In assenza di dolo non costituisce diffamazione l’invio di messaggi lesivi della reputazione altrui su Messenger
10 Dicembre 2024
Massima L'invio di messaggi diffamatori attraverso messenger non integra il delitto di diffamazione per assenza di dolo. Al fine di configurare tale reato è necessario che l'agente sia consapevole di comunicare con più persone o di agire in modo tale che le informazioni possano diffondersi. Il caso La Corte d'appello dell'Aquila aveva condannato Tizia per diffamazione aggravata ai sensi dell'art. 595 comma 3 c.p. per aver divulgato, mediante il social network facebook, una lettera (redatta da un altro soggetto) dal contenuto offensivo dell'onore, del decoro e della professionalità della vittima la quale esercitava la professione forense. Il difensore dell'imputata interponeva ricorso in Cassazione deducendo un unico motivo: l'assenza di dolo da parte dell'imputata in considerazione della circostanza, emersa in dibattimento, che l'imputata non aveva pubblicato la missiva diffamatoria attraverso un canale pubblico (come, invece contestato e ritenuto dalla Corte d'appello), bensì tramite messenger che è un applicativo di messaggistica privata. Pertanto, l'imputata, che stava interloquendo direttamente con la vittima, non sapeva che a tale dispositivo avessero accesso anche altri soggetti facenti parte di un'associazione a cui aderiva, in qualità di Presidente, anche la vittima: mancava, quindi, la consapevolezza della comunicazione “con più persone” richiesta dalla norma incriminatrice ai fini della sussistenza del dolo di diffamazione. Alla richiesta di annullamento della sentenza della Corte di merito, aderiva anche il Procuratore generale nella propria requisitoria. La questione L'invio di messaggi diffamatori su Messenger integra il delitto di diffamazione in assenza di dolo? Le soluzioni giuridiche La Corte di cassazione con la sentenza in esame ha accolto il ricorso presentato, stabilendo che ai fini della configurazione del reato di diffamazione è necessario che l'agente sia consapevole di comunicare con più persone o di agire in modo tale che le informazioni possano diffondersi. I giudici hanno ribadito che il dolo, nel caso di diffamazione, richiede non solo l'intento di ledere la reputazione altrui, ma anche la consapevolezza che le affermazioni denigratorie possano raggiungere un pubblico più ampio. Nel caso in esame, la mancanza di tale consapevolezza ha portato all'annullamento della sentenza senza rinvio, poiché il reato era estinto per prescrizione. In particolare, i Giudici di legittimità, dopo aver ricordato che il bene giuridico sotteso alla norma sulla diffamazione è l'“onore nel suo riflesso in termini di valutazione sociale” richiama, quale elemento costitutivo del fatto di reato, la comunicazione e la “percezione o percepibilità” da parte di almeno due consociati. Nel caso analizzato non vi era alcun dubbio inerente alla circostanza che il messaggio diffamatorio fosse stato letto da più di due persone, diverse dalla destinataria, e, quindi, sulla sussistenza del fatto di diffamazione, ma sussistevano seri dubbi sulla sussistenza dell'elemento soggettivo del reato. Per i Giudici la motivazione della sentenza impugnata è viziata proprio sotto il profilo della sussistenza dell'elemento soggettivo del delitto, unico oggetto di censura da parte del ricorso (che non ha, invece, ad oggetto la sussistenza del fatto nella sua materialità, neppure sotto il profilo della divulgazione a più persone delle espressioni denigratorie tramite l'applicazione Messenger). A tal proposito, con l'atto di appello la difesa dell'imputata aveva censurato sul punto la sentenza di primo grado: in particolare, con il gravame si era dedotto che l'imputata non avesse alcuna consapevolezza che le espressioni offensive da lei trasmesse - secondo la ricostruzione compiuta dai Giudici di merito, tramite Messenger - sarebbero entrate a conoscenza di soggetti diversi dall'unica persona (il difensore) con la quale aveva intrattenuto il proprio contatto telematico non solo in precedenza ma anche lo stesso giorno del fatto (per più ore) proprio con tale modalità. Tuttavia, la Corte di appello aveva affermato che l'imputata, per il solo fatto di aver comunicato ("sia pure tramite messenger") «con un profilo Facebook riconducibile ad un'associazione, non potesse non avere la consapevolezza che agli scritti avessero accesso quantomeno i componenti del direttivo dell'associazione», dovendosi pertanto ritenere la sussistenza, in capo a lei, «quanto meno... della previsione e dell'accettazione dell'evento» e, dunque, del dolo eventuale. Come ribadito dai Giudici di legittimità, il dolo di diffamazione non richiede che sussista “l'animus iniuriandi vel diffamandi”, vale a dire un chiaro intento di ledere l'altrui reputazione, essendo sufficiente il dolo generico, inteso quale mera rappresentazione e volizione di «fare uso di parole ed espressioni socialmente interpretabili come offensive». L'elemento psicologico del reato di diffamazione consiste non solo nella consapevolezza di pronunciare parole lesive dell'altrui reputazione, bensì anche nella consapevolezza e volizione che la frase denigratoria venga a conoscenza di più persone. È necessario, quindi, che l'agente si rappresenti di comunicare con almeno due persone «o con una sola persona ma con tali modalità che detta notizia sicuramente venga a conoscenza di altri soggetti» e voglia tale evento, quanto meno sotto il profilo del dolo eventuale. Quanto alla prima componente del dolo eventuale, vale a dire l'elemento rappresentativo, la Corte di cassazione a Sezioni Unite ha avuto modo di precisare che il dolo eventuale ricorre «quando l'agente si sia chiaramente rappresentato la significativa possibilità di verificazione dell'evento concreto». Quanto poi alla componente volitiva del dolo eventuale, le Sezioni Unite precisano che essa sussista quando il soggetto agisce “ciò nonostante”, cioè quando il soggetto, dopo aver considerato il fine perseguito ed il prezzo da pagare, “si sia determinato ad agire comunque”. Viceversa, tornando al caso di specie, nel caso in cui la comunicazione con più persone non possa dirsi “voluta” dall'agente, nemmeno sotto il profilo del dolo eventuale, non può sussistere il reato di diffamazione per mancanza dell'elemento soggettivo. Tale ultima circostanza è proprio quella oggetto del caso analizzato in cui la Corte d'appello aveva affermato, in modo del tutto assertivo, che l'imputata, «per il solo fatto di aver comunicato con un profilo facebook riferito ad un'associazione non potesse non avere la consapevolezza che gli iscritti avessero accesso» ai messaggi, così “trasformando” nel proprio ragionamento la diffamazione (reato doloso) in reato colposo. Dopo aver ritenuto il ricorso fondato per i motivi esposti, tuttavia, i Giudici di legittimità annullavano la sentenza senza rinvio perché il reato risultava estinto per prescrizione. Osservazioni La comunicazione globale, oggi accessibile alla maggioranza della popolazione grazie a una notevole diffusione delle nuove tecnologie, ha portato alla luce, insieme a evidenti vantaggi, anche alcune perplessità. A differenza dei media tradizionali, infatti, Internet ha aperto le frontiere dell'informazione a chiunque, rendendo in tal modo la circolazione delle notizie molto veloce e spesso, incontrollabile. Ci si domanda, da un lato, quale ruolo affidare all'informazione nell'era della comunicazione digitale e quali confini di liceità attribuirle. E, dall'altro, come impedire l'offesa all'altrui reputazione in un mondo in cui il principio della libertà di espressione ha un ruolo predominante. Mediante i social network e il web in generale sono sempre più diffusi i reati che ledono e offendono l'altrui reputazione. In particolare, il reato di diffamazione ex art. 595 c.p., prevede che chiunque comunicando con più persone, offende l'altrui reputazione, è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a 1.032 euro. Se l'offesa consiste nell'attribuzione di un fatto determinato, la pena è della reclusione fino a due anni, ovvero della multa fino a 2.065 euro. Se l'offesa è recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico, la pena è della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a 516 euro. Per la configurabilità del predetto reato, la Suprema Corte ha manifestato, nella propria giurisprudenza, la convinzione di poter includere nel riferimento a «qualsiasi altro mezzo di pubblicità» (come si legge nel comma terzo dell'art. 595 c.p.), anche gli strumenti telematici, qualificando pertanto come «aggravata» la diffamazione avvenuta tramite Internet. La diffamazione attraverso il web, dunque, posto l'evidente carattere di diffusività delle notizie pubblicate tramite strumenti informatici, è qualificabile come diffamazione aggravata e, pertanto, qualsiasi immissione di contenuti di carattere diffamatorio che colpisca l'immagine e la reputazione di una persona è punita con la reclusione da sei mesi a tre anni o con la multa non inferiore a 516 euro. Con la sentenza n. 396 del 2 ottobre 2017 i giudici di primo grado hanno stabilito che la pubblicazione di un post offensivo sul profilo Facebook di un utente integra il reato di diffamazione aggravata, in quanto l'utilizzo del social network consente di diffondere e rendere pubblica l'espressione denigratoria tra un gruppo di persone indeterminato. Tale provvedimento, deciso dal Tribunale di Campobasso, ha fatto proprio l'orientamento della Corte di cassazione del 2004 in tema di diffamazione il quale affermava che, mediante lo strumento del social network, «la condotta di postare un commento sulla bacheca Facebook realizza la pubblicizzazione e la diffusione di esso, per la idoneità del mezzo realizzato a determinare la circolazione del commento tra un gruppo di persone, comunque, apprezzabile per composizione numerica». Per quanto concerne l'accertamento del contenuto diffamatorio via Internet, valgono le stesse regole generali predisposte per la diffamazione a mezzo stampa e, tra queste, suscitano particolare interesse le scriminanti del diritto di cronaca, di critica e di satira, oltre al riferimento ai canoni della verità, della continenza e della pertinenza della notizia. Il diritto alla libertà d'espressione dev'essere, quindi, mitigato con altri diritti, anch'essi di rango costituzionale, quali quello all'onore e alla reputazione, nel rispetto dei parametri di correttezza dell'informazione dettati per la diffusione di notizie a mezzo stampa. La diffamazione rientra nel novero dei “reati di evento” e si consuma nel momento e nel luogo in cui i terzi percepiscono l'espressione ingiuriosa. Inoltre, come stabilito in una recente pronuncia della Corte di cassazione, n. 25420/2017, il post si considera diffamatorio anche quando non indica esplicitamente il nome della vittima ma è sufficiente che questa sia facilmente riconoscibile e individuabile dalla collettività. Tuttavia, è fondamentale che la persona offesa sia precisa nelle accuse così come la frase offensiva, l'autore e gli estremi del profilo dal quale è avvenuta la pubblicazione. |