La (poco coraggiosa) revisione dell’art. 189 c.c.i.i. ad opera del Correttivo-ter.

15 Ottobre 2024

Lo scritto ripercorre la disciplina dei rapporti di lavoro contenuta nel codice della crisi, analizzando le novità apportate dal Correttivo-ter e segnalando le lacune tutt’oggi non colmate dal legislatore, in particolare in tema di procedure liquidatorie di rilevanti dimensioni e correlata esigenza di non dispersione del valore aziendale rappresentato dal know-how dei dipendenti.

Introduzione

Il decreto legislativo 13 settembre 2024, n. 136 (c.d. Correttivo-ter), pubblicato nella Gazzetta Ufficiale lo scorso 27 settembre, è intervenuto sulle norme che disciplinano i rapporti di lavoro, con interventi minimi, oseremmo dire di pura cosmetica, che non hanno modificato la sostanza e, molto probabilmente, hanno deluso qualche legittima aspettativa.

Ha infatti trovato conferma l'impianto originario varato con la prima versione del codice della crisi, che aveva già previsto: la sospensione del rapporto ex lege con effetto retroattivo alla data di apertura; il subentro su specifica autorizzazione del giudice delegato, sentito il comitato dei creditori; il recesso sia con le modalità già note, da intimare in forma scritta (individuale e con la procedura di licenziamento collettivo, semplificata con termini ridotti rispetto alla disciplina della legge n. 223/1991), sia con la cessazione automatica; la possibilità per i lavoratori di rassegnare le dimissioni per giusta causa immediatamente dopo l'apertura della procedura di liquidazione giudiziale, a condizione di non beneficiare di uno dei trattamenti di sostegno al reddito previsti dal decreto legislativo 14 settembre 2015, n. 148.

Saremmo, quindi, indotti a ritenere che il quadro complessivo della disciplina abbia appianato in modo definitivo i dubbi emersi una volta varata la riforma della legge fallimentare, con il decreto legislativo 12 gennaio 2019, n. 14.

A parere di chi scrive, sembrano invece permanere aree di incertezza che, soprattutto per le procedure liquidatorie di rilevanti dimensioni (sia per l'impatto sociale, sia per il valore degli asset da salvaguardare), necessiterebbero di soluzioni più appropriate e di un maggiore coordinamento con altri istituti, primo tra tutti una misura a sostegno del reddito necessaria per garantire un sostegno temporaneo, anche di breve durata, finalizzato a valutare ipotesi di continuità, diretta o indiretta (con esercizio provvisorio o affitto-ponte e successiva cessione), evitando così la dispersione del valore aziendale.

Sospensione, subentro e licenziamento individuale: impianto normativo confermato

È risaputo che con il codice della crisi e dell'insolvenza è stata disciplinata, per la prima volta ed in modo organico, la sorte dei rapporti di lavoro subordinato in caso di apertura della liquidazione giudiziale.

L'art. 189 c.c.i.i. ha infatti definito un articolato quadro normativo, in gran parte debitore di orientamenti giurisprudenziali consolidatisi nel tempo durante la vigenza della legge fallimentare del 1942 (quali quelli che stabiliscono la sospensione del rapporto alla data di apertura della procedura, comma 1); ma ha introdotto anche una serie di regole speciali (come quelle riguardanti la procedura di licenziamento collettivo semplificata, comma 6), quando non innovative: come per la risoluzione di diritto del rapporto di lavoro, che opera in mancanza di subentro o recesso, decorsi quattro mesi dalla sentenza dichiarativa (comma 3) e le dimissioni del lavoratore, qualificate ex lege per giusta causa quando intervengano tra la data di apertura della procedura e quella di recesso o subentro (comma 5).

I rapporti di lavoro nella legge fallimentare del 1942

Il Regio Decreto n. 267 del 1942 non disciplinava in modo specifico gli effetti del fallimento sui rapporti di lavoro subordinato e l'art. 2119, comma 2, del codice civile disponeva unicamente che «il fallimento dell'imprenditore non costituisce giusta causa di risoluzione del contratto»: l'unica certezza era quindi che l'apertura della procedura fallimentare non potesse determinare la risoluzione del contratto di lavoro.

Il lacunoso panorama normativo induceva a chiedersi se ai rapporti di lavoro fossero applicabili l'art. 72 della legge fallimentare e la disciplina ordinaria dei licenziamenti.

L'art. 72 l. fall. – in realtà genericamente dedicato ai «Rapporti pendenti» – disponeva che «se un contratto è ancora ineseguito o non compiutamente eseguito da entrambe le parti quando, nei confronti di una di esse, è dichiarato il fallimento, l'esecuzione del contratto ... rimane sospesa fino a quando il curatore, con l'autorizzazione del comitato dei creditori, dichiara di subentrare nel contratto in luogo del fallito, assumendo tutti i relativi obblighi, ovvero di sciogliersi dal medesimo».

Al contrario della dottrina, che faceva registrare posizioni contrastanti, la giurisprudenza accoglieva la tesi dell'applicabilità di tale norma al rapporto di lavoro, statuendo che, una volta dichiarato il fallimento, il rapporto di lavoro entra in una fase di sospensione che termina con la decisione del curatore di subentrare nel contratto o di sciogliersi da esso (cfr., per tutte, Cass., 14 maggio 2012, n. 7473); la quiescenza si estende alle rispettive obbligazioni contrattuali (vale a dire le prestazioni lavorative a carico del lavoratore e quelle retributive e contributive a carico del curatore); il recesso del curatore dal rapporto di lavoro retroagisce alla data di apertura del fallimento e dunque la relativa indennità sostitutiva del preavviso è considerata credito anteriore all'apertura della procedura da insinuare con apposita domanda di ammissione al passivo in via privilegiata ex art. 2751-bis n. 1 c.c., proprio in considerazione del fatto che il licenziamento non avviene per giusta causa.

Gli orientamenti giurisprudenziali si consolidavano anche con riguardo all'applicabilità della disciplina dei licenziamenti: la Cassazione, infatti, con sentenza 11 gennaio 2018, n. 522, ha definitivamente chiarito che «la decisione del curatore di sciogliersi dal rapporto di lavoro sospeso ex art. 72 alla data di apertura del fallimento dev'essere esercitata nel rispetto delle norme limitative dei licenziamenti individuali e collettivi, non essendo sottratta ai vincoli dell'ordinamento lavoristico».

L'impianto normativo dell'art. 189 c.c.i.i.: la sospensione del rapporto di lavoro ed il subentro

In continuità con il quadro normativo e giurisprudenziale vigente con la legge fallimentare del 1942, il comma 1 dell'art. 189 c.c.i.i. ha quindi disposto che i rapporti di lavoro «sono sospesi fino a quando il curatore, previa autorizzazione del giudice delegato, sentito il comitato dei creditori, comunica ai lavoratori di subentrarvi, assumendo i relativi obblighi, ovvero il recesso».

Il decreto correttivo n. 136/2024 ha espunto l'adempimento che prevedeva a carico della curatela l'onere di trasmettere all'Ispettorato Territoriale del Lavoro competente per territorio in base al luogo di apertura della procedura un elenco dei dipendenti dell'impresa in forza al momento dell'apertura della procedura, entro 30 giorni dalla sua nomina.

I rapporti di lavoro possono restare sospesi senza dare origine ad obbligazioni retributive e contributive fino a quattro mesi dalla data di apertura della liquidazione giudiziale. Il termine può essere prorogato dal Giudice Delegato di un ulteriore periodo non superiore a otto mesi «se sussistono elementi concreti per l'autorizzazione all'esercizio dell'impresa o di un suo ramo», tanto su istanza del curatore, quanto dei singoli lavoratori. Il decreto correttivo, oltre ad escludere da tale facoltà il direttore dell'Ispettorato Territoriale del Lavoro (inizialmente previsto nella prima stesura del codice), ha soprattutto eliminato il termine di decadenza di quindici giorni prima della scadenza del termine, entro cui andava depositata l'istanza per ottenere la proroga.

È stato dunque confermato che la sospensione dei rapporti può quindi arrivare complessivamente a dodici mesi.

Il decreto correttivo ha anche eliminato la previsione secondo cui, qualora all'esito della proroga il curatore non fosse proceduto al subentro o al recesso ed i rapporti si fossero risolti di diritto, sarebbe stata dovuta a ciascun lavoratore un'indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale pari a due mensilità dell'ultima retribuzione per ogni anno di servizio, in misura non inferiore a due e non superiore a otto mensilità, da ammettere al passivo in prededuzione.

Al contrario della sospensione – che costituisce un effetto automatico dell'apertura della procedura –, il subentro del curatore nei rapporti necessita, come chiarisce il comma 1 dell'art. 189, dell'autorizzazione del giudice delegato, previo parere del comitato dei creditori e, a differenza della sospensione, che retroagisce alla data di apertura della liquidazione giudiziale, decorre dalla comunicazione del curatore ai lavoratori: pertanto, dalla data di apertura della liquidazione al subentro, non sono dovute né retribuzione né contribuzioni.

Diversa è la regola nel caso in cui il tribunale autorizzi il curatore all'esercizio provvisorio dell'impresa del debitore: come precisato dal comma 10 dell'art. 189, i rapporti di lavoro proseguono, restando salva la facoltà del curatore di procedere al licenziamento o alla sospensione.

La scelta di sospendere tutti o (ipotesi più realistica) solo una parte dei rapporti di lavoro nel corso dell'esercizio provvisorio dipenderà evidentemente dalle esigenze organizzative e produttive da verificare di volta in volta.

Dal momento che la prosecuzione dei rapporti nel caso di esercizio provvisorio costituisce la regola, il subentro del curatore sarà automatico ed avverrà senza necessità di forma o comunicazione in tal senso.

Che sia disposto o meno nell'ambito della continuazione dell'attività disposta dal tribunale, il subentro comporterà a carico della liquidazione giudiziale il sorgere di obbligazioni retributive e contributive mensili in prededuzione, così come – una volta intervenuto il recesso – per l'indennità sostitutiva del preavviso e delle quote di TFR maturate dalla data di apertura della procedura.

Il recesso individuale

Chiariti a grandi linee gli effetti dell'apertura della liquidazione giudiziale sui rapporti di lavoro, è necessario verificare tempistiche, modalità e formalità con cui deve essere esercitato il recesso dai rapporti di lavoro.

Il comma 3 dell'art. 189, nella versione aggiornata dal decreto correttivo, indica innanzitutto che «quando non è disposta né autorizzata la prosecuzione dell'esercizio dell'impresa e non è possibile il trasferimento dell'azienda o di un suo ramo» il curatore «comunica per iscritto il recesso dai relativi rapporti di lavoro subordinato».

L'adempimento, con il decreto correttivo, non è più richiesto “senza indugio” come nella versione del codice.

Seguendo l'orientamento giurisprudenziale predominante (oltre alla già citata Cassazione, 11 gennaio 2018, n. 522, con un commento degli scriventi su IUS Crisi, ius.giuffrefl.it, 25 giugno 2018; cfr. inoltre Cass. 22 ottobre 2018, n. 26671, Cass. 23 marzo 2018, n. 7308) il recesso dovrà avvenire applicando le ordinarie norme del diritto del lavoro.

Pertanto, sia nell'ipotesi di cessazione dell'attività aziendale, quanto in quella di trasferimento d'azienda (che verosimilmente avverrà nell'ambito dell'art. 47, legge n. 428/1990, in deroga all'art. 2112 c.c. e con conseguente passaggio parziale dei dipendenti), il curatore dovrà scegliere lo strumento corretto per gestire il personale in esubero.

Il tipo di procedura da seguire – tra licenziamenti individuali e licenziamenti collettivi – dipenderà dal numero dei dipendenti in carico alla procedura e dei recessi da intimare: il curatore potrà metter mano ai primi sia quando il numero dei lavoratori sia inferiore a quindici unità, sia nel caso in cui, pur essendo superiore a tale soglia, il numero dei recessi non ecceda quattro unità (se, infatti, i licenziamenti fossero almeno cinque, sarebbe obbligatorio il ricorso alla disciplina dei licenziamenti collettivi, ai sensi di quanto previsto dall'art. 24, legge n. 223/1991).

In tale ultimo caso, tuttavia, prima del recesso il curatore dovrà attivare la procedura disciplinata dall'art. 7 l. n. 604/1966 con una comunicazione (da inviare all'Ispettorato Territoriale del Lavoro del luogo in cui il lavoratore presta la sua opera) che ne preannuncia intenzioni e motivazioni dando così avvio al tentativo di conciliazione in sede amministrativa. Tale regime è applicabile ai lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015, non rientranti quindi nel regime del c.d. Jobs Act.

L'onere della motivazione, imposto dall'art. 2, legge n. 604/1966 dovrà essere assolto facendo riferimento al giustificato motivo oggettivo previsto dall'art. 3 della l. n. 604/1966. A tal proposito, sarà opportuno, se non necessario, fare riferimento alla cessazione dell'attività ed alla conseguente impossibilità di adibire il lavoratore a mansioni diverse da quelle svolte, adempiendo così all'onere di allegare (e provare nell'eventuale giudizio sulla legittimità del recesso) l'impossibilità del c.d. repêchage del lavoratore licenziato, che per giurisprudenza costante incombe sul datore di lavoro (Cass., sez. lav., 12 febbraio 2020, n. 3475).

L'indicazione delle ragioni del recesso individuale singolo o plurimo sarà per il curatore compito ancor più delicato nel caso di continuazione anche parziale dell'attività, per via dell'autorizzazione all'esercizio provvisorio (anche se solo limitatamente ad alcuni rami aziendali) o per il disbrigo di commesse già avviate, ovvero ancora per adempimenti di natura amministrativa, contabile e fiscale, soprattutto nel caso in cui le posizioni lavorative siano fungibili (è il caso di due o più lavoratori impiegati per lo svolgimento dei medesimi compiti): in tal caso la decisione dei lavoratori da licenziare dev'essere effettuata alla luce di criteri che garantiscano scelte imparziali ed obiettive.

Soccorre a tal fine l'insegnamento della giurisprudenza di legittimità secondo la quale, pur non versandosi nell'ipotesi di licenziamento collettivo regolata dalla legge n. 223/1991, la legittimità di un licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo indotto da esigenze inerenti all'attività produttiva dipende, oltre che dalla condizione della comprovata impossibilità di utilizzare "aliunde" il lavoratore licenziato, anche dal rispetto delle regole di correttezza di cui all'art. 1175 c.c., che nel caso in esame possono essere desunte, in via analogica e pur nella diversità dei rispettivi regimi, proprio dalla l. n. 223/1991, potendosi far riferimento in particolare ai criteri dei carichi di famiglia, dell'anzianità e delle esigenze tecnico-produttive ed organizzative (cfr. Cass., 21 novembre 2001, n. 14663, Trib. Monza, 16 maggio 2005 in Riv. crit. dir. lav. 2005, 4, p. 894).

Il decreto correttivo ha specificato (ultimo periodo del comma 3 dell'art. 189) che «in caso di cessazione del rapporto di lavoro ai sensi del presente articolo non è dovuta dal lavoratore la restituzione delle somme eventualmente ricevute, a titolo assistenziale o previdenziale, nel periodo di sospensione».

La procedura semplificata per il licenziamento collettivo. Il mancato rifinanziamento dell'esonero dal pagamento del ticket NASpI mette il curatore di fronte ad un bivio

Per le imprese di maggiori dimensioni, il curatore dovrà verificare la sussistenza delle due condizioni che impongono l'attivazione della procedura di licenziamento collettivo, secondo l'iter disciplinato dal comma 6 dell'art. 189.

La prima riguarda l'impresa ammessa al trattamento straordinario di integrazione salariale che, nel corso di attuazione di uno dei programmi previsti dall'art. 21 d.lgs. n. 148/2015, non sia in grado di garantire il reimpiego a tutti i lavoratori sospesi e non possa ricorrere a misure alternative ai licenziamenti e troverà applicazione alle imprese in possesso dei requisiti per l'accesso alla CIGS individuati dall'art. 20 d.lgs. n. 148/2015 (più di quindici o cinquanta dipendenti occupati mediamente nel semestre precedente la data di presentazione della domanda, rispettivamente per le imprese industriali e per quelle esercenti attività commerciale, logistica, agenzie di viaggio e turismo).

La seconda consiste nella riduzione di personale che le imprese con più di quindici dipendenti devono esperire anche a prescindere dalla preventiva ammissione al trattamento straordinario di integrazione salariale, in conseguenza di una riduzione o trasformazione di attività che renda necessario effettuare almeno cinque licenziamenti nell'arco di centoventi giorni in ciascuna unità produttiva, o in più unità produttive nell'ambito del territorio di una stessa provincia.

Ai fini della verifica della sussistenza del requisito dimensionale necessario per poter valutare la necessità di avviare la procedura di licenziamento collettivo, i criteri per il computo dei lavoratori sono indicati dall'art. 27 d.lgs. n. 81/2015.

La formulazione scelta dal legislatore («nel caso in cui il curatore intenda procedere a licenziamento collettivo»), uguale a quella prevista dall'art. 4 l. n. 223/1991 non deve trarre in inganno: il curatore non è titolare di una facoltà, ma di un vero e proprio obbligo.

Pertanto, qualora sussista il requisito dimensionale nella misura sopra considerata, esperire la procedura, anche nel caso in cui l'attività d'impresa sia già cessata prima dell'apertura della liquidazione giudiziale, sarà un vero e proprio obbligo, come chiarito da un orientamento giurisprudenziale consolidato (Cass. 11 gennaio 2018, n. 522; Cass. 8 luglio 2004, n. 12645; Cass. 3 marzo 2003, n. 3129).

La procedura prevista dal comma 6 dell'art. 189, che ricalca quella prevista dall'art. 4 della legge n. 223/91, seppure nella forma più semplificata che il decreto correttivo non ha modificato, prevede la seguente scansione:

  1. il curatore deve trasmettere la comunicazione di avvio, oltre che a r.s.a. costituite ex art. 19 dello Statuto dei Lavoratori (ovvero alle R.S.U.) nonché alle associazioni di categoria, altresì (adempimento non previsto dalla legge n. 223) all'Ispettorato territoriale del lavoro del luogo ove i lavoratori interessati prestano in prevalenza la propria attività e, comunque, all'Ispettorato territoriale del lavoro del luogo ove è stata aperta la liquidazione giudiziale;
  2. la comunicazione dei motivi che determinano la situazione di eccedenza deve essere sintetica;
  3. un esame congiunto può essere convocato anche dall'Ispettorato Territoriale del Lavoro, nel solo caso in cui l'avvio della procedura di licenziamento collettivo non sia stato determinato dalla cessazione dell'attività dell'azienda o di un suo ramo. Qualora entro il termine di sette giorni non sia pervenuta alcuna istanza di esame congiunto o lo stesso non sia stato fissato dall'ITL in data compresa entro i quaranta giorni dal ricevimento della comunicazione di avvio, la procedura si intende esaurita;
  4. all'esame congiunto può partecipare il direttore dell'Ispettorato territoriale del lavoro o funzionario da questi delegato;
  5. la procedura trova applicazione anche nel caso di licenziamento di uno o più dirigenti, in tal caso svolgendosi l'esame congiunto in apposito incontro;
  6. la consultazione si intende esaurita qualora, decorsi dieci giorni dal suo inizio, non sia stato raggiunto un accordo sindacale, salvo che il giudice delegato, per giusti motivi ne autorizzi la proroga, prima della sua scadenza, per un termine non superiore a dieci giorni.

Il decreto correttivo ha specificato che la procedura semplificata, oltre a non riguardare le imprese in amministrazione straordinaria (come già indicato dal comma 7 dell'art. 189 c.c.i.i., ora divenuto comma 8), non si applica neppure alle liquidazioni giudiziali di imprese che, nell'anno precedente, abbiano occupato mediamente almeno 250 dipendenti ed intendano procedere alla chiusura di una sede, di uno stabilimento, di una filiale, o di un ufficio o reparto autonomo situato nel territorio nazionale, con cessazione definitiva della relativa attività e con licenziamento di un numero di lavoratori non inferiore a 50 (art. 1, commi da 224 a 238, legge 30 dicembre 2021, n. 134).

Tanto premesso, si deve concordare con chi ha osservato che il mancato finanziamento dell'esonero dal pagamento delle quote di accantonamento del trattamento di fine rapporto, relative alla retribuzione persa a seguito della riduzione oraria o sospensione dal lavoro e soprattutto dal pagamento del c.d. ticket di licenziamento (art. 2, comma 31, legge 28 giugno 2012, n. 92) previsto dall'art. 43-bis del decreto-legge 28 settembre 2018, n. 109 (c.d. decreto Genova) fino al 2023 a favore delle procedure concorsuali,  rende problematico per il curatore intraprendere la procedura di licenziamento collettivo (A. Riva, Il licenziamento collettivo previsto dall'art. 189 del ccii: il concreto comportamento sindacale rende inopportuna l'apertura della procedura di licenziamento collettivo ad iniziativa della Curatela, in Diritto della crisi, 2 agosto 2024).

Il mancato accordo delle organizzazioni sindacali, restie a prestare il consenso ai licenziamenti, comporta difatti la triplicazione del ticket di licenziamento che, per ogni lavoratore, ammonta ad euro 11.500,00 da ammettere al passivo ai sensi dell'art. 2751-bis n. 1 c.c. come credito anteriore all'apertura della liquidazione giudiziale, solo nell'ipotesi in cui il curatore non sia subentrato nei rapporti di lavoro.

Il pregiudizio che potrebbe derivare ai creditori, soprattutto per le procedure con rilevanti requisiti dimensionali, appare evidente e costringe il curatore a valutare attentamente la situazione, nel caso in cui non sia stato acquisito il preventivo consenso delle organizzazioni sindacali.

La cessazione automatica del rapporto di lavoro (decorsa la sospensione)

La maggiore novità introdotta dall'art. 189 c.c.i.i. riguardava il fatto che il rapporto di lavoro potesse essere oggetto di risoluzione di diritto qualora, decorso il termine di quattro mesi dalla data di apertura della liquidazione giudiziale, il curatore non avesse comunicato il subentro.

Il decreto correttivo, pur depurando il testo dei commi 3 e 4 da ogni riferimento alla risoluzione di diritto, ha in ogni caso lasciato invariata la sostanza: decorso il termine della sospensione del rapporto (sia nella durata iniziale di quattro mesi, sia in quella maggiore, per effetto della proroga autorizzata dal giudice delegato), si legge infatti nel nuovo testo, «i rapporti di lavoro in essere cessano».

Anche in tal caso, come per il recesso scritto, la cessazione decorre retroattivamente dalla data di apertura della liquidazione giudiziale, dando diritto al lavoratore con rapporto a tempo indeterminato di insinuare al passivo l'indennità di mancato preavviso come credito anteriore e quindi ai sensi dell'art. 2751-bis n. 1 c.c. Medesimo privilegio avrà il ticket di licenziamento, che sarà dovuto nella misura ordinaria, indipendentemente dal numero delle cessazioni, non essendovi in questo caso la necessità di concludere un accordo con le organizzazioni sindacali.

Le dimissioni per giusta causa del lavoratore: il rischio concreto di dispersione del valore aziendale

Il decreto correttivo ha lasciato inalterata la disposizione varata con il codice della crisi secondo cui la cessazione del rapporto di lavoro può avvenire anche su impulso del lavoratore, con l'esercizio delle dimissioni per giusta causa: il comma 5 dell'art. 189 c.c.i.i. dispone difatti che «le eventuali dimissioni del lavoratore nel periodo di sospensione tra la data della sentenza dichiarativa fino alla data di comunicazione di cui al comma 1, si intendono rassegnate per giusta causa ai sensi dell'articolo 2119 del codice civile con effetto dalla data di apertura della liquidazione giudiziale» a condizione che il lavoratore non goda di uno dei trattamenti di integrazione salariale previsti dal decreto legislativo n. 148 del 2015 o di altre prestazioni di sostegno al reddito.

Occorre purtroppo ribadire quanto è già stato sostenuto dai commentatori della norma con argomentazioni che avevano fatto sperare nella revisione della disposizione: offrire al lavoratore la possibilità di accedere immediatamente al godimento della NASpI, senza attendere che si concretizzino ipotesi di trasferimento dell'azienda o di un suo ramo, comporta in modo inevitabile la dispersione del valore dell'azienda, che nella gran parte dei casi è costituito proprio dal know-how dei dipendenti.

La c.d. NASpI liquidazione giudiziale, ventilata in una delle prime bozze del codice della crisi con l'intento di garantire il sostegno al reddito durante la fase di sospensione del rapporto di lavoro successiva all'apertura della procedura, poi eliminata a causa del fatto che dal codice della crisi non dovevano discendere nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica, avrebbe garantito, e garantirebbe, al lavoratore che viene coinvolto suo malgrado nella procedura un prezioso sostegno economico.

Il trattamento NASpI previsto alla cessazione del rapporto di lavoro: precisato il termine di presentazione della domanda

Il decreto correttivo, con l'inserimento del comma 1-bis nell'art. 190 c.c.i.i., ha precisato che i termini per la presentazione della domanda per il godimento del trattamento NASpI, pacificamente dovuto in tutti i casi di cessazione del rapporto di lavoro contemplati dall'art. 189 del codice decorrono dalla comunicazione della cessazione da parte del curatore o delle dimissioni del lavoratore.

Nel caso della cessazione di diritto (prevista dal secondo periodo del comma 3 e dall'ultimo periodo del comma 4), non contemplato dal comma 1-bis, sembra evidente far decorrere i termini dalla scadenza del periodo di sospensione di quattro mesi o da quello più lungo risultante dalla proroga del giudice delegato.

L'art. 47 trova applicazione solo in presenza del previsto requisito dimensionale

La formulazione dell'art. 191 c.c.i.i. precedente al decreto correttivo stabiliva semplicemente che al trasferimento di azienda nell'ambito delle procedure di liquidazione giudiziale, concordato preventivo e al trasferimento d'azienda in esecuzione di accordi di ristrutturazione si applicasse l'art. 47 della legge 29 dicembre 1990, n. 428 e l'art. 11 del decreto-legge 23 dicembre 2013, n. 145: il primo detta una procedura di informazione e consultazione sindacale da attivare nel caso in cui, nonché una serie di ipotesi (liquidazione giudiziale, concordato preventivo liquidatorio o in continuità indiretta, accordo di ristrutturazione dei debiti) in presenza delle quali è possibile, nell'ambito di operazioni di trasferimento d'azienda in cui sono complessivamente occupati più di quindici lavoratori (comma 1, art. 47), stipulare accordi collettivi modificativi delle condizioni di lavoro; il secondo attribuisce alle società cooperative costituite da lavoratori dipendenti dell'impresa sottoposta a fallimento, concordato preventivo, amministrazione straordinaria o liquidazione coatta amministrativa la prelazione nel caso di affitto o vendita dell'azienda o di un suo ramo.

Secondo una parte della dottrina, la formulazione dell'art. 191 costituiva una conferma implicita, con riferimento quantomeno ai casi espressamente menzionati, della tesi secondo cui l'art. 47 l. n. 428/1990 avrebbe dovuto trovare applicazione solo nel caso di trasferimento di aziende che avessero oltrepassato la soglia dei 15 dipendenti complessivi, sul presupposto del richiamo dell'intera norma, compresi i commi 1 e 2, e non solo dei commi 5 e 5-ter  (per tutti, cfr. M. NOVELLA, Diritti dei lavoratori e trasferimenti di azienda nel Codice della crisi e dell'insolvenza. Vecchie e nuove questioni, in Riv. giur. lav., 2019, I, 646).

Appariva tuttavia più aderente alle intenzioni del legislatore l'interpretazione che consentiva di estendere la portata applicativa dell'art. 47 anche alle situazioni in cui il requisito dimensionale fosse stato inferiore a quello fissato dal comma 1: non solo perché diversamente l'art. 191 sarebbe rimasto meramente descrittivo di una situazione già esistente, ma soprattutto perché, con la sua formulazione letterale, esso sembrava individuare le ipotesi in cui l'art. 47 appariva applicabile a prescindere da ogni requisito dimensionale dando così rilievo alla parte sostanziale di tale norma, anziché solo a quella di carattere procedurale.

Modificando l'art. 191, il decreto correttivo ha chiarito che l'art. 47, l'art. 11 e le altre disposizioni vigenti in materia trovano applicazione al trasferimento di azienda disposto nell'ambito degli strumenti di regolazione della crisi e dell'insolvenza o della liquidazione giudiziale o controllata si applicano, in presenza dei relativi presupposti.

Conclusioni

Anche dopo questa tornata di correzioni, sembra essere stata persa l’occasione per creare regole in grado di contemperare l’esigenza di tutela dei singoli con quella della salvaguardia del valore aziendale, tanto cara al codice della crisi e alla direttiva Insolvency.

La questione più delicata riguarda infatti quella delle dimissioni per giusta causa: senza un intervento mirato a sostegno del reddito a favore dei lavoratori sospesi, anche solo per il tempo strettamente necessario a verificare possibilità di trasferire l’azienda, è facile prevedere la disgregazione atomistica dei beni.

A questo, si è aggiunto dal 2024 il mancato finanziamento dell’esonero del ticket NASpI, che, nelle situazioni in cui le organizzazioni sindacali non dovessero garantire l’esito positivo della procedura di licenziamento collettivo, rende sempre più appetibile la soluzione della cessazione automatica, una volta decorso il termine della sospensione.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.

Sommario