Presupposti del reato di sottrazione fraudolenta

Giovambattista Palumbo
20 Dicembre 2024

La Corte di cassazione, nella sentenza 4 luglio 2024, depositata il 13 novembre 2024, ha fornito chiarimenti in merito ai presupposti dell'incriminazione per il reato di sottrazione fraudolenta. 

Massima

Oggetto di immediata tutela dell'incriminazione da sottrazione fraudolenta non è il patrimonio in sé del contribuente, che costituisce garanzia generica del debito erariale contratto, quanto, piuttosto, la necessità di preservare la riscossione del credito erariale da qualsiasi attività volta a depauperare in modo fraudolento tale garanzia. È la natura simulata ovvero fraudolenta che qualifica l'azione sotto il profilo della sua offensività, occorrendo, cioè, che, per effetto della condotta, si determini una situazione per cui il bene simulatamente alienato o in relazione al quale sono stati compiuti atti fraudolenti appaia all'Erario effettivamente uscito dal patrimonio del debitore, così da rendere impossibile o comunque più difficile il recupero e non rilevando pertanto i “fisiologici” atti di disposizione del patrimonio, che il contribuente può liberamente compiere.

Il caso

La Corte di Cassazione, Sezione Penale, con la sentenza n. 41721 del 13 novembre 2024, ha chiarito quali sono i presupposti in presenza dei quali sussiste il reato di sottrazione fraudolenta.

Nel caso di specie, i contribuenti ricorrevano in cassazione per l'annullamento della sentenza della Corte di appello, che, in riforma della sentenza di primo grado, per quanto di interesse, aveva confermato la condanna degli imputati per il reato di cui all'art. 11 d.lgs. n. 74 del 2000.

Si imputava, in particolare, ai ricorrenti di aver posto in essere le seguenti condotte, finalizzate a sottrarsi al pagamento delle imposte sui redditi e sul valore aggiunto, per l'anno 2012, in misura superiore ad euro 200.000, oltre sanzioni e interessi:

a) l'aver stipulato, nel 2014, tre contratti di vendita di diverse porzioni di un immobile, del quale gli imputati erano comproprietari, per il prezzo complessivo di euro 120.000; prezzo poi interamente versato ad una sola degli stessi imputati, coniuge dell'altro in regime di separazione legale dei beni;

b) l'aver stipulato, nel 2015, un contratto di vendita di un immobile, del quale gli imputati erano comproprietari, per il prezzo complessivo di euro 120.000, prezzo anche questo interamente versato alla già citata coniuge.

In tal modo, secondo l'accusa, gli imputati realizzavano, sulla parte di denaro destinato al marito, legale rappresentante della società, atti fraudolenti finalizzati a rendere inefficace la procedura di riscossione coattiva dei crediti erariali, laddove la Guardia di Finanza aveva accertato che la società non aveva presentato alcuna dichiarazione fiscale per gli anni 2012-2013. A seguito della alienazione dei beni immobili di proprietà comune dei coniugi, il corrispettivo, su espressa richiesta degli alienanti, era infatti confluito esclusivamente sui conti correnti della moglie, persona estranea alla società.

La coniuge aveva peraltro riferito che si era trattato di decisione presa per garantire la provvista necessaria al pagamento di un precedente mutuo, contratto nel 2010 per l'acquisto di altro immobile, da estinguere in 240 rate mensili.

Il Tribunale, però, non aveva creduto a tale versione difensiva, osservando che il mutuo, tenuto conto dell'anno della stipula, avrebbe potuto essere estinto già con il ricavato della prima vendita e che comunque le rate mensili erano esigue (euro 400 mensili), così da rendere implausibile la decisione di distrarre a favore della sola moglie il ricavato di entrambe le vendite.

Secondo il primo Giudice, invece, le due operazioni erano state poste in essere per depauperare il patrimonio del marito, come si evinceva anche dalla tempistica, essendo state concluse a ridosso della crisi societaria della società, che aveva indotto il legale rappresentante a omettere le relative dichiarazioni fiscali per guadagnare tempo nei confronti dell'Amministrazione Finanziaria.

Per tale motivo, secondo il Tribunale, il ricavato delle vendite era stato fatto interamente confluire sul conto di una persona formalmente estranea alla compagine societaria (la moglie del legale rappresentante).

Nel confermare tale decisione, la Corte di appello aveva poi ribadito che l'intera operazione era stata concordata dai coniugi per sottrarre "denaro al prelievo tributario", non avendo rilievo, per i Giudici di secondo grado, la circostanza che la società avesse possidenze utili al pagamento del debito (che fosse, in sostanza, capiente), ed essendo necessario e sufficiente, ai fini del reato, che gli atti fossero idonei a rendere in tutto o in parte inefficace la procedura esecutiva.

La questione

Tanto premesso, i giudici di legittimità evidenziano che la questione in giudizio riguardava, in sostanza, le condotte potenzialmente idonee a ledere il medesimo ed unico bene giuridico, individuato nel dovere di concorrere alle spese pubbliche (e di garantire, conseguentemente, il flusso di beni necessario a farvi fronte), laddove il legislatore, attraverso l'art. 11, comma 1, d.lgs. n. 74 del 2000, ha inteso evitare che il contribuente si sottragga a tale dovere, creando una situazione di apparenza tale da consentirgli di rimanere nel possesso dei propri beni fraudolentemente sottratti alle ragioni dell'Erario (cfr., Cass., sez. III, 18 maggio 2011, n. 36290).

L'oggetto giuridico del reato di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte non è dunque il diritto di credito del fisco, bensì la garanzia generica data dai beni dell'obbligato, potendo quindi il reato configurarsi anche qualora, dopo il compimento degli atti fraudolenti, avvenga comunque il pagamento dell'imposta e dei relativi accessori. Non è conseguentemente richiesto che l'azione abbia effettivamente compromesso l'esecuzione esattoriale, essendo appunto sufficiente che sia idonea a renderla inefficace, in termini di reato di pericolo concreto (cfr., Cass., sez. III, 11 maggio 2016, n. 35853), come integrato dall'uso di atti simulati o fraudolenti per occultare i propri o altrui beni, idonei a pregiudicare l'attività recuperatoria dell'Amministrazione finanziaria.

Quanto al concetto di "alienazione simulata", la Corte rileva che la simulazione è finalizzata a creare una situazione giuridica apparente diversa da quella reale, con un programma contrattuale non corrispondente deliberatamente, in tutto (simulazione assoluta) o in parte (simulazione relativa), alla effettiva volontà dei contraenti. Nell'ambito della alienazione simulata rientra quindi anche quella a titolo gratuito, non essendovi motivo alcuno per escludere la donazione dall'ambito di applicabilità della norma.

Nel caso invece in cui il trasferimento sia effettivo la relativa condotta non può essere considerata alla stregua di un atto simulato, ma deve essere valutata esclusivamente quale possibile atto fraudolento, dovendosi intendere per tale, come detto, l'atto idoneo a rappresentare una realtà non corrispondente al vero e a mettere a repentaglio, o comunque ostacolare, l'azione di recupero del bene da parte dell'Erario.

In definitiva, nella fattispecie criminosa in esame rientra qualsiasi stratagemma artificioso del contribuente tendente a sottrarre, in tutto o in parte, le garanzie patrimoniali alla riscossione coattiva del debito tributario (ad esempio: la costituzione di un fondo patrimoniale, la vendita simulata mediante stipula di un apparente contratto di sale and lease back, la costituzione fittizia di servitù, di diritti reali di godimento, la ricognizione di debito, etc.).

La soluzione giuridica

La Suprema Corte riteneva il ricorso fondato, rilevando che, è la natura simulata, ovvero fraudolenta, della vendita o dell'atto, che qualifica l'azione sotto il profilo della sua offensività, occorrendo, cioè, che, per effetto della condotta, si determini una situazione tale per la quale il bene simulatamente alienato o in relazione al quale sono stati compiuti atti fraudolenti appaia all'Erario effettivamente uscito dal patrimonio del debitore, così da rendere impossibile o comunque più difficile il recupero e non rilevando pertanto i “fisiologici” atti di disposizione del proprio patrimonio, che il contribuente può liberamente compiere (cfr., Cass., sez. III, 16 maggio 2012, n. 25677).

Nel caso di specie, come visto, si imputava ai ricorrenti di aver posto in essere atti fraudolenti sul denaro ricavato dalla vendita di beni immobili di loro proprietà; denaro “distratto”, secondo l'Agenzia delle Entrate, per la parte di proprietà del marito, sui conti correnti della moglie per ragioni di “evasione da riscossione”.

La Cassazione evidenzia però che soggetto passivo di imposta era in questo caso la società e non il suo legale rappresentante-persona fisica, il quale, a norma dell'art. 7, d.l. 30 settembre 2003, n. 269, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 novembre 2003, non risponde delle sanzioni amministrative relative al rapporto fiscale proprio delle società con personalità giuridica.

Vero è che la riferibilità delle sanzioni tributarie alla sola persona giuridica non comporta deroga al principio della responsabilità concorsuale dell'estraneo, ex art. 9 del d.lgs. n. 472 del 1997, per l'illecito imputabile alla medesima persona giuridica (cfr., Cass., sez. trib., 29 luglio 2024, n. 21092), essendosi del resto già precisato che la deroga al principio della responsabilità personale dell'autore della violazione si applica soltanto quando la persona fisica che ha realizzato la violazione abbia agito nell'interesse ed a vantaggio della persona giuridica, effettiva beneficiaria della condotta, ma non anche quando abbia operato nel proprio esclusivo interesse (cfr., Cass., sez. trib., sez. III, 13 novembre 2020, n. 25757). Allo stesso modo, poi, la detta deroga non opera quando venga esclusa la vitalità della società medesima, o quando il reddito di impresa sia riconducibile all'interponente che possiede effettivamente il reddito prodotto.

Ma anche in questo caso, rilevano i giudici di legittimità, anche cioè a voler ipotizzare che oggetto della pretesa tutelata dall'art. 11 d.lgs. n. 74 del 2000 possa essere la sanzione amministrativa autonomamente applicabile all'autore della condotta (solo) formalmente ascrivibile all'ente dotato di personalità giuridica, la Corte di appello avrebbe dovuto indicare le ragioni della applicazione diretta della sanzione al rappresentante legale.

Né, sotto altro profilo, era stato affrontato dalla Corte il tema se il legale rappresentante della società di capitali (anche socio) rispondesse direttamente dell'obbligazione tributaria contratta dalla società a cd. "ristretta base societaria", presumendosi che all'evasione dell'imposta fosse corrisposta la distribuzione degli utili non contabilizzati.

In definitiva, i beni oggetto di trasferimento appartenevano al suo patrimonio personale e – ovviamente – non erano stati venduti nella sua qualità di legale rappresentante della società, con conseguente irrilevanza penale della sorte che i due coniugi avevano inteso dare al denaro ricavato dalla medesima vendita.

Conclusioni

In conclusione, la fattispecie criminosa di sottrazione fraudolenta va qualificata come reato di pericolo concreto, integrato dall'uso di atti simulati o fraudolenti per occultare i propri o altrui beni, idonei a pregiudicare, secondo un giudizio ex ante, l'attività recuperatoria della Amministrazione finanziaria.

Quanto alla condotta del reato, in tema di concetto di atto fraudolento, sono intervenute le Sezioni Unite, con la pronuncia n. 12213 del 2018, affermando che «con riguardo alla nozione di "atto fraudolento" contenuta nella disposizione dell'art.11 d.lgs. n. 74 del 2000, laddove, con terminologia mutuata dall'art. 388 c.p., si sanziona la condotta di chi, "al fine di sottrarsi al pagamento di imposte sui redditi o sul valore aggiunto [...] aliena simulatamente o compie altri atti fraudolenti sui propri o altrui beni idonei a rendere in tutto o in parte inefficace la procedura di riscossione coattiva", questa Corte ha osservato che deve essere considerato atto fraudolento "ogni comportamento che, formalmente lecito (analogamente, del resto, alla vendita di un bene), sia tuttavia caratterizzato da una componente di artifizio o di inganno (Cass., sez. III, n. 25677 del 16 maggio 2012, Caneva)" ovvero che è tale "ogni atto che sia idoneo a rappresentare una realtà non corrispondente al vero (per la verità con una sovrapposizione rispetto alla simulazione) ovvero qualunque stratagemma artificioso tendente a sottrarre le garanzie patrimoniali alla riscossione" (Cass., sez. III, n. 3011 del 5 luglio 2016, dep. 2017, Di Tullio)».

Il concetto di frode evocato dalla norma presuppone, quindi, non soltanto la lesione di un diritto altrui, che connota l'atto pregiudizievole in sé, ma altresì la specifica modalità attraverso la quale tale lesione viene effettuata, ovverosia l'inganno atto a configurare una situazione di apparenza diversa da quella della realtà sottostante, costituita dalla riduzione del patrimonio del debitore, così da mettere a repentaglio l'azione di recupero per l'Erario, o comunque da renderla più difficoltosa.

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