La Corte EDU sulla legittimità delle misure di contenzione dei pazienti psichiatrici quale “ultima risorsa”

31 Dicembre 2024

Condannata l'Italia per violazione dell'art. 3 CEDU.

Premessa

La decisione che si commenta, emessa dalla Corte EDU il 7 novembre 2024 nel procedimento Lavorgna contro Italia (Corte EDU, Lavorgna c. Italia, 7 novembre 2024, n. 8436/2021), riguarda le misure di contenzione, fisica e farmacologica, alle quali veniva sottoposto M. L. durante la sua degenza in un reparto psichiatrico dell'Ospedale “Santa Maria delle Stelle” di Melzo, conseguente all'adozione di un trattamento sanitario obbligatorio.

Tali misure venivano disposte, in violazione dell'art. 3 CEDU, allo scopo di neutralizzare i comportamenti aggressivi del paziente, che veniva immobilizzato con l'applicazione di cinghie che lo bloccavano al letto e sottoposto a una terapia farmacologica sedativa.

Secondo la Corte EDU, la contrarietà con l'art. 3 CEDU delle misure di contenimento, fisico e farmacologico, applicate a L. emergeva dagli atti processuali, dai quali si evinceva che non era necessario sottoporre il ricorrente a un trattamento ospedaliero particolarmente invasivo, risultando provato che tali misure erano state adottate per ragioni esclusivamente precauzionali.

La Corte di Strasburgo, infine, evidenziava la natura eccezionale delle misure di  contenimento fisico e di sedazione farmacologica adottate nei confronti di pazienti affetti da una patologia psichiatrica, che potevano essere giustificate solo dalla necessità di impedire un danno, concreto e imminente, al soggetto ricoverato in una struttura ospedaliera, che doveva essere correlata alla certezza che la pericolosità di tali soggetti non poteva essere neutralizzata con il ricorso a trattamenti clinici meno invasivi.

La vicenda processuale: il problema dell'applicazione di misure contenzione nei confronti di pazienti psichiatrici

M. L. è un cittadino italiano affetto da patologie psichiatriche, nei cui confronti veniva disposto un trattamento sanitario obbligatorio, ex art. 33 legge 23 dicembre 1978, n. 833, che, il 7 ottobre 2014 ne comportava il ricovero presso il reparto psichiatrico dell'Ospedale “Santa Maria delle Stelle” di Melzo, facente parte del Polo ospedaliero di Melegnano. In tale struttura L. veniva ricoverato fino al 27 ottobre 2014, quando veniva trasferito in un altro nosocomio.

Il trattamento sanitario obbligatorio era giustificato dallo stato di agitazione psicomotoria e dall'atteggiamento aggressivo manifestato dal ricorrente, che, tra l'altro, si era concretizzato in azioni violente, poste in essere in danno del padre e di un medico del nosocomio dove era ricoverato. La condizione di grave disagio psicofisico, della quale il ricorrente non aveva piena consapevolezza, induceva i responsabili del reparto ospedaliero dove lo stesso era stato ricoverato, ai sensi dell'art. 33 legge 833 del 1978, ad adottare misure urgenti di contenzione finalizzate a neutralizzarne la pericolosità.

In questo contesto, il ricorrente veniva sottoposto a trattamenti fortemente limitativi della sua libertà personale, venendo immobilizzato e sottoposto a una terapia farmacologica di sedazione, per un arco temporale complessivo di otto giorni. L'immobilizzazione fisica del paziente veniva effettuata mediante la sua legatura, eseguita con cinghie di pelle applicate ai polsi e alle caviglie, con cui si provvedeva a bloccarlo al letto.

A distanza di circa un anno dagli eventi clinici che si stanno considerando, il 25 novembre 2015, M. L. presentava una denuncia penale contro due medici del reparto psichiatrico della struttura ospedaliera dove era stato ricoverato, accusandoli di averlo sottoposto a maltrattamenti fisici e di averlo costretto a subire misure sanitarie inumane e degradanti, non strettamente collegate all'originario trattamento sanitario obbligatorio, la cui lunghezza non poteva ritenersi giustificata dalle sue condizioni di salute.

A sostegno della denuncia, si deduceva che, nell'arco temporale in questione, M. L. era stato sottoposto a un trattamento sanitario inadeguato e sproporzionato rispetto alle sue condizioni fisiopsichiche, come, peraltro, ammesso dagli stessi medici denunciati, che avevano riferito che la struttura ospedaliera dove il paziente era ricoverato non disponeva di risorse idonee a fronteggiare la sua patologia.

Il ricorrente, al contempo, deduceva che l'immobilizzazione fisica e la sedazione farmacologica alle quali era stato sottoposto nel nosocomio di Melzo erano finalizzate a condizionarlo psicologicamente, allo scopo di indurlo a un atteggiamento remissivo nei confronti delle istituzioni sanitarie; scelta terapeutica, questa, che traeva origine da un'idea pedagogica della contenzione, che contrastava con quanto, da tempo, sostenuto dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti.

A seguito della denuncia, il 19 febbraio 2016, la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Milano iscriveva un procedimento penale nei confronti dei due medici denunciati.

Nell'ambito di tale procedimento, venivano svolte accurate attività d'indagine, che comportavano l'acquisizione delle cartelle cliniche del ricovero di Lavorgna, per valutare le quali veniva nominato un consulente tecnico d'ufficio. Il consulente, all'esito delle verifiche delegategli, richiamandosi alle linee guida nazionali sulla contenzione dei pazienti psichiatrici, affermava che le misure attuate nei confronti del denunciante erano giustificate dai suoi gesti di violenza fisica, ritenuti di particolare gravità, pur evidenziando l'insolita lunghezza della loro durata.

Sulla scorta di queste attività d'indagine, il 7 febbraio 2019, la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Milano presentava una richiesta di archiviazione del procedimento iscritto nei confronti dei due medici denunciati da M. L.

La richiesta di archiviazione, con ordinanza del 21 luglio 2020, veniva accolta dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Milano, che la giustificava sull'assunto, esplicitato nel relativo provvedimento, che i professionisti denunciati non avevano «commesso errori nella pratica terapeutica […]» alla quale avevano sottoposto il paziente, avendo «rispettato le linee guida e i protocolli applicabili […]» al caso di specie.

Infine, contro l'ordinanza di archiviazione del Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Milano, che era divenuta irrevocabile a seguito del respingimento della sua opposizione, il 29 gennaio 2021, M. L. depositava un ricorso davanti alla Corte EDU, lamentando che il trattamento sanitario che gli era stato praticato durante il suo originario ricovero ospedaliero, per gli otto giorni in cui era stato sottoposto a contenzione, mediante legatura e sedazione farmacologica, era avvenuto in violazione dell'art. 3 CEDU.

La decisione della Corte: le misure di contenzione dei pazienti psichiatrici quale “ultima risorsa” terapeutica ancorata ai parametri dell'eccezionalità e della proporzionalità

La Corte EDU, pronunciandosi sul ricorso di M. L., riteneva fondate le doglianze sulla violazione dell'art. 3 CEDU proposte dal ricorrente in relazione al trattamento sanitario obbligatorio al quale era stato sottoposto presso l'Ospedale “Santa Maria delle Stelle” di Melzo, che era un nosocomio facente parte del Polo ospedaliero di Melegnano.

Si evidenziava, innanzitutto, che non vi era alcun contrasto sui dati fattuali e nosografici da cui traeva origine il procedimento conclusosi con l'archiviazione pronunciata dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Milano il 21 luglio 2020, rappresentati dal fatto che M. L., durante la sua permanenza presso l'Ospedale “Santa Maria delle Stelle” di Melzo, per otto dei venti giorni del suo ricovero, era stato privato della libertà personale con modalità particolarmente invasive, venendo sedato farmacologicamente e immobilizzato mediante cinghie di pelle, applicate ai polsi e alle caviglie.

In questa, incontroversa, cornice, la Corte strasburghese, compiendo un'approfondita disamina della legislazione italiana, che muoveva dai principi affermati nella legge 23 dicembre 1978, n. 833 (“Legge Basaglia”), osservava che, nel caso di specie, lo Stato italiano, a fronte delle doglianze stringenti prospettate dal ricorrente, avrebbe dovuto dimostrare che le misure contenitive, di natura fisica e farmacologica, che gli erano state applicate, erano indispensabili, atteso che l'esistenza di un pericolo latente o potenziale non avrebbe legittimato l'impiego di misure di tale, invasiva e dubbia, valenza.

A sostegno di tali affermazioni si richiamavano i principi affermati da sez. V, 20 giugno 2018, n. 50497 Di Genio, Rv. 274435 - 01, che vietava la contenzione fisica del paziente psichiatrico, che poteva essere attuata solo in via eccezionale, in presenza di situazioni concrete che lasciassero prefigurare un pericolo inevitabile di danni per la salute del paziente o di terzi, documentabili sulla base di elementi oggettivamente riscontrabili.

Nella stessa direzione, si richiamavano le conclusioni del Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti – soprattutto espresse nella relazione del 24 marzo 2023, depositata dopo la visita delle strutture ospedaliere psichiatriche italiane, eseguita dal 28 marzo all'8 aprile 2022, richiamata nel paragrafo 68 della decisione in esame –, secondo cui le forme di contenimento, fisico e farmacologico, dei pazienti psichiatrici, di cui nel nostro Paese si faceva un impiego eccessivo, dovevano essere limitate a periodi circoscritti di poche ore e dovevano essere intervallate da frequenti controlli medici, annotati nella cartella clinica del soggetto ricoverato.

A ulteriore sostegno di queste conclusioni, nel paragrafo 63 della stessa pronuncia, venivano richiamate le conclusioni alle quali erano giunti, in epoca sostanzialmente coeva, il Codice di deontologia medica del 2014 e il parere del Comitato Nazionale per la Bioetica del 2015, intitolato “Restraint: bioethichal problems”, che si esprimevano con toni fortemente critici, sia sul piano etico sia sul piano terapeutico, sulla possibilità di sottoporre a contenzione i pazienti psichiatrici ricoverati in strutture ospedaliere.

Si collocavano, infine, nello stesso solco le linee guida contenute nel Protocollo del Polo ospedaliero di Melegnano, applicabili all'Ospedale “Santa Maria delle Stelle” di Melzo, richiamate nel paragrafo 62 della decisione commentata, che prescrivevano, per il personale medico addetto alla cura dei pazienti psichiatrici, verifiche periodiche sulla condizione di pericolosità che aveva reso necessaria l'adozione di misure di contenzione, che non dovevano «mai superare otto ore durante il giorno».

Nel contesto ermeneutico richiamato, lo Stato italiano non era riuscito a dimostrare la necessità di applicare le misure di contenzione adottate nei confronti di M. L. per la durata di otto giorni e, contestualmente, l'impossibilità di praticare al paziente terapie alternative e meno invasive; il che asseverava le censure difensive secondo cui il trattamento terapeutico in questione era stato applicato al ricorrente per ragioni precauzionali.

Questi, convergenti, elementi di giudizio dimostravano che le misure di contenzione alle quali era stato sottoposto il ricorrente erano inumane e degradanti, secondo quanto previsto dall'art. 3 CEDU, non potendosi ritenere connotate da eccezionalità e risultando sproporzionate rispetto alle sue condizioni di salute, in linea con quanto costantemente affermato dalla giurisprudenza strasburghese (tra le altre, Corte EDU, Bouyid c. Belgio, 28 settembre 2015, n. 23380/09, §§ 100-101; Corte EDU, Jeronovičs c. Lettonia, 5 luglio 2016, n. 44898/10, § 103).

La parte resistente, al contempo, non era riuscita a fornire alcuna dimostrazione processuale che non soltanto le misure di contenimento fisico e le terapie di sedazione farmacologica somministrate a M. L. erano indispensabili, ma che era addirittura necessario praticarle senza soluzione di continuità per la durata complessiva di otto giorni, la cui lunghezza appariva sproporzionata rispetto alle esigenze terapeutiche del paziente.

La riprova dell'inidoneità del trattamento sanitario somministrato, peraltro, era dimostrata dalla circostanza che, nella fase conclusiva del ricovero del ricorrente presso l'Ospedale “Santa Maria delle Stelle” di Melzo, il personale medico, pienamente consapevole delle difficoltà del caso, richiedeva il trasferimento del paziente in una struttura più adeguata, tenuto conto della gravità della patologia da cui era affetto, che, in quella struttura, erano gestibili solo attraverso il ricorso a forme di neutralizzazione fisica.

Queste conclusioni, per altro verso, si ritenevano corroborate dagli sviluppi delle scienze psichiatriche contemporanee, che ritenevano le misure di contenzione dei pazienti psichiatrici alla stregua di una “ultima risorsa”, attuabile nelle sole ipotesi in cui la privazione della libertà personale rappresentava l'unico strumento idoneo a prevenire pericoli, immediati o imminenti, per la salute del paziente o di altri soggetti che con lo stesso venivano a contatto, in linea con quanto affermato da Corte EDU, Aggerholm c. Danimarca, 20 settembre 2020, 15 settembre 2020, n. 45439/18, i cui principi, più volte, venivano richiamati nella pronuncia in esame.

Né potrebbe essere diversamente, atteso che la particolare vulnerabilità dei pazienti psichiatrici ricoverati in una struttura ospedaliera comporta un vaglio rigoroso del trattamento sanitario al quale gli stessi devono essere sottoposti, ancorato ai dati nosografici emergenti dalle cartelle cliniche, che deve essere correlato alla necessità di adottare misure di contenimento più blande e all'assenza terapie farmacologiche alternative, idonee a neutralizzarne la pericolosità (Corte EDU, Aggerholm c. Danimarca, 20 settembre 2020, 15 settembre 2020, cit.).

Sulla scorta di questa ricostruzione delle misure di contenzione alle quali veniva sottoposto M. L. durante il suo ricovero, lo Stato italiano veniva condannato per violazione dell'art. 3 CEDU.

Conseguiva, infine, a tali statuizioni la condanna dello Stato italiano, ai sensi dell'art. 41 CEDU, al pagamento di 41.600,00 euro a titolo di danno morale e di 8.000,00 euro a titolo di spese processuali.

Conclusioni

Con la pronuncia che si commenta lo Stato italiano riportava un'ulteriore condanna per violazione dell'art. 3 CEDU, atteso che un paziente psichiatrico era stato sottoposto a misure di contenzione, fisica e farmacologica, ritenute non necessarie e sproporzionate.

Per giungere a queste conclusioni la Corte EDU effettuava un'analisi approfondita della normativa nostrana, che muoveva dai parametri normativi della “Legge Basaglia”, che venivano correlati a una pluralità di dati ermeneutici, nell'ambito dei quali si attribuiva un rilievo centrale ai criteri elaborati dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti, secondo cui le forme di contenzione del paziente psichiatrico non possono essere adottate per ragioni precauzionali o pedagogiche, devono essere limitate a periodi di poche ore e devono essere intervallate da controlli medici.

Ad analoghe conclusioni, del resto, pervengono le scienze psichiatriche contemporanee, che inquadrano le misure di contenzione dei pazienti affetti da patologie psichiche quale “ultima risorsa” terapeutica, attuabile nelle sole ipotesi in cui la privazione della libertà rappresenti il solo strumento idoneo a prevenire pericoli, immediati o imminenti, per la salute dell'infermo o di altri soggetti, in linea con quanto, in tempi recenti, ribadito dalla Corte di Strasburgo (Corte EDU, Aggerholm c. Danimarca, 20 settembre 2020, 15 settembre 2020, cit.).

A fronte di tale consolidato panorama ermeneutico, lo Stato italiano non era riuscito a dimostrare la necessità di applicare, extrema ratio, le misure di contenzione adottate nei confronti di M. L., durante il suo ricovero, per la durata complessiva di otto giorni.

Né la parte resistente era riuscita a dimostrare in giudizio l'impossibilità di sottoporre il paziente a percorsi terapeutici alternativi e meno invasivi, che, peraltro, il personale medico aveva il dovere di praticargli, anche alla luce dei doveri che gli derivavano dal Codice di deontologia medica del 2014, espressamente richiamati dalla Corte strasburghese

Lo stesso sviluppo della vicenda processuale, a ben vedere, costituiva una dimostrazione inequivocabile dell'inidoneità e della sproporzione del trattamento sanitario somministrato a M. L., atteso che, nella fase conclusiva del suo ricovero presso l'Ospedale “Santa Maria delle Stelle” di Melzo, veniva richiesto il trasferimento urgente del paziente in una struttura più attrezzata, tenuto conto della gravità e della problematicità della patologia psichica da cui era affetto; trasferimento che, effettivamente, aveva luogo il 27 ottobre 2014, dopo venti giorni di degenza presso l'Ospedale “Santa Maria delle Stelle” di Melzo.

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