina normativa all'interno dell'art. 47 dell'ordinamento penitenziario.

Questo decreto, convertito in legge 8 agosto 2024, n. 112, recante “Misure urgenti in materia penitenziaria, di giustizia civile e penale e di personale del Ministero della giustizia”, intende rispondere – secondo quanto dichiarato dall'esecutivo – all'esigenza di garantire l'ordine e la sicurezza all'interno degli istituti penitenziari, valorizzando in particolare la professionalità della polizia penitenziaria, perseguendo, al contempo, l'obiettivo di “umanizzare” la vita detentiva. Nell'incipit del decreto si fa esplicito riferimento alla «straordinaria necessità e urgenza di introdurre disposizioni in materia di ordinamento penitenziario, per una razionalizzazione di alcuni benefici, di alcune regole di trattamento applicabili ai detenuti e per la semplificazione dell'accesso ai benefici».

L'intervento, pur apprezzabile sotto alcuni limitati profili – anche grazie alla legge di conversione che è intervenuta, per esempio, in materia di affidamento in prova al servizio sociale – appare tuttavia, nel complesso, molto lontano dalle aspettative degli operatori penitenziari e carente sotto l'aspetto delle risorse introdotte. Tale decreto non affronta, infatti, se non marginalmente, il grave problema del sovraffollamento carcerario, limitandosi ad intervenire su alcuni profili procedurali, ma lasciando inalterata la disciplina sostanziale e dunque il concreto pericolo che la situazione attuale degli istituti penitenziari italiani, caratterizzati da inaccettabili condizioni materiali di detenzione, insufficiente assistenza sanitaria e psicologica, scarsa offerta trattamentale e possibilità di accesso a percorsi di reinserimento sociale, continui a far accrescere il numero di suicidi tra le persone detenute e gli agenti di polizia penitenziaria, non rispettando quello è che il principio costituzionale della funzione rieducativa della pena.

Nell'intento di favorire l'accesso ai condannati alla misura alternativa dell'affidamento in prova al servizio sociale, il decreto-legge ha previsto all'art. 10-bis una modifica dell'art. 47 ord. penit., tramite l'inserimento, dopo il comma 2, di un nuovo comma 2-bis, il quale afferma che: «Il condannato, qualora non sia in grado di offrire valide occasioni di reinserimento esterno tramite attività di lavoro, autonomo e dipendente, può essere ammesso, in sostituzione, a un idoneo servizio di volontariato oppure ad attività di pubblica utilità, senza remunerazione, nelle forme e con le modalità di cui agli articoli 1, 2 e 4 del decreto del Ministro della giustizia del 26 marzo 2001, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 80 del 5 aprile 2001, in quanto compatibili, nell'ambito di piani di attività predisposti entro il 31 gennaio di ogni anno, di concerto tra gli enti interessati, le direzioni penitenziarie e gli uffici per l'esecuzione penale esterna e comunicati al presidente del Tribunale di Sorveglianza territorialmente competente».

I profili generali dell'affidamento in prova al servizio sociale

Prima di entrare nel merito della modifica normativa, appare opportuno delineare un quadro generale circa l'istituto dell'affidamento in prova al servizio sociale.

L'affidamento in prova al servizio sociale rientra nel novero delle misure alternative alla detenzione disciplinate dal Capo VI del Titolo I della legge 26 luglio 1975, n. 354. Tali misure si inquadrano «non nella legislazione premiale (che può rivolgersi anche a delinquenti incalliti ed irriducibili per indurli a recedere ed eventualmente collaborare con la giustizia), bensì tra i trattamenti penitenziari aventi lo scopo di evitare al condannato l'inutile sofferenza della detenzione (o l'inutile protrarsi della stessa), nei casi in cui la rieducazione ed il recupero sociale del condannato possa essere ottenuto con misure alternative e meno afflittive» (Cass. pen., sez. un., 27 settembre 1995, n. 27, Sessa). Tali misure, pertanto, «prescindono da profili di meritevolezza, dovendo essere applicate ogni volta che possa ritenersi la loro idoneità ad assolvere la finalità della pena» (Cass. pen., 1 ottobre 1996, n. 4847, Gabrieli).

I presupposti ideologici posti a base degli istituti penitenziari de quibus sono il frutto di una contrastata evoluzione storica e ideologica incentrata sul modo di intendere la relazione tra la scienza giuridica ed i concetti di umanità e società. Tale corrente di pensiero – sorta dal rinascimento umanistico e giuridico europeo – ha avuto il merito di affermare e coltivare imponenti valori di civiltà e democrazia, a loro volta, incentrati sui principi di proporzione tra reato e sanzione, mitigazione, umanizzazione e rieducazione della pena.

Definito sin dal suo apparire «fiore all'occhiello» della riforma penitenziaria del 1975, l'affidamento in prova al servizio sociale – nonostante i numerosi interventi, intrecciatisi tra di loro, del legislatore e della Corte Costituzionale, che per un verso hanno notevolmente ampliato l'area applicativa dell'istituto, e per altro verso, ne hanno addirittura alterato l'identità – continua ad essere la misura alternativa per eccellenza, poiché è l'unica ad atteggiarsi come trattamento in libertà totalmente sostitutivo di quello intramurario.

Intervenendo con la legge n. 354/1975, il legislatore italiano ha optato per il c.d. probation penitenziario, prevendo la possibile applicazione della misura alternativa dell'affidamento in prova nella fase iniziale dell'esecuzione anziché nella parte finale del segmento esecutivo. Tale scelta ha rilevanti implicazioni pratiche. Infatti, nel primo caso si circoscrive la detenzione al periodo necessario all'osservazione intra-muraria, evitando – quasi del tutto – l'esperienza carceraria; nel secondo caso, all'opposto, la misura in oggetto può essere accordata quando il condannato ha scontato buona parte della pena detentiva e rappresenta, dunque, una forma di “dimissione anticipata” dall'ambiente carcerario.

Così configurato, l'affidamento in prova sintetizza la misura alternativa alla detenzione per eccellenza mirando ad evitare al massimo i danni derivanti dalla permanenza negli istituti penitenziari pur essendo simultaneamente finalizzato all'imprescindibile rieducazione del reo. A tal proposito, parte della dottrina ha definito l'affidamento in prova al servizio sociale come «il tipo di sanzione penale che consente al condannato di espiare la pena detentiva inflitta dal giudice della cognizione, o comunque, quella residua, in regime di libertà assistita e controllata e, dunque, fuori dal carcere».

Pertanto, attraverso tale misura alternativa, il legislatore ha inteso configurare una forma di esecuzione penale per quei condannati per i quali, alla luce dell'osservazione della personalità e degli altri elementi di conoscenza acquisiti dal giudice (precedenti, pendenze, relazione socio-familiare elaborata dall'Ufficio Esecuzione Penale Esterna, informazioni degli organi di polizia) sia possibile formulare una ragionevole prognosi, all'esito della misura, di completo reinserimento sociale (Cass. pen., sez. I, 5 aprile 2012, n. 18437, Ottieri, inedita). Tenuto conto, infatti, dell'ampia valenza precettiva della funzione rieducativa della pena e della necessità di contemperare le esigenze del recupero sociale con quelle della prevenzione sociale, la concedibilità o meno dell'affidamento in prova postula la valutazione in concreto delle specifiche condizioni che connotano la posizione individuale del singolo condannato.

La natura giuridica

Sin dall'origine, l'individuazione della natura giuridica della misura alternativa in analisi si è presentata molto problematica. La questione – coinvolgendo numerosi profili pratici e, tra questi, il delicato problema relativo agli effetti derivanti dalla revoca dell'affidamento – ha visto il contrapporsi di due diverse visioni dottrinali e giurisprudenziali.

Prendendo le mosse dall'effetto estintivo della pena e dagli altri effetti penali connessi all'esito positivo della prova, una prima posizione esegetica – poi rilevatasi marginale – ha configurato l'istituto de quo come una causa di sospensione della pena. Al contrario, in base ad un ulteriore orientamento maturato in seno alla giurisprudenza costituzionale e condiviso anche in letteratura, l'affidamento in prova deve essere considerato «una pena essa stessa, alternativa alla detenzione o, se si vuole, una modalità di esecuzione della pena»: la misura «fa perno, infatti, sull'imposizione di regole di condotta, le quali, nella duplice ottica di incentivare la risocializzazione del condannato e di neutralizzare i fattori di recidiva, incidono sotto vari profili sulla libertà personale». Le ragioni che depongono a favore di tale impostazione sono diverse.

Risulta ormai pacifico che il concetto di “pena” non si identifica nella sola sanzione detentiva comprendendo, invece, ogni espediente limitativo della libertà personale, nel cui ambito rientrano a pieno titolo le prescrizioni poste come contenuto della misura alternativa, le quali possono comportare, talvolta, un grado di afflittività molto elevato. In quest'ottica, la giurisprudenza nomofilattica – pronunciandosi in ordine alla probation – ha avuto modo di chiarire come l'affidamento «comportando per il condannato l'osservanza di prescrizioni restrittive della sua libertà e la soggezione ai costanti controlli del servizio sociale, nonché alla vigilanza del magistrato di sorveglianza cui il servizio sociale è tenuto a fornire periodicamente dettagliate notizie, costituisca non una misura alternativa alla pena, ma una pena essa stessa alternativa alla detenzione, nel senso che viene sostituito al trattamento in istituto quello fuori dall'istituto, perché ritenuto più idoneo alle finalità di emenda della pena» (Cass. pen., sez. I, 18 novembre 1992, n. 4747, Angioni, in Mass. uff., n. 194495).

Ulteriori ragioni che depongono per la natura sanzionatoria della probation possono desumersi dall'art. 672 c.p.p. e dall'art. 69-bis ord. penit., introdotto dalla l. n. 277/2002. Da tali disposizioni normative si evince, rispettivamente, la cessazione delle misure alternative per effetto della concessione dell'amnistia e dell'indulto e l'applicazione – in casi determinati – della liberazione condizionale al condannato ammesso ad espiare la pena in regime di affidamento in prova. Risulta evidente come le norme in questione rappresentino una conferma della tesi che attribuisce all'affidamento in prova la veste di modalità di espiazione della pena prevista in sentenza. A ciò va aggiunto che la durata dell'affidamento coincide con quella della pena da espiare in forza della pronuncia di condanna emessa dal giudice della cognizione. Difatti, il provvedimento applicativo della misura non conduce ad una sospensione dell'esecuzione della sanzione, la quale prosegue extra moenia – in caso di concessione a soggetto detenuto – ovvero comincia a decorrere ab origine fuori dall'istituto di pena qualora il beneficio venga concesso ad una condannato in stato di libertà.

Sul punto rileva anche quanto stabilito dalla Corte costituzionale con la sentenza del 29 ottobre 1987, n. 343, in tema di revoca della misura in esame. Posto che quest'ultimo provvedimento comporta il ripristino dell'esecuzione della pena in regime carcerario, a seguito del monito proveniente dal giudice delle leggi, il tribunale con la medesima ordinanza con cui dispone la revoca della probation deve determinare la pena residua da espiare tenuto conto delle restrizioni patite dal condannato e dalla condotta tenuta in costanza di affidamento. La valutazione di questi elementi nella quantificazione del quantum di detenzione da espiare in carcere per effetto della revoca induce a ritenere che anche l'affidamento in prova integra una forma esplicativa di sanzione penale. Ed infatti, la stessa Corte costituzionale, nella sentenza già citata, ha affermato che «qualunque sia la nozione di pena che si ritenga di accogliere, non è dubbio che le prescrizioni rientrino a pieno titolo tra quelle restrizioni della libertà personale la cui imposizione l'art.13 Cost. circonda di particolari cautele […]; il non tenere in alcun conto, in caso di revoca, il già patito assoggettamento a tali restrizioni nel pregresso periodo di affidamento costituisce un risultato contrastante con quel disposto costituzionale».

Da ultimo, proprio con riferimento alla natura sostanziale dell'affidamento in prova, la Corte costituzionale si è pronunciata con la famosa sentenza n. 32/2020, dichiarando l'illegittimità costituzionale della legge Spazzacorrotti n. 3/2019 che estendeva ai fatti commessi prima dell'entrata in vigore della legge stessa le preclusioni alle misure alternative alla detenzione previste all'art. 4-bis ord. penit. per i reati di criminalità organizzata. Trattasi di una decisione di ripensamento del tradizionale orientamento secondo cui le pene devono essere eseguite in base alla legge in vigore al momento dell'esecuzione della pena e non quella in vigore al momento del fatto (anche per assicurare uniformità di trattamento tra i detenuti). In particolare, nella sentenza si legge che il principio sancito dall'art. 25 Cost., secondo cui nessuno può essere punito con una pena non prevista al momento del fatto o con una pena più grave di quella allora prevista, opera come «uno dei limiti al legittimo esercizio del potere politico, che stanno al cuore stesso del concetto di Stato di diritto». Tuttavia, la Corte sottolinea che ciò non può valere «allorché la normativa sopravvenuta non comporti mere modifiche delle modalità esecutive della pena prevista dalla legge al momento del reato, bensì una trasformazione della natura della pena e della sua concreta incidenza sulla libertà personale del condannato». In tal caso, infatti, la successione normativa determina, a ogni effetto pratico, l'applicazione di una pena che è sostanzialmente un aliud rispetto a quella stabilita al momento del fatto, con conseguente inammissibilità di un'applicazione retroattiva di una tale modifica normativa, al metro dell'art. 25, comma 2, Cost.

La Corte, pertanto, ritiene che l'art. 25, comma 2, Cost. non possa applicarsi in relazione agli effetti prodotti dalla disposizione censurata sul regime di accesso alle misure alternative alla detenzione. Si tratta di «misure di natura sostanziale che incidono sulla qualità e quantità della pena […] e che per ciò stesso modificano il grado di privazione della libertà personale imposto al detenuto» (sent. n. 349/1993), finendo anzi per costituire delle vere e proprie “pene” alternative alla detenzione (ordinanza n. 327/1989) disposte dal tribunale di sorveglianza, e caratterizzate non solo da una portata limitativa della libertà personale del condannato assai più contenuta, ma anche da un'accentuata vocazione rieducativa. E proprio l'affidamento in prova al servizio sociale è definito quale «strumento di espiazione della pena, alternativo rispetto alla detenzione: uno strumento, certo, meno afflittivo rispetto al carcere, ma egualmente connotato in senso sanzionatorio rispetto al reato commesso, tanto che l'esito positivo dell'affidamento in prova estingue la pena detentiva e ogni altro effetto penale» (sent. n. 68/2019).

Il presupposto formale: limite di pena espianda

La formulazione originaria dell'art. 47 ord. penit. indicava elementi di natura oggettiva che in quanto tali prescindevano dal potere valutativo del Tribunale di Sorveglianza deputato ad esaminarle. Segnatamente, in base alla versione iniziale della predetta norma non potevano richiedere la probation: i condannati a pena detentiva superiore a due anni e sei mesi; i condannati a pena detentiva superiore a tre anni, se di età inferiori ad anni ventuno o superiore ad anni settanta; i condannati a pena detentiva a cui fosse stata inflitta una misura di sicurezza detentiva; i condannati a pena detentiva già condannati per reati della stessa indole; i condannati a pena detentiva già condannati per i delitti di rapina, rapina aggravata, estorsione, estorsione aggravata, sequestro di persona a scopo di rapina o di estorsione.

Risulta palese l'essenziale rispondenza delle scelte in tal modo operate dal legislatore del '75 ad esigenze preventive e di difesa sociale così come appare evidente l'intento di limitare la fruibilità della misura alternativa alle categorie di soggetti a più ridotta pericolosità sociale […] fino all'opzione di fermare, mediante la previsione di reati ostativi, l'allarme sociale suscitato dal dilagare della criminalità organizzata.

Ad oggi, in forza dell'art. 47 comma 1 ord. penit., la prima conditio sine qua non dell'affidamento che viene in rilievo è rappresentata dal limite di «pena detentiva inflitta», il quale – per potere consentire l'accesso al beneficio – non deve essere superiore a tre anni. Va rilevato che la scelta – operata con la c.d. “legge Gozzini” 10 ottobre 1986, n. 663 – di fissare un unico limite di pena senza distinzione di età ha posto fine all'annoso contrasto giurisprudenziale relativo al momento in cui valutare, appunto, l'età anagrafica del reo. Nello specifico, le due tesi che si sono contrapposte in giurisprudenza facevano riferimento alla data di commissione dell'illecito ed al momento in cui poteva essere avanzata la richiesta di ammissione al beneficio de quo, vincolato – in base alla precedente legislazione – ad un preliminare periodo trimestrale di osservazione in istituto. 

L'espressione normativa «pena detentiva inflitta» ha posto il problema dell'individuazione delle pene riconducibili alla categoria delle «detentive» ed ha acceso alcune diatribe intorno alla definizione del termine «inflitta».

Sotto il primo profilo, in realtà, nessun dubbio sussiste riguardo il carattere detentivo sia della pena della reclusione e dell'arresto irrogate dal giudice della cognizione, sia delle misure alternative della detenzione domiciliare, del regime di semilibertà, dell'esecuzione presso il domicilio, applicate dalla magistratura di sorveglianza in fase di esecuzione. Perplessità, invece, sono sorte in relazione alle sanzioni sostitutive: soprattutto, nei confronti della libertà controllata, in quanto alla semidetenzione non è stato difficile riconoscere il carattere almeno parzialmente detentivo. La giurisprudenza, dopo alcuni tentennamenti, ha risolto in senso negativo la questione, sostenendo che risulterebbe inutile e irragionevole applicare l'affidamento in prova alla libertà controllata, considerata la similarità delle due misure e ritenendo il regime della prima più afflittivo di quello della seconda. Inoltre, muovendo sempre dalla premessa che il presupposto per l'applicazione dell'affidamento in prova è costituito dalla natura detentiva della pena da espiare, tale alternativa non può essere concessa al condannato in affidamento terapeutico o in liberazione condizionale, né a chi abbia ottenuto la sospensione dell'esecuzione ex art. 90 t.u. stup., la c.d. sospensione condizionata di cui all'art. 1 l. n. 207/2003, il differimento della pena ex art. 147 c.p., poiché in questi ultimi casi manca addirittura il titolo detentivo in esecuzione, presupposto necessario per l'operatività della misura alternativa in esame.

Sotto il secondo profilo, l'esatta determinazione del concetto di «pena inflitta» è stata oggetto di ben più lunga e tormentata elaborazione giurisprudenziale e dottrinale, fino all'interpretazione autentica offerta dall'art. 14-bis d.l. 8 giugno 1992, n. 306, conv. dalla l. 7 agosto 1992, n. 356, secondo cui il termine «pena inflitta» va intesa come pena «pena inflitta da espiare in concreto, tenuto anche dell'applicazione di eventuali cause estintive». Il risultato è che il condannato può essere ammesso all'affidamento in prova non solo quando la pena irrogata in sentenza non superi la misura di tre anni, ma anche nel caso di pena residua entro i tre anni, cioè detratta la parte di pena condonata o già espiata. Va precisato che, detraibile dalla pena inflitta è anche il periodo di custodia cautelare scontata sia in carcere o in luogo di cura, sia agli arresti domiciliari, in ragione dell'equiparazione della custodia domestica a quella in istituto. Inoltre, la S.C., con l'avvallo della Consulta (C. cost. n. 429/1993), al fine di evitare irrazionali disparità di trattamento, ha esteso la soluzione offerta dall'art. 14-bis d.l. n. 306/1992, per il reato unico alla pluralità di reati, ritenendo che essa dovesse considerarsi parametro unitario ed oggettivo. In altri termini, ai fini della determinazione del limite di pena di tre anni non ha nessuna rilevanza che tale quantum risulti da più sentenze di condanna. Anzi, la giurisprudenza maggioritaria impone al tribunale di sorveglianza, nel caso dell'esistenza di una pluralità di pene da eseguire, di procedere al cumulo delle stesse, «anche se non sia ancora intervenuto il provvedimento di unificazione da parte del competente ufficio del pubblico ministero» e quando l'entità della pena residua da espiare risulta superiore al limite massimo previsto per l'affidamento in prova, il presidente dichiara de plano l'inammissibilità della relativa istanza di concessione della misura.

Al limite di pena detentiva di tre anni, il d.l. n. 146/2013, conv. in l. n. 10/2014, ha affiancato quella di quattro anni (art. 47 comma 3-bis ord. penit.), apprestando così un ulteriore strumento diretto a porre rimedio al sovraffollamento penitenziario, stigmatizzato dalla Corte europea come causa di trattamenti inumani e degradanti. Tale riforma, quindi, si inserisce apertamente in quel processo di trasformazione degenerativa della misura, sempre più mezzo di deflazione carceraria a svantaggio della finalizzazione rieducativa. L'ampliamento del limite ha suggerito di denominare la nuova figura di affidamento in prova “allargato”, per distinguerlo da quello “ordinario”. Nella formulazione del comma 3-bis, il legislatore del 2013 ha sostituito, opportunamente, il riferimento testuale alla «pena detentiva inflitta», di cui al comma 1 dell'art. 47 con quello alla «pena, anche residua»: ciò, da un lato, ha evitato che si riproponessero le problematiche interpretative sul significato del termine “inflitta”, dall'altro, ha permesso di utilizzare i risultati scaturiti dalla laboriosa esegesi della norma base, per definire i confini applicativi del nuovo limite. Infatti, anche in questo caso la pena espianda funge da requisito pure per l'ipotesi di pluralità di reati.

Presupposti di merito

Il provvedimento di rigetto o di concessione dell'affidamento in prova postula una valutazione discrezionale del Tribunale di Sorveglianza avente ad oggetto la personalità del condannato, così come desumibile dall'osservazione scientifica, condotta in istituto o in libertà, nonché dal corredo probatorio integrato da atti, documenti, testimonianze, perizie e inchieste sociali.

Dal combinato disposto degli artt. 13 comma 2 ord. penit. e 27 comma 1 reg. esec. emerge che l'analisi intra-moenia è condotta nei confronti dei condannati e degli internati al fine di accertare i bisogni di ciascun soggetto, connessi alle eventuali carenze fisico-psichiche, affettive, educative e sociali, le quali sintetizzano le cause di un disadattamento sociale e di una scorretta vita di relazione. Gli elementi così acquisiti sono utili per una compiuta riflessione sulle condotte antigiuridiche poste in essere, sulle conseguenze negative delle stesse per l'interessato medesimo e sulle possibilità di riparazione delle conseguenze del reato, incluso il risarcimento del danno dovuto alla persona fisica.

Tuttavia, giova puntualizzarlo, ai fini dell'accesso alla misura alternativa dell'affidamento, «non è richiesto che si sia già compiuta la rieducazione del reo, la quale rappresenta l'obiettivo, e non il presupposto, dell'affidamento in prova al servizio sociale».

Qualora il soggetto richiedente il beneficio si trovi in libertà o abbia comunque goduto di un periodo di stato libero, l'elemento decisivo ai fini della valutazione giudiziale è rappresentato dal comportamento tenuto in tale condizione. Ed infatti, in tali casi e, generalmente, ove difetti un'osservazione carceraria, la condotta del soggetto successiva alla condotta criminosa diviene il dato determinante ai fini dell'ammissione alla probation.

La condotta successiva alla condanna è legittimamente desumibile dalle informazioni di polizia, dalle pendenze penali e da tutte le informazioni riguardanti il contesto sociale ed ambientale del reo, ricavabili, tra l'altro, dalle relazioni dell'U.E.P.E., il quale, ai sensi dell'art. 72 comma 4 ord. penit., «svolge le indagini socio-familiari per l'applicazione delle misure alternative alla detenzione». Tale condotta deve – in primo luogo – palesare il rispetto dalla legge penale dal momento che «la commissione di ulteriori reati nella fase successiva alla pronuncia della condanna che si chiede di espiare in regime alternativo, dimostrando, di per sé, la mancanza di un'effettiva partecipazione all'opera di rieducazione e il sostanziale rifiuto dei principi etici posti a fondamento del trattamento, ben può giustificare il diniego del beneficio» (Cass. pen., 12 novembre 1992, n. 4643, Talanca, in Riv. Pen., 1993, p.116). 

Tuttavia, è utile precisare che – nonostante la pendenza di procedimenti penali per fatti commessi dopo la pronuncia di condanna assuma un rilevante valore dimostrativo – si impone comunque una valutazione globale della situazione del reo, che tenga conto del proprio reinserimento sociale. In ogni caso, l'accesso alla misura è fortemente condizionato da una reale collaborazione del condannato, cui si impone – a seguito della richiesta del beneficio – «il dovere di collaborare con gli operatori del servizio sociale fornendo, agli stessi, utili informazioni per la predisposizione di un programma di intervento idoneo da un lato, ad assicurare la rieducazione del reo e, dall'altro, a prevenire il pericolo di commissione di nuovi reati. Pertanto, il condannato che, dopo aver chiesto la concessione della misura alternativa in questione, non fornisce notizie esatte in ordine alla sua situazione sociale, familiare e lavorativa, dimostra, senza dubbio, la mancanza di volontà collaborativa con gli operatori del servizio sociale, e tale comportamento ben può essere valutato in chiave negativa dal Tribunale di Sorveglianza ai fini della concessione dell'affidamento in prova al servizio sociale» (Cass. pen., 8 marzo 1996, n. 1516, Coco, in Riv. Pen., 1996, p. 1142).

Contribuiscono alla formulazione del giudizio sul soggetto anche le informazioni riguardanti la famiglia, il lavoro ed – in generale – il contesto sociale in cui è inserito il reo, le quali, ad avviso della dottrina, non si esauriscono «in una raccolta di dati e notizie di tipo descrittivo, ma devono sostanziarsi in un esame approfondito condotto dall'operatore specializzato».

Un apporto probatorio rilevante ai fini della decisione finale del Tribunale di sorveglianza deriva dal rapporto informativo dell'organo di polizia, da cui possono emergere i seguenti elementi di giudizio: informazioni relative alla condotta tenuta dal condannato durante la sottoposizione ad una misura cautelare diversa dalla custodia in carcere, applicata nell'ambito del procedimento definito con la pronuncia di condanna in ordine alla quale si chiede il regime alternativo; l'eventuale sottoposizione del reo a misure di prevenzione; la presenza di denunce per altri reati; la possibile sottoposizione del condannato a misure cautelari per un fatto diverso da quello oggetto di esecuzione.

Le informazioni fornite dalla polizia giudiziaria – oltre ad essere oggetto di «un rigoroso vaglio critico» – devono essere poste in relazione con gli altri elementi a disposizione dell'organo giudicante e – qualora riferite al condannato che si trovi in stato di libertà – devono sostanziarsi non in generiche argomentazioni, ma indicare circostanze di fatto dotate di specificità e precisione.

Nel giudizio di concessione dell'affidamento in prova assumono rilievo anche i precedenti penali e, in particolare, le condanne per i reati della stessa indole: «Allorché il giudice di merito abbia accertato una rilevante propensione a delinquere del soggetto, desunta da specifici e numerosi precedenti penali e da varie pendenze giudiziarie, è giustificato il giudizio prognostico negativo in ordine alle probabilità di successo dell'applicazione di misure alternative al regime carcerario, non essendo sufficiente l'assenza di indicazioni negative ed occorrendo, invece, elementi positivi che consentano un giudizio prognostico di esito favorevole della prova e di prevenzione del pericolo di recidiva» (Cass. pen., 5 febbraio 2013, n. 11573, in Mass. uff., 255362). A tale riguardo, la Suprema Corte ha statuito che, sia in caso di rigetto sia in ipotesi di accoglimento dell'istanza, per l'organo giudicante è «doveroso valutare i precedenti penali del soggetto, senza però che tale valutazione possa assumere carattere esclusivo, dovendo essere compiuta in collegamento con ogni altro possibile elemento di giudizio, ed in primo luogo, con il comportamento successivo alla commissione del reato». La presenza di tali elementi non può, dunque, di per sé intaccare un giudizio positivo fondato sulle risultanze del trattamento individualizzato, potendo, invece, avvalorare e rinforzare l'eventuale decisione negativa fondata già su ulteriori dati probatori.

Dal tipo di reato commesso, dai motivi a delinquere e dai precedenti o dalle pendenze penali può desumersi il grado di pericolosità sociale del reo, il quale «non può assumere, di per sé solo, una rilevanza decisiva, dovendo, invece, essere bilanciato, in caso di affidamento richiesto da soggetto in stato di detenzione, con i risultati dell'osservazione della personalità condotta in istituto e, in caso di domanda proposta da soggetto in stato di libertà, con il comportamento dallo stesso serbato dopo la commissione dell'illecito: l'affidamento va legittimamente adottato o, al contrario negato, secondo che la pericolosità di base, posta in relazione con i risultati dell'osservazione (ovvero con il comportamento in libertà), autorizzi, o non, la prognosi favorevole» (Cass. pen., 24 giugno 1994, n. 3112, Polifroni, in Riv. pen., 1995, p. 826) .

Posto che la realizzazione del processo rieducativo rappresenta l'obiettivo dell'affidamento in prova e non il presupposto del medesimo, occorre, comunque, precisare che, il concetto di «pericolosità sociale» deve essere inteso come «residua pericolosità fronteggiabile adeguatamente con gli strumenti coessenziali all'affidamento stesso» e, in particolare, con le prescrizioni im­partibili al soggetto affidato.

Infine, occorre soffermarsi anche sull'atteggiamento assunto dal reo nei confronti del reato commesso e delle conseguenze da esso derivate. L'avvio di qualunque processo risocializzativo presuppone, infatti, un minimo di revisione critica e appare alquanto difficile «sostenere che l'obiettivo della rieducazione possa prescindere dall'acquisizione da parte del condannato di una coscienza critica del reato commesso e delle conseguenze che esso ha provocato, a cominciare dal danno arrecato alla persona offesa». A tal proposito, la giurisprudenza di legittimità, facendo leva sui presupposti applicativi dell'affidamento in prova, ha osservato come l'art. 47 ord. penit. richieda «la concreta dimostrazione dell'esistenza di elementi positivi atti a far ragionevolmente ritenere che la misura alternativa possa trovare proficua applicazione in funzione delle finalità ad essa espressamente attribuite. Il che comporta che il soggetto deve aver compiuto una reale e comprovata rivisitazione della sua esistenza ed evidenziato concretamente la volontà di prendere le distanze dalla vita precedente, in cui erano maturate le scelte devianti (Cass. pen., 3 aprile 2007, Perra, inedita).

Neppure è superfluo ricordare che, muovendo dai risultati delle attività di carattere istruttorio che il Tribunale di Sorveglianza ha il potere-dovere di compiere ai sensi dell'art. 47 ord. penit., in relazione all'art. 96 reg. esec., nella sintesi conclusiva che è chiamato a compiere può fare ragionata applicazione del principio di gradualità dell'iter finalizzata alla concessione, al contempo, puntuale e proficua delle misure alternative alla detenzione. In tal senso si deve ribadire (nell'alveo di una consolidata elaborazione, su cui cfr. Cass. pen., sez. I, 14 gennaio 2015, n. 27264; Cass. pen., sez. I, 6 marzo 2003, n. 15064) che, prima di ammettere il condannato a misure alternative alla detenzione, il Tribunale di Sorveglianza, anche quando rilevi l'emersione di elementi positivi nel comportamento del detenuto, può legittimamente ritenere necessario un ulteriore periodo di osservazione e lo svolgimento di altri esperimenti premiali onde verificare la concreta attitudine del medesimo a adeguarsi alle prescrizioni da imporre, poi, con la concessione della misura stessa.

Le prescrizioni dell'affidamento in prova

Come ogni pena, anche l'affidamento si connota per una duplice valenza: afflittiva (peraltro modesta) e rieducativa (sicuramente preminente). L'effettiva realizzazione di questi due aspetti è affidata al sistema delle prescrizioni che devono essere stabilite dal Tribunale di Sorveglianza con l'ordinanza applicativa della misura alternativa e che il condannato si impegna a rispettare con la sottoscrizione del verbale di accettazione delle stesse (art. 47 comma 5 ord. penit.). Tale sottoscrizione avviene davanti al Direttore del carcere in cui si trova ristretto il condannato, ovvero, in caso di affidamento in prova concesso al condannato che si trova in stato di libertà (per esempio perché ha beneficiato della sospensione dell'efficacia esecutiva dell'ordine di carcerazione di cui all'art. 656 comma 5 e 6 c.p.p.) davanti al Direttore dell'U.E.P.E. competente per territorio (art. 97 comma 3 d.P.R. 30 giugno 2000, n. 230 – Regolamento recante norme sull'ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà).

Lo scopo perseguito tramite la loro imposizione è duplice in quanto risultano finalizzate alla rieducazione del reo ed alla prevenzione della recidiva. In questi termini si è espressa la giurisprudenza di legittimità, stabilendo che, «le prescrizioni non hanno una loro autonomia concettuale, ma fanno parte integrante del giudizio prognostico che deve esprimere il Tribunale di Sorveglianza in ordine alla sussistenza delle condizioni per l'ammissione del condannato alla misura alternativa, le cui finalità rieducativa e di prevenzione della recidiva possono essere perseguite anche attraverso le prescrizioni di cui al comma 5 dell'art. 47 ord. penit. Di conseguenza, un provvedimento di affidamento in prova al servizio sociale che non contenesse prescrizioni, ovvero, in ipotesi, non indicasse le ragioni per le quali nella fattispecie concreta non si ritenesse di imporle, sarebbe un provvedimento immotivato, non avendo il giudice preso in considerazione uno degli elementi espressamente previsti dalla legge ai fini della formulazione del giudizio sull'opportunità della misura» (Cass. pen., sez. I, 7 aprile 1998, n. 2026, Girardo, in Mass. uff., n.211030).

In coerenza con il principio dell'individualizzazione del trattamento, «le prescrizioni non possono essere standardizzate secondo tipi rigidi, ma devono essere effettivamente statuite secondo la particolare personalità del soggetto, in un'ottica meramente riferibile all'efficacia della misura, nel senso della rieducazione e della prevenzione della recidiva». Pertanto, la possibilità di calibrare al meglio le regole imposte all'affidato postula necessariamente lo svolgimento di un'approfondita analisi della personalità del reo, la quale – unitamente alle prescrizioni di tipo propulsivo – rappresenta un importante veicolo di supporto al reinserimento sociale del condannato. Sul tema, la Suprema Corte ha affermato che i commi 5 e 6 dell'art. 47 ord. penit. «non prevedono alcuna limitazione in ordine al contenuto delle prescrizioni le quali, quindi, purché non contrarie alla legge e non immotivatamente afflittive, devono considerarsi legittime se rispondenti alla finalità di impedire al soggetto di svolgere attività o di avere rapporti personali che possano portare al compimento di altri reati. Ne consegue che, il contenuto delle prescrizioni può anche essere identico, sia pure parzialmente, a quello di una pena accessoria tipica» (Cass. pen., n. 2026, Girardo, cit.).

Con riguardo all'affidamento in prova ordinario di cui all'art. 47 ord. penit. occorre fare riferimento ai comma 5, 6 e 7 della norma.

Una prima distinzione che si può delineare è quella tra prescrizioni obbligatorie e prescrizioni facoltative. Appartengono alla prima categoria quelle previste dai commi 5 e 7 dell'art. 47. Si tratta, in particolare, delle prescrizioni relative ai rapporti che il condannato dovrà tenere con l'U.E.P.E., alla dimora, alla libertà di locomozione, al divieto di frequentare determinati locali, al lavoro; della prescrizione impositiva dell'obbligo di attivarsi, per quanto possibile, in favore della vittima e di adempiere puntualmente agli obblighi di assistenza familiare. Rientrano nella seconda categoria, invece, le prescrizioni indicate nel comma 6 della norma e cioè quella impositiva del divieto o dell'obbligo di soggiornare in un determinato comune e quella finalizzata ad impedire che il condannato svolga attività o abbia rapporti personali suscettibili di condurre alla commissione di ulteriori reati.

Sotto il profilo finalistico, le prescrizioni possono poi essere distinte tra prescrizioni aventi una finalità risocializzante e prescrizioni dirette a perseguire uno scopo special-preventivo in senso stretto, vale a dire di neutralizzare dei fattori di recidiva. Appartengono alla prima categoria le prescrizioni relative ai rapporti con l'U.E.P.E., allo svolgimento dell'attività lavorativa ed all'obbligo di attivarsi a favore della persona offesa che di regola si identifica con quella di risarcire il danno ad essa cagionato. Al riguardo, si è affermato che la prescrizione che impone al condannato l'obbligo di risarcire il danno deve essere correlata alle concrete condizioni economiche del condannato e non può essere formulata in termini di incondizionato ed assoluto obbligo al risarcimento integrale dei danni (Cass. pen., sez. I, 21 novembre 2021, n. 2614, Mariotti; Cass. pen., sez. I, 17 novembre 2009, n. 47126, Colatore, in Ced Cass., n. 245886). Rientrano nella seconda categoria, invece, le prescrizioni che impongono limitazioni alla libertà di movimento (divieto di allontanarsi dal domicilio in una determinata fascia oraria, di solito nelle ore notturne; obbligo di non allontanarsi dal territorio di un determinato comune o da quello di una provincia); divieto di frequentare determinate categorie di persone (si pensi alla prescrizione che vieta al condannato di frequentare pregiudicati, tossicodipendenti, persone sottoposte a misure di prevenzione o di sicurezza) e determinati luoghi (per esempio locali dove si somministrano bevande alcoliche o sale giochi o scommesse) o di svolgere determinate attività (si pensi alla prescrizione con la quale si vieta alla persona condannata per il reato di omicidio colposo commesso a seguito di guida in stato di ebbrezza di condurre qualsiasi tipo di veicolo).

È il caso di evidenziare che le prescrizioni limitative della libertà personale svolgono, oltre alla funzione special-preventiva, anche una funzione retributivo-afflittiva, indispensabile affinché il condannato comprenda di essere comunque soggetto all'espiazione di una pena quale conseguenza della propria condotta antisociale e deviante (ciò è esplicitamente riconosciuto anche da Cass. pen., sez. I, 9 marzo 2011, n. 13499, Lieto, in Ced Cass., n. 249865).

Va ritenuto che, sia pure nel quadro delineato dal legislatore che ha configurato alcune prescrizioni come obbligatorie, la determinazione concreta delle prescrizioni alle quali deve attenersi il condannato sia rimessa alla valutazione discrezionale del Tribunale di Sorveglianza. La discrezionalità si esplica in due diverse direzioni. La prima consiste nel determinare le prescrizioni da imporre in concreto al condannato nell'ambito della categoria genericamente definita dal legislatore. La seconda, invece, si esplica nell'imporre al condannato anche prescrizioni non riconducibili ad una previsione normativa (c.d. prescrizioni atipiche) purché utili ai fini del perseguimento delle finalità proprie dell'affidamento in prova e non immotivatamente afflittive. Si pensi all'obbligo di sottoporsi ad un programma terapeutico per affrontare il problema del gioco d'azzardo che può essere all'origine della commissione di reati contro il patrimonio ovvero, per gli autori dei delitti sessuali, all'obbligo di svolgere un programma terapeutico di aiuto e di sostegno psicologico capace di incidere su quelle disarmonie della personalità che si sono manifestate nell'aggressione all'altrui libertà sessuale.

Pertanto, attraverso la misura alternativa dell'affidamento in prova al servizio sociale, l'ordinamento ha inteso attuare una forma dell'esecuzione della pena esterna al carcere nei confronti di condannati per i quali, alla luce dell'osservazione della personalità e di altre acquisizioni ed elementi di conoscenza, sia possibile formulare una ragionevole prognosi di completo reinserimento sociale all'esito della misura alternativa (C. cost., 5 dicembre 1997, n. 377).

L'incidenza dell'attività lavorativa del condannato

Nel novero degli elementi valutabili dal Tribunale di Sorveglianza chiamato a decidere in ordine alla concessione dell'affidamento in prova rientra, a pieno titolo, lo svolgimento di un'attività lavorativa da parte del soggetto istante. Trattasi, infatti, di un fattore estremamente significativo in quanto idoneo sia ad incentivare la risocializzazione del reo sia a scongiurare un eventuale pericolo di reiterazione di atti criminosi.

A tal proposito, occorre dare rilievo a due aspetti. Anzitutto, possono presentarsi anche situazioni in cui l'attività lavorativa svolta dal reo sia incompatibile con le finalità proprie dell'affidamento, come accade allorquando il soggetto istante intenda continuare a svolgere la medesima attività cui si ricollega la consumazione del reato e, dunque, quando tale impegno abbia una natura illecita e truffaldina. In secondo luogo giova notare che, la disponibilità di un lavoro stabile – pur condizionando pesantemente sia il contenuto della misura (rectius la determinazione delle prescrizioni da imporre all'affidato) sia un eventuale giudizio di revoca della misura – non rappresenta affatto un requisito indispensabile ai fini della concessione dell'affidamento in prova, che può essere applicata anche in mancanza di qualsiasi attività lavorativa, qualora il condannato, nonostante la buona volontà non riesca a reperire un lavoro, ma possa comunque impegnarsi in attività utili socialmente. Nella giurisprudenza di alcuni Tribunali di Sorveglianza è emersa la prassi di inserire tra le prescrizioni da imporre al reo quella relativa allo svolgimento di attività di volontariato o di utilità sociale a favore di enti o associazioni eventualmente individuate mediante intervento dell'U.E.P.E. Si tratta di un'impostazione che risponde all'esigenza di valorizzare il fine risocializzante dell'affidamento (si pensi ad esempio all'utilità ed all'opportunità di una prescrizione che preveda che la persona condannata per il delitto di spaccio di sostanze stupefacenti svolga una prestazione di lavoro non retribuito a favore di una comunità di recupero per tossicodipendenti) e che rappresenta un tentativo di assicurare un contenuto sostanziale alla misura alternativa.

La stessa giurisprudenza della Corte di cassazione è ormai costante nell'affermare che «la disponibilità di un'attività lavorativa è elemento che ha una rilevanza soltanto marginale ed eventuale ai fini della concessione dell'affidamento in prova al servizio sociale (a differenza di quanto previsto per la semilibertà), sicché la relativa mancanza non può da sola precludere l'applicazione dell'istituto in questione» (Cass. pen., sez. I, 23 marzo 1999, n. 2422, Donnini; Cass. pen., sez. I, 18 giugno 2009, n. 26789, Gennari; Cass. pen., sez. I, 30 ottobre 2018, n. 1023, Fusillo, che ha ulteriormente precisato che «sono i risultati del trattamento individualizzato a costituire il dato di riferimento per l'accesso all'affidamento in prova al servizio sociale ed al giudice di merito spetta verificare se dagli elementi valutativi disponibili possa trarsi il giudizio prognostico favorevole al reinserimento del condannato nella società. Ai fini della concessione dell'affidamento in prova al servizio sociale, lo svolgimento di un'attività lavorativa è soltanto uno degli elementi idonei a concorrere alla formazione del giudizio prognostico favorevole al reinserimento sociale del condannato, ma non può rappresentare una condizione ostativa di accesso alla misura qualora lo stesso non possa prestare tale attività per ragioni di salute»).

Infatti, la Corte si è espressa più volte in senso positivo nel concedere la misura dell'affidamento in prova al servizio anche nei casi cui mancasse una specifica attività lavorativa, affermando che «lo svolgimento di attività lavorativa, pur rappresentando un mezzo di reinserimento sociale valutabile nel più generale giudizio sulla richiesta di affidamento in prova al servizio sociale, non costituisce, da solo, qualora mancante, condizione ostativa all'applicabilità di detta misura, trattandosi di parametro apprezzabile unitamente agli altri elementi sottoposti alla valutazione del giudice di merito» (Cass. pen., sez. I, 21 settembre 1999, n. 5076, Jankovic; Cass. pen., sez. I, 10 dicembre 2018, n. 16541, Ojo Jennifer).

A tal proposito, richiamando l'orientamento della giurisprudenza di legittimità esposto nei precedenti paragrafi, va precisato che «ai fini della concessione dell'affidamento in prova al servizio sociale, pur non potendosi prescindere dalla natura e dalla gravità dei reati per cui è stata irrogata la pena in espiazione, quale punto di partenza dell'analisi della personalità del soggetto, è tuttavia necessaria la valutazione della condotta successivamente serbata dal condannato, essendo indispensabile l'esame anche dei comportamenti attuali del medesimo, attesa l'esigenza di accertare non solo l'assenza di indicazioni negative, ma anche la presenza di elementi positivi che consentano un giudizio prognostico di buon esito della prova e di prevenzione del pericolo di recidiva» (Cass. pen., sez. I, 5 maggio 2015, n. 31420).

Si evince, pertanto, come la modifica normativa disposta dal decreto-legge n. 92/2024, conv. l. 8 agosto 2024, n. 112, mediante l'inserimento di un nuovo comma 2-bis all'art. 47 ord. penit. si adegua, in sostanza, a quello che già da tempo era l'orientamento consolidatosi nella giurisprudenza di legittimità circa la possibilità di concedere l'affidamento anche in assenza del presupposto dell'attività lavorativa, qualora questa possa essere sostituita da attività di volontariato o di pubblica utilità. Emerge, infatti, la necessità di far fronte all'esigenza rieducativa a cui la misura alternativa auspica, ampliandone la sua fruizione e riducendo, in parte, quello che è da sempre è uno dei principali problemi che caratterizza le carceri italiane, ossia il sovraffollamento.

A tal proposito, va precisato che non solo l'attività lavorativa in senso stretto intesa contribuisce nel percorso rieducativo e risocializzante del condannato, in quanto anche l'attività di volontariato e il lavoro di pubblica utilità rappresentano misure efficaci per il reinserimento sociale del condannato. Tali attività, non solo forniscono opportunità per contribuire positivamente alla comunità, ma servono anche proprio come strumenti di rieducazione e di riparazione. Esempi di lavoro di pubblica utilità sono quelli di manutenzione e ristrutturazione (lavori di manutenzione di spazi pubblici, scuole, parchi o edifici comunali); servizi alla comunità (attività di supporto in associazioni di beneficenza, centri di accoglienza o servizi di assistenza sociale); progetti ambientali (attività legate alla cura e protezione dell'ambiente).

Concludendo, in relazione al profilo applicativo, è da ritenere che la nuova disposizione possa trovare applicazione anche in rapporto alla concessione della semilibertà “surrogatoria” dell'affidamento in prova di cui all'art. 50 comma 2 ord. penit., ove è stabilito che, nei casi previsti dall'art. 47, se mancano i presupposti per l'affidamento in prova al servizio sociale, il condannato per un reato diverso da quelli indicati nell'art. 4-bis ord. penit. può essere ammesso al regime di semilibertà anche prima dell'espiazione di metà della pena.

Considerazioni conclusive

Con riguardo alla modifica della disciplina dell'affidamento in prova, il decreto-legge, 4 luglio 2024, n. 92 codifica, mediante l'inserimento di un'apposita prescrizione legislativa, quello che da tempo era l'orientamento consolidatosi nella giurisprudenza di legittimità in ordine alla possibilità di concessione del beneficio in esame anche in assenza del presupposto dell'attività lavorativa del condannato. Trattasi, infatti, di un requisito spesso difficile da assolvere per il reo stesso, soprattutto a causa del suo status da “pregiudicato”, che gli impedisce di raggiungere quell'obiettivo di reinserimento sociale, di cui la misura alternativa costituisce il mezzo. Sul punto, la stessa giurisprudenza di legittimità ha più volte affermato come anche l'attività di volontariato o il lavoro di pubblica utilità soddisfano quelle esigenze di rieducazione e risocializzazione che la misura alternativa si propone di raggiungere al suo esito. Si tratta di elementi cruciali, di più intenso contatto costruttivo tra l'autore del reato e la società nella quale chiede di essere inserito.

L'inserimento del nuovo comma 2-bis all'interno dell'art. 47 ord. penit. apre così ad una nuova stagione per la misura alternativa dell'affidamento in prova, aspirando ad una sua maggior concessione e, dunque, ad un maggior rispetto del principio costituzionale rieducativo della pena, favorendo il reinserimento sociale del condannato.

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