La Suprema Corte è stata chiamata a decidere sul ricorso che, avverso la conferma di un provvedimento di espulsione in sostituzione della pena detentiva emesso dal magistrato di sorveglianza, era stato proposto dall'interessato e nel quale si lamentava la mancata valutazione di quella che sarebbe stata la “dimostrata integrazione del deducente nel tessuto sociale ed economico italiano”.
Il quadro normativo e la pronuncia della Corte
Com'è noto, l'art. 16, comma 5, del vigente T.U. delle norme sull'immigrazione, emanato con d.lgs. n. 286/ 1998, e successive modificazioni, prevede che sia disposta l'espulsione in luogo dell'espiazione della pena detentiva nei confronti del cittadino straniero, identificato e detenuto, il quale si trovi in taluna delle condizioni previste dall'art. 13, comma 2, del medesimo T.U. (quelle, cioè, in cui il prefetto dovrebbe dar luogo all'espulsione amministrativa) e debba scontare una pena, anche residua, non superiore a due anni, salvo che trattisi di pena inflitta per determinati reati, ritenuti dal legislatore di particolare gravità o allarme sociale. Non c'è dubbio che anche con riguardo a tale ipotesi di espulsione operino, in virtù del richiamo contenuto nel comma 9 dello stesso art. 16, i divieti previsti in via generale dall'art. 19 del T.U. Tra essi, con il d.l. n. 130/2020, conv. con modif. in legge n. 173/2020, fu inserito anche quello relativo al caso che esistessero “fondati motivi di ritenere che l'allontanamento [scil.: dello straniero] dal territorio nazionale comporti una violazione del diritto al rispetto della sua vita privata e familiare”, fatte salve le eventuali, prevalenti esigenze di tutela della sicurezza nazionale, dell'ordine e della sicurezza pubblica e della salute. Tale divieto è stato però poi soppresso dal d.l. n. 20/2023, conv. con modif. in legge n. 50/2023.
Questo è il quadro normativo nella vigenza del quale la Corte di cassazione è stata recentemente chiamata a decidere sul ricorso che, avverso la conferma di un provvedimento di espulsione in sostituzione della pena detentiva emesso dal magistrato di sorveglianza, era stato proposto dall'interessato e nel quale, per quanto qui rileva, si lamentava la mancata valutazione di quella che sarebbe stata la “dimostrata integrazione del deducente nel tessuto sociale ed economico italiano”.
La Corte, con la sentenza n. 43082 depositata il 26 novembre 2024, ha ritenuto fondata tale doglianza ed ha quindi annullato con rinvio il provvedimento impugnato.
A sostegno di tale decisione la Corte ha, nell'essenziale, preso le mosse dall'osservazione che la sopravvenuta abrogazione dello specifico divieto di espulsione a suo tempo introdotto con il d.l. n. 130/2020 non impedisce che debba comunque trovare applicazione, trattandosi di norma recepita nel diritto interno, l'art. 8 della CEDU(Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo) – alla quale si era ispirato il legislatore del 2020 – in cui è, appunto, espressamente previsto come obbligo di tutti gli Stati aderenti quello che ad ogni persona sia garantito il “diritto al rispetto della sua vita privata e familiare” .E tale garanzia comporterebbe, per quanto qui interessa, anche il divieto dell'espulsione di stranieri che risultino “radicati” nel territorio dello Stato ospite, salvo che risulti dimostrata una loro particolare pericolosità. Ciò sulla scorta di quanto si dice affermato, in particolare, dalla Corte di Strasburgo con le sentenze Beldjoudi c. Francia del 1992, Amrollahi c. Danimarca del 2002, Yilmaz c. Germania del 2003, Keles c. Germania del 2005, Uner c. Paesi Bassi del 2006, Maslov ed altri c. Austria, del 2008, Levakovic c. Danimarca del 2018, Zakharchuk c. Russia del 2019. Di qui la ritenuta censurabilità del provvedimento oggetto di ricorso, in quanto privo di motivazione in ordine alla dedotta situazione di sostanziale “radicamento” del ricorrente nel territorio italiano che, se dimostrata, avrebbe dovuto o, quanto meno, potuto impedire l'espulsione.
Le criticità del richiamo all'art. 8 della CEDU
E' questo un ragionamento che, ad onta della sua apparente ineccepibilità, rischia, però, di risultare inficiato, alla base, dalla mancata considerazione di un particolare al quale appare difficile negare una decisiva rilevanza: quello, cioè, costituito dal fatto che tutte, indistintamente, le suddette sentenze della Corte di Strasburgo (come si può facilmente constatare esaminandole nel dettaglio) riguardavano casi in cui l'espulsione era stata disposta nei confronti di stranieri regolarmente soggiornanti, a vario titolo, nello Stato ospite. Ma proprio questa è, invece, la condizione della quale si presuppone espressamente l'inesistenza ai fini dell'applicazione dell'espulsione in sostituzione della pena detentiva, potendo la stessa disporsi (come si è visto) soltanto nei confronti di stranieri che, in quanto irregolarmente entrati o trattenutisi nel territorio dello Stato, siano già destinati all'espulsione in via amministrativa, ai sensi dell'art. 13, comma 2, del Testo unico sull'immigrazione.
Si tratta, quindi, di soggetti che, a rigore, contrariamente a quanto ritenuto dalla Cassazione, avrebbero potuto opporsi all'espulsione, invocando il loro preteso “radicamento” nello Stato, soltanto nel periodo in cui è stato in vigore il divieto di espulsione introdotto nel 2020, essendo questo operante, al pari di tutti gli altri già previsti dall'art. 19 del Testo unico, indipendentemente dalla circostanza che lo straniero soggiornasse regolarmente o irregolarmente in Italia.
Ne deriva che, una volta soppresso il suddetto divieto, viene meno anche la possibilità di farlo “rivivere” mediante la diretta applicazione dell'art. 8 della CEDU, facendo leva sull'interpretazione che di tale norma è stata data dalla Corte di Strasburgo, atteso che, come si è visto, tale interpretazione ha sempre assunto come proprio fondamento l'esistenza di un presupposto diametralmente confliggente con quello sul quale si fonda l'istituto dell'espulsione in sostituzione della pena previsto dall'art. 16, comma 5, del T.U. sull'immigrazione.
Ma un ulteriore motivo per il quale è da ritenersi improponibile il richiamo all'art. 8 della CEDU fatto dalla Corte di cassazione è ravvisabile nel fatto che l'espulsione in sostituzione della pena detentiva, pur se finalizzata anche a ridurre il sovraffollamento carcerario, è chiaramente concepita come norma di favore per il condannato.
A quest'ultimo, infatti, si consente di scampare all'espiazione della pena proprio imponendogli quella stessa espulsione alla quale (come si è detto), trattandosi di straniero irregolarmente soggiornante, egli sarebbe stato comunque soggetto, sia pure ad altro titolo, salva l'operatività dei divieti tuttora previsti, in via generale, dall'art. 19 del T.U. sull'immigrazione. E che trattisi, in effetti, di norma di favore trova inequivocabile conferma, del resto, nel fatto che essa può trovare applicazione solo a condizione che la pena da espiare non sia superiore ai due anni e che non sia stata, comunque, inflitta per taluno dei reati ritenuti dal legislatore di particolare gravità, espressamente richiamati nello stesso art. 16, comma 5, del citato T.U.
Si tratta, quindi, all'evidenza, di una logica che si pone in assoluto contrasto con quella alla quale si ispirano le pronunce della Corte di Strasburgo, secondo cui, nel doveroso bilanciamento tra le esigenze di tutela della collettività ed il diritto di ciascuno al “rispetto della sua vita privata e familiare”, la maggior gravità dei reati di cui uno straniero si sia reso responsabile è proprio quella che può rendere giustificabile la sua espulsione, pur quando egli possa dirsi “radicato” nello Stato ospite.
Uno sguardo sui precedenti
Rimane solo da dire, a questo punto, che, prima ancora dell'introduzione, nel 2020, del particolare divieto di espulsione poi soppresso nel 2023, la Cassazione aveva talvolta riconosciuto (ved. in particolare, Cass. pen., sez. I, n. 48950/2019) la rilevanza, ai fini dell'inapplicabilità dell'espulsione in sostituzione della pena detentiva, di forme di “radicamento” costituite, in particolare, da legami familiari diversi da quelli già previsti come ostativi all'espulsione dall'art. 19 del T.U.; ciò sull'assunto, essenzialmente, della non tassatività dei casi in cui, in base a detta ultima norma, l'espulsione è espressamente vietata.
Orientamento, questo, non condiviso, peraltro, in altre pronunce quali, ad esempio, Cass. pen., sez. I, n. 10946/2020, secondo cui le cause ostative all'espulsione previste dal citato art. 19 del T.U. “hanno carattere eccezionale e non possono, pertanto, essere oggetto di applicazione analogica”, per cui è stato escluso che l'espulsione in sostituzione della pena detentiva potesse essere impedita dall'esistenza di legami familiari che non fossero quelli previsti dalla norma anzidetta.
Non è qui il caso di addentrarsi in una disamina delle ragioni che potrebbero indurre a preferire l'uno o l'altro dei suddetti indirizzi interpretativi. Quel che conta, ai fini che qui interessano, è che il primo di essi trae il suo essenziale fondamento non dall'art. 8 della CEDU (al quale, nella citata sentenza n. 48950/2019, si fa soltanto un sommario e generico richiamo) ma da considerazioni di tutt'altra natura alle quali, anche nel caso in esame, nulla avrebbe impedito di fare nuovamente ricorso.
Si è preferito, invece, invocare stavolta, a sostegno della scelta operata in favore di quello stesso indirizzo, la presunta, superiore autorità delle pronunce della Corte di Strasburgo relative al citato art. 8 della CEDU. Ma invocare un'autorità facendole dire quel che non ha detto o tacendo una parte rilevante di quel che, invece, ha detto è operazione, con ogni evidenza, assai pericolosa. Ed il risultato, nel caso di specie, sembra confermarlo.
Vuoi leggere tutti i contenuti?
Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter continuare a
leggere questo e tanti altri articoli.