Legge - 29/10/1984 - n. 720 art. 1 bis

Alessandro Auletta

 

1. I pignoramenti ed i sequestri, a carico degli enti ed organismi pubblici di cui al primo comma dell'articolo 1, delle somme affluite nelle contabilità speciali intestate ai predetti enti ed organismi pubblici si eseguono, secondo il procedimento disciplinato al capo III del titolo II del libro III del codice di procedura civile, con atto notificato all'azienda o istituto cassiere o tesoriere dell'ente od organismo contro il quale si procede nonché al medesimo ente od organismo debitore.

2. Il cassiere o tesoriere assume la veste del terzo ai fini della dichiarazione di cui all'articolo 547 del codice di procedura civile e di ogni altro obbligo e responsabilità ed è tenuto a vincolare l'ammontare per cui si procede nelle contabilità speciali con annotazione nelle proprie scritture contabili.

3. In caso di pignoramenti o sequestri di entrate proprie degli enti ed organismi pubblici di cui al primo comma dell'articolo 1 eseguiti anteriormente al versamento di queste in contabilità speciale, il cassiere o tesoriere provvede ugualmente al dovuto versamento nella contabilità speciale con annotazione del relativo vincolo.

4. Restano ferme le cause di impignorabilità, insequestrabilità ed incedibilità previste dalla normativa vigente, nonché i vincoli di destinazione imposti, o derivanti dalla legge.

4- bis . Non sono ammessi atti di sequestro o di pignoramento ai sensi del presente articolo presso le sezioni di tesoreria dello Stato e presso le sezioni decentrate del bancoposta a pena di nullità rilevabile anche d'ufficio. Gli atti di sequestro o di pignoramento eventualmente notificati non determinano obbligo di accantonamento da parte delle sezioni medesime né sospendono l'accreditamento di somme nelle contabilità intestate agli enti ed organismi pubblici di cui alla tabella A annessa alla presente legge 123.

[3] A norma dell'articolo 1, comma 45, della legge 23 dicembre 2005, n. 266, la presente legge non si applica, a decorrere dal 1° gennaio 2006, alle Camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura ed alle aziende speciali ad esse collegate.

Inquadramento

L'art. 1, l. n. 720/1984 (al cui esame si rinvia) prevede che le operazioni di pagamento ed incasso svolte dai tesorieri sono a valere sulle contabilità speciali aperte presso le sezioni di tesoreria provinciale dello Stato, sicché, come è stato rilevato in dottrina, non è configurabile un rapporto di credito-debito tra gli enti pubblici ed i rispettivi tesorieri (che peraltro neppure detengono, al di là dei limiti indicati sopra, la materiale disponibilità della somme (Costantino, La tutela espropriativa).

A tale inconveniente ha posto rimedio il d.l. n. 359/1987, che ha introdotto l'art. 1-bis della legge sulla tesoreria unica, qui in esame.

Alla stregua del comma 1 di tale disposizione, «i pignoramenti ed i sequestri, a carico degli enti ed organismi pubblici di cui al comma 1 dell'art. 1, delle somme affluite nelle contabilità speciali intestate ai predetti enti ed organismi pubblici si eseguono, secondo il procedimento disciplinato al capo III del titolo II del libro III del c.p.c., con atto notificato all'azienda o istituto cassiere o tesoriere dell'ente od organismo contro il quale si procede nonché al medesimo ente od organismo debitore».

Il tesoriere assume la veste di terzo nel procedimento di espropriazione forzata del credito e, pertanto, oltre a dover custodire le somme, deve rendere la prescritta dichiarazione di quantità.

Tuttavia, «in caso di pignoramenti o sequestri di entrate proprie degli enti ed organismi pubblici di cui al comma 1 dell'art. 1 eseguiti anteriormente al versamento di queste in contabilità speciale, il cassiere o tesoriere provvede ugualmente al dovuto versamento nella contabilità speciale con annotazione del relativo vincolo» (art. 1-bis, comma 3).

Restano però salve «le cause di impignorabilità, insequestrabilità ed incedibilità previste dalla normativa vigente, nonché i vincoli di destinazione imposti, o derivanti dalla legge» (art. 1-bis, comma 4).

Alla stregua di tale dato originario normativo, dunque, il pignoramento poteva indifferentemente colpire tanto le somme di pertinenza dell'Ente esecutato già affluite nelle contabilità speciali quanto quelle incassate dal tesoriere ma da questi non ancora riversate nelle suddette contabilità (Cass. S.U., n. 4136/1988).

Sennonché, il quadro disciplinare è ulteriormente mutato per effetto della introduzione, nel tessuto del citato art. 1-bis, del comma 4-bis, che prevede che «non sono ammessi atti di sequestro o di pignoramento ai sensi del presente articolo presso le sezioni di tesoreria dello Stato e presso le sezioni decentrate del bancoposta a pena di nullità rilevabile anche d'ufficio. Gli atti di sequestro o di pignoramento eventualmente notificati non determinano obbligo di accantonamento da parte delle sezioni medesime né sospendono l'accreditamento di somme nelle contabilità intestate agli enti ed organismi pubblici di cui alla tabella A annessa alla presente legge».

La norma dispone, cioè, che le somme che fanno parte della contabilità speciale tenuta presso le sezioni di tesoreria dello Stato e presso le sezioni decentrate del bancoposta non possono essere pignorate e che il pignoramento che sia stato eseguito su di esse è nullo di diritto.

Analisi del comma 4-bis

Riguardo alla disposizione contenuta nel comma 4-bis si sono posti dubbi di legittimità costituzionale.

In una prima occasione, la Corte di Cassazione (Cass. n. 4746/2001) ha ritenuto la questione manifestamente infondata in quanto «la norma si riferisce (...) alle entrate speciali degli enti (ritenute meritevoli di particolare destinazione), le quali costituiscono una parte soltanto del patrimonio dei medesimi enti. Ciò non comporta, quindi, una condizione di incondizionato privilegio del credito o il totale sacrificio del diritto del creditore di procedere ad esecuzione forzata, perché consente l'esecuzione forzata sugli altri beni del debitore».

Sempre con riferimento alla norma in esame, si è posto il problema se la indicazione del tesoriere quale terzo pignorato implichi l'impossibilità di aggredire crediti che l'Ente esecutato vanti verso diversi soggetti, anche di natura privatistica.

La giurisprudenza di merito ha affermato che l'esecuzione presso terzi intrapresa nei riguardi di un terzo diverso dal tesoriere debba essere dichiarata inammissibile, anche su rilievo d'ufficio (Trib. Napoli 12 dicembre 2005).

Tale soluzione è stata ribadita dal Tribunale di Roma, secondo cui «è nullo il sequestro e il pignoramento del denaro delle pubbliche amministrazioni operato verso terzi diversi dal Tesoriere e tale nullità è rilevabile d'ufficio. Infatti, le somme di denaro che rientrano nella contabilità speciale degli enti pubblici indicati dalla suddetta norma, tenute presso le sezioni provinciali di Tesoreria dello Stato e presso le sezioni decentrate del bancoposta, non possono essere pignorate e l'eventuale pignoramento effettuato su di esse è nullo di diritto» (Trib. Roma 17 luglio 2017) e da Trib. Napoli 6 febbraio 2020, che ha dichiarato improcedibile l'esecuzione intrapresa contro un terzo diverso dal tesoriere di un'amministrazione statale soggetta al regime della tesoreria unica.

La dottrina (Rossi, 279), dal canto suo, ritiene (a nostro avviso condivisibilmente) che, fuori dal caso peculiare in cui il debitore sia un Ente locale (o altro soggetto ricadente nell'ambito di applicazione dell'art. 159 TUEL), la soluzione da preferire sia quella opposta.

Si rileva, da un lato, che la ratio della disciplina sulla tesoreria sia quella di garantire una ordinata gestione della contabilità (e rispetto a tale ratio la rilevata inammissibilità del pignoramento appare ultronea) e, dall'altro lato, che una lettura costituzionalmente orientata del sistema dovrebbe condurre a ripudiare orientamenti che portino ad estendere la portata applicativa di ostacoli o impedimenti al pieno dispiegarsi del diritto di procedere in via esecutiva.

Oltre alle criticità esposte dalla citata dottrina, si deve evidenziare che la Corte di Cassazione, sebbene al limitato fine della delibazione circa la manifesta infondatezza della q.l.c. dell'art. 1-bis, comma 4-bis, cit., ha affermato, come ricordato, che la disposizione non determina un intollerabile sacrificio del creditore proprio perché, riferendosi solo ad alcuni tipi di entrate, non pregiudica il diritto di aggredire in via esecutiva altri beni.

Dunque, se – ad esempio – si discute di un rapporto di tipo privatistico tra amministrazione (fatto salvo il caso in cui trovi applicazione l'art. 159 TUEL, su cui si tornerà in appresso) e terzo, non sembrano porsi le esigenze protettive sopra indicate riguardo a determinati flussi di cassa, mentre al contrario si imporrebbe al creditore un sacrificio sproporzionato (proprio perché non giustificato dalle predette esigenze).

Le implicazioni della qualificazione del tesoriere come terzo pignorato

Come anticipato, il tesoriere assume la veste di terzo nel procedimento di espropriazione forzata del credito e, pertanto, oltre a dover custodire le somme, deve rendere la prescritta dichiarazione di quantità.

Ha quindi rilievo anche qui un rapido esame della giurisprudenza in tema di dichiarazione di quantità (con segnato riferimento al relativo contenuto ed alla sua modificabilità/revocabilità) ed in tema di responsabilità del terzo pignorato.

Per ogni opportuno approfondimento su tali temi si rinvia al commento all'art. 159, d.lgs. n. 267/2000 (TUEL).

Sotto il profilo del contenuto della dichiarazione e della relativa modificabilità

Con riferimento al contenuto della dichiarazione ed alla possibilità di emendare la dichiarazione stessa, occorre muovere dalla premessa, ormai pacifica in giurisprudenza (Cass. n. 9407/1987), che il terzo pignorato è un ausiliario del g.e.

La relativa dichiarazione è volta a consentire la precisa individuazione delle somme che possono essere assegnate – e sulla stessa non sorgano contestazioni –, il credito pignorato è, ai fini del processo espropriativo, quello risultante da tale dichiarazione; in più l'ordinanza di assegnazione costituisce (con alcune particolarità) titolo esecutivo nei confronti del terzo, ragione per la quale, se questi non ottempera all'ordine di pagamento proveniente dal g.e., potrà, a sua volta, subire un'azione esecutiva da parte del creditore insoddisfatto e, se l'ordinanza di assegnazione non è stata impugnata nelle debite forme, il credito azionabile sarà individuato (indipendentemente dalla circostanza che, in effetti, il terzo fosse debitore di quelle somme), appunto, sulla scorta di tale titolo.

Il terzo, quindi, ha tutto l'interesse (oltre che per garantire, nella sua veste di ausiliario, il celere e proficuo svolgimento del processo esecutivo) a fornire una dichiarazione precisa e fedele (Saletti, il quale ha osservato che il terzo si trova, oggi, in una posizione particolarmente gravosa).

Sorge quindi la questione se ed in che limiti la dichiarazione di quantità sia revocabile o modificabile dal terzo.

Tale questione è stata storicamente risolta tenendo conto della qualificazione (fino al recente passato prevalente) della dichiarazione di quantità quale confessione o comunque come atto di natura lato sensu confessoria (in questo senso v. già Cass. n. 584/1951; Cass. n. 357/1954; più di recente, v. Cass. n. 17637/2003).

Da tale qualificazione discende (rectius: si è tradizionalmente fatta discendere) l'applicazione dell'art. 2732 c.c. quanto alla individuazione dei limiti di modificabilità/revocabilità della dichiarazione di quantità.

È noto che già la dottrina – che, in prevalenza, è partita da una ricostruzione in chiave squisitamente processuale della fattispecie (Consolo, 383) – aveva espresso critiche riguardo a tale ricostruzione della dichiarazione di quantità, osservando: che nella dichiarazione di quantità non è sempre ravvisabile l'estremo del pregiudizio del dichiarante (Colesanti, 404); che la dichiarazione può giovare ad un soggetto diverso da colui che l'ha provocata, come nel caso in cui nel procedimento esecutivo sia intervenuto medio tempore un creditore privilegiato (Bucolo, 186, nota 23); che anche la dichiarazione positiva non vincola il creditore procedente (il quale potrebbe sempre contestarla, ad esempio ritenendo che il terzo sia debitore di una somma superiore), come – in linea con la predetta qualificazione – dovrebbe desumersi dall'art. 2733, comma 2, c.c.

In alcune recenti pronunce, per vero, prima in modo più sfumato e poi in modo sostanzialmente esplicito, la tradizionale qualificazione risulta esser stata abbandonata.

Ebbene, da quanto punto di vista, è di notevole interesse Cass. n. 5489/2019.

Sviluppando gli spunti provenienti da alcuni recenti precedenti (Cass. n. 13143/2017), la richiamata pronuncia è esplicita nel rilevare che «prendendo le mosse principalmente dal rilievo endoprocessuale che assume la dichiarazione del terzo, come fase necessaria del procedimento che porta all'assegnazione del credito, ne consegue che si ritiene più appropriato predicare alla dichiarazione del terzo, per valutarne la revocabilità, le categorie processuali piuttosto che quelle sostanziali, lasciando sullo sfondo la problematica della natura processuale dell'atto».

Alla luce di ciò e valorizzando il principio di autoresponsabilità, si giunge ad affermare che «non si può ritenere ammissibile una revoca ad nutum, purché intervenga in un qualsiasi momento precedente all'assegnazione del credito; dal momento in cui la dichiarazione attinge la sfera giuridica del terzo, provocando un affidamento tutelabile, non può essere liberamente modificata (una libera modifica, incondizionata, sarebbe quella che si limita a riferire l'esistenza di un errore)».

Non possono, poi, avere rilievo i motivi che hanno portato alla fornitura di una dichiarazione erronea, sicché non rileva il motivo che ha condotto all'errore e quindi la allegazione e la prova della circostanza che abbia comportato il verificarsi di un errore sulla dichiarazione, così come avviene per la confessione.

Interessa piuttosto che l'errore che viene in rilievo sia particolarmente qualificato e, cioè, che non sia imputabile al terzo o che, comunque, risulti scusabile cioè meritevole di rimessione in termini ex art. 153 c.p.c.

Tale soluzione, come anticipato, discende da un principio generale (quale quello di autoresponsabilità) «che consente di raggiungere un punto di equilibrio, espressione del dovere di leale cooperazione che grava non solo sul terzo, ma su tutti i soggetti coinvolti nella procedura esecutiva, e quindi anche sui creditori, e che può consentire di non privilegiare il creditore, per l'affidamento ingeneratosi su una dichiarazione positiva, ma erronea, qualora l'errore in cui è incorso il terzo dichiarante sia scusabile».

Altrimenti detto, il terzo resta vincolato dalla propria dichiarazione, quantunque erronea, se si tratti di errore inescusabile; diversamente, nel caso in cui l'errore sia scusabile, la buona fede del dichiarante va tutela a prevalenza dell'affidamento del destinatario della dichiarazione.

Il che pone, a noi pare, la dichiarazione di quantità lontana dallo schema di riferimento della confessione.

Esiste poi un limite temporale entro cui il terzo (alle condizioni viste) possa (debba) procedere ad emendare la dichiarazione erronea.

Tale attività può (deve) essere espletata finché il giudice non dichiari chiusa l'udienza per la dichiarazione del terzo e per l'assegnazione del credito (anche se non si concluda in un unico spazio di tempo, a fronte di eventuali rinvii, ad esempio disposti per il controllo dei titoli ed i conteggi), finché non si passi alla fase di discussione in udienza pubblica, partecipata, alla fase di decisione sulla emissione della ordinanza di assegnazione, avvenga la stessa in udienza o fuori udienza, laddove il giudice si sia riservato.

Resta ferma, ove il g.e. disattenda la dichiarazione come modificata, la possibilità di impugnare, ex art. 617, c.p.c., l'ordinanza di assegnazione.

Sotto il profilo della responsabilità

Rilevanti, per la esatta perimetrazione degli obblighi del terzo, quanto al contenuto della dichiarazione, i principi ricavabili da Cass. n. 14597/2020, secondo cui «qualora un pignoramento presso terzi abbia ad oggetto un credito che è stato già azionato in sede esecutiva, il terzo pignorato, a seconda dei tempi delle due procedure, può proporre opposizione ex art. 615 c.p.c. avverso la procedura intentata ai suoi danni, al fine di dedurre il definitivo venir meno della titolarità del credito in capo al proprio creditore, ma solo se e nella misura in cui sia stata già pronunciata l'ordinanza di assegnazione implicante la sostituzione del proprio creditore con i creditori che quel credito hanno pignorato, oppure ha l'onere di dichiarare quella circostanza, ai sensi dell'art. 547 c.p.c., nella procedura di espropriazione presso terzi, rimanendo altrimenti esposto al rischio di restare obbligato sia nei confronti del proprio creditore originario sia del creditor creditoris. Quest'ultimo, a sua volta, apprendendo notizia dell'azione esecutiva intrapresa dal suo debitore può sostituirsi allo stesso in forza dell'ordinanza di assegnazione del credito, che determina una successione a titolo particolare nel diritto in base all'art. 111 c.p.c., oppure mediante istanza di sostituzione in forza dell'art. 511 c.p.c.».

Il caso deciso dalla Cassazione presentava qualche peculiarità.

Una società assicuratrice eseguiva un pignoramento mobiliare presso il debitore per recuperare un proprio credito; due creditori di tale società, a loro volta, effettuavano nei confronti della stessa dei pignoramenti presso terzi, invitando il debitore della prima procedura a rendere la dichiarazione di quantità.

Il debitore della prima procedura (terzo in quelle intentate dai creditores creditorum) proponeva opposizione all'esecuzione deducendo l'inammissibilità e l'improseguibilità di tale procedura, giacché il credito azionato era stato, a sua volta, oggetto di pignoramento da parte dei creditori della stessa società creditrice.

Sia il giudice di prime cure che quello dell'appello rigettavano l'opposizione.

Il ricorrente aveva dedotto che il pignoramento eseguito dal creditor creditoris avrebbe determinato l'insorgenza di un vincolo di indisponibilità delle somme dovute alla compagnia assicurativa, con conseguente improcedibilità della prima procedura esecutiva; diversamente ragionando, si determinerebbe la sottrazione del compendio pignorato, rilevante sia dal punto di vista penale (artt. 334 e 388 c.p.) che civile (art. 546 c.p.c. relativo, come noto, agli obblighi di custodia del terzo).

La S.C. ha respinto il ricorso evidenziando: a) che i pignoramenti eseguiti dai creditores creditorum non avevano lo stesso oggetto di quello posto in essere dalla società assicuratrice presso il proprio debitore.

Per tale ragione, il patrimonio del debitore aggredito in via esecutiva con la prima procedura doveva restare vincolato a garanzia dell'adempimento delle obbligazioni contratte nei riguardi del procedente (debitore esecutato nelle successive procedure presso terzi).

Il coordinamento tra la prima procedura e quelle successive (intentate, si ripete, nella forma del presso terzi contro la società assicuratrice e nei confronti del debitore esecutato della prima procedura) va realizzato facendo distinzione a seconda che le procedure presso terzi si siano concluse o meno, con l'adozione dell'ordinanza di assegnazione.

Nel primo caso, determinandosi una successione nel credito vantato dal debitore (la società assicuratrice) verso il terzo (il debitore della prima procedura), i creditori della società assicuratrice avrebbero avuto titolo per proseguire nell'espropriazione da questa intrapresa contro il proprio debitore secondo le regole della successione a titolo particolare nel diritto (art. 111 c.p.c.).

Nel secondo caso, al fine di evitare che la compagnia assicuratrice incassasse il ricavato della vendita del bene pignorato nella prima procedura, i creditores creditorum avrebbe potuto far valere le proprie ragioni in tale procedura attraverso l'istituto della subcollocazione (art. 511 c.p.c.).

Tanto nella prima eventualità quanto nella seconda, è essenziale che il terzo pignorato, nella sua qualità di ausiliario del giudice dell'esecuzione, fornisca una dichiarazione completa, dando atto che il credito vantato dalla società assicuratrice non era un credito bonum ma «a sofferenza», già azionato – a sua volta – in sede esecutiva; in mancanza di che, tale terzo resta esposto al rischio di pagare due volte.

Nello specifico, difatti, il terzo dovrebbe pagare le somme di cui si è dichiarato debitore verso l'esecutato (la società assicuratrice) e, al contempo, subire gli effetti dell'espropriazione da questa intrapresa per recuperare il proprio credito.

Con riferimento al caso che qui interessa, i suddetti principi assumo rilievo in quanto il terzo ha l'onere di far risultare, dalla dichiarazione di quantità, la sussistenza di eventuali vincoli interessanti le somme detenute per conto dell'esecutato, poiché, laddove ciò non accada e il g.e. proceda all'assegnazione, il terzo potrebbe essere esposto alla conseguenza di un duplice pagamento (una volta in virtù dell'ordinanza di assegnazione ed una volta in virtù dell'ordine ricevuto dall'ente correntista, che confidi in buona fede sulla disponibilità delle giacenza vincolate all'espletamento di servizi essenziali).

Altro profilo interessante, anche con riferimento agli obblighi del tesoriere, attiene all'applicabilità, anche al tesoriere, del principio giurisprudenziale per cui, «la dichiarazione di estinzione della procedura esecutiva originata da un singolo atto di pignoramento non fa venir meno gli effetti degli eventuali successivi distinti e autonomi pignoramenti aventi ad oggetto i medesimi beni; la violazione in buona fede da parte del terzo degli obblighi di custodia di cui all'art. 546 c.p.c. non fa venir meno gli effetti conservativi del pignoramento e non pregiudica i diritti del creditore procedente, salvo il diritto del terzo ad ottenere il risarcimento del danno dal responsabile del suo errore» (Cass. n. 30500/2019).

Laddove il g.e. abbia dichiarato l'improcedibilità dell'esecuzione – avendo inteso come negativa la dichiarazione del terzo – appaiono rilevanti, anche per il caso qui in esame, i seguenti principi giurisprudenziale: «il terzo pignorato, avendo l'obbligo di non compiere atti che determinino l'estinzione o il trasferimento del credito, è interessato alle vicende processuali che, riguardando la legittimità o la validità del pignoramento, possano comportare, o meno, la sua liberazione dal relativo vincolo; ne consegue che egli è parte necessaria del processo di opposizione in cui il creditore pignorante contesti l'ordinanza del giudice dell'esecuzione dichiarativa dell'inefficacia del detto pignoramento e che, pertanto, deve essere chiamato in causa dal ricorrente al fine di rendere opponibile nei suoi confronti la decisione che definisce il giudizio, dovendo il giudice, in mancanza, ordinare l'integrazione del contraddittorio» (Cass. n. 3899/2020).

In applicazione del principio, la S.C. ha rilevato, d'ufficio, la nullità di un giudizio di opposizione ex art. 617 c.p.c., promosso avverso un provvedimento del giudice dell'esecuzione concernente una richiesta di sequestro conservativo su crediti del debitore esecutato, nel quale non era stato convenuto il terzo pignorato.

Implicazioni dell'art. 1-bis sulla competenza (rinvio)

Si rinvia per l'esame di tale profilo al commento all'art. 26-bis c.p.c.

Sul punto, invero, va evidenziato che la disposizione da ultimo citata è stata incisivamente modificata per effetto del d.lgs. n. 149/2022 (c.d. riforma Cartabia).

Il criterio di competenza è stato radicalmente modificato nel senso che il g.e. va individuato con riferimento al domicilio o alla sede del creditore, avuto riguardo alla sede ove opera l'Avvocatura dello Stato.

In buona sostanza, e fermo restando che è discusso il perimetro dell'ambito applicativo di tale nuovo criterio (per l'esposizione delle diverse tesi si rinvia, appunto, alla sede propria), la rilevanza dell'art. 1-bis è diversamente percepita dai sostenitori dell'opinione secondo cui la norma sulla competenza contenuta nel primo comma dell'art. 26-bis c.p.c. si applica a tutte le amministrazioni pubbliche e dai sostenitori dell'opinione secondo cui, invece, il criterio di competenza come novellato opera soltanto con riguardo alle amministrazioni difese ex lege dall'Avvocatura erariale.

Per i primi, siccome il criterio di collegamento è adesso tutto calibrato sul domicilio o la sede del creditore, il rinvio alla disposizione qui in esame (relativa invece al rapporto con il tesoriere) avrebbe perso consistenza (v. Trib. Napoli Nord 10 maggio 2023); per i secondi, al contrario, «l'inciso relativo alle leggi speciali potrà continuare ad avere un senso, per le ipotesi di espropriazione di crediti in danno di enti ed istituti esercenti forme di previdenza ed assistenza obbligatorie organizzati su base territoriale (ad esempio, l'Istituto Nazionale della Previdenza Sociale). In tale eventualità, infatti, l'art 14, comma 1-bis, secondo periodo, del d.l. n. 669/1996, convertito in l. n. 30/1997, prescrive che il pignoramento sia «instaurato, a pena di improcedibilità rilevabile d'ufficio, esclusivamente innanzi al giudice dell'esecuzione della sede principale del Tribunale nella cui circoscrizione ha sede l'ufficio giudiziario che ha emesso il provvedimento in forza del quale la procedura esecutiva è promossa» (Trib. Napoli 5 maggio 2024).

Sul punto è intervenuta di recente la Corte di Cassazione (Cass. n. 30434/2024) che ha affermato che «la esegesi più aderente alla ratio della disciplina sia nel senso di ricondurre sotto l'egida del primo comma dell'art. 26-bis soltanto ed esclusivamente le procedure di espropriazione di crediti intraprese in danno di pubbliche amministrazioni ex lege patrocinate e difese istituzionalmente ed obbligatoriamente dall'Avvocatura dello Stato».

Ciò sulla base di indici testuali (valorizzazione del riferimento al ruolo svolto dall'Avvocatura dello Stato nelle sue articolazioni territoriali), sistematici (sovrapponibilità con la disposizione istitutiva del c.d. foro erariale) e logici (contrarietà della tesi opposta ai principi di ragionevolezza ed alla prioritaria esigenza di una ordinata distribuzione delle controversie sul territorio»).

Nella citata occasione, la S.C. ha anche avuto modo di affermare che l'inciso in questione «si riferisce alle norme che dettino regole processuali sulla competenza, individuando un ufficio giudiziario cui devolvere le procedure di espropriazione forzata di crediti in danno delle pubbliche amministrazioni sulla base di elementi di collegamento diversi da quelli previsti dall'art. 26-bis c.p.c. (norme tra le quali non è compreso l'art. 1-bis della legge 29 ottobre 1984, n. 720)».

In altre parole, alla luce del citato arresto: a) la regola posta dal comma 1 dell'art. 26-bis c.p.c. si applica solo alle amministrazioni difese dall'Avvocatura dello Stato; b) tale regola non trova applicazione laddove vi siano norma speciali sulla competenza fatte salve dal primo comma tra cui non rientra l'art. 1-bis della legge sulla tesoreria unica (mentre vi rientrerebbe la disposizione dettata dal comma 1-bis dell'art. 14, d.l. n. 669/1996), con la precisazione che la clausola di salvezza «benché inserita nel corpo del primo comma (....) descrive e configura una deroga ad ambedue i parametri di radicamento previsti dall'art. 26-bis c.p.c., una deroga dunque valevole quando debitore (...) sia una qualsiasi pubblica amministrazione, pur non patrocinata per legge dall'Avvocatura dello Stato»; c) in via del tutto residuale dovrebbe operare (benché sul punto la S.C. non abbia affermato alcun principio nell'interesse della legge) il criterio previsto dal comma 2 dell'art. 26-bis c.p.c.

Pignorabilità somme detenute dal tesoriere allorché il rapporto sia gestito in regime di anticipazione di cassa

Una questione particolarmente dibattuta attiene alla pignorabilità delle somme di cui l'Ente esecutato abbia disponibilità presso il proprio tesoriere in regime di anticipazione di cassa.

Tale modalità di gestione del rapporto di tesoreria è particolarmente diffusa con riferimento agli Enti locali, tanto che l'art. 222 TUEL reca una specifica disciplina della materia.

Il profilo problematico di maggiore rilievo attiene al se le rimesse effettuate sul conto intestato all'Ente locale siano opponibili o meno al creditore procedente.

La giurisprudenza di merito, partendo dalla premessa secondo cui va esclusa una qualificazione del rapporto di tesoreria in termini privatistici (in specie facendo ricorso alle norme in materia di conto corrente o di apertura di credito), ha escluso la pignorabilità delle somme sopraggiunte sul conto intestato all'Ente locale qualora le stesse siano dirette a consentire il ripristino della disponibilità.

Depongono in questo senso i seguenti argomenti: a) l'art. 4, d.m. 4 agosto 2009 disciplina un meccanismo di regolazione dei rapporti tra Ente e tesoriere in virtù del quale le somme rimesse sul conto corrente sono prioritariamente destinate al rientro dell'anticipazione ed hanno quindi una funzione ripristinatoria; b) proprio per la loro funzione non si tratta di pagamenti successivi al pignoramento, inopponibili al creditore pignorante in virtù dell'art. 2917 c.c.

La giurisprudenza della S.C., in specie, ha affermato che «in base all'art. 4 d.m. 26 luglio 1985, le anticipazioni effettuate agli enti ed organismi pubblici dai tesorieri, in mancanza di disponibilità non vincolate nelle contabilità speciali presso le sezioni di tesoreria provinciale dello Stato, devono essere estinte, a cura dei tesorieri, non appena siano acquisiti introiti non soggetti a vincolo di destinazione, sicché quel che rileva è il dato dell'acquisita disponibilità delle suddette somme da parte dei nominati soggetti, per effetto del prodursi di una giacenza degli importi indicati sul conto di tesoreria, indipendentemente dai tempi di regolazione dei rapporti di debito e credito fra i tesorieri o cassieri e le sezioni di tesoreria provinciale, che sono disciplinati dal successivo art. 5 e che non rilevano ai fini della nominata estinzione» (Cass. n. 20394/2017).

Sulla questione si segnala un recente pronunciamento della Corte di Cassazione (Cass n. 9250/2020 e, nello stesso senso, la coeva Cass. n. 9251/2020).

La S.C. parte dall'analisi della posizione dell'istituto tesoriere, evidenziando che i rapporti con l'Ente sanitario (o altro ente pubblico) sono plurimi, in specie trattandosi: a) di un «conto corrente bancario» sul quale l'Istituto aveva erogato le «anticipazioni di cassa» nei limiti consentiti dalla normativa vigente; b) un conto corrente in contabilità speciale «infruttifero» presso le Sezioni di tesoreria provinciale dello Stato (destinato alle somme a destinazione vincolata ex lege).

Relativamente al primo rapporto, va evidenziato che le rimesse effettuate dal correntista o da terzi possono assolvere o ad una funzione ripristinatoria della provvista o ad una funzione solutoria, onde nei rapporti tra banca e cliente i «singoli versamenti» sul conto effettuati dalla banca-mandataria all'incasso per conto del cliente-mandante non individuano una autonoma obbligazione cui corrisponde un diritto di credito o un bene autonomamente assoggettabile a pignoramento o sequestro, in quanto atti di attuazione di un medesimo ed unico rapporto di natura complessa; il secondo rapporto (quello intestato all'Azienda sanitaria in «contabilità speciale», infruttifero) invece va ricondotto alla figura della delegazione all'incasso ed al pagamento, non essendo configurabili nelle singole operazioni attuative del mandato autonomi rapporti obbligatori di debito-credito tra la banca e l'Azienda sanitaria.

La questione controversa attiene alla incidenza che, nella individuazione del bene oggetto del pignoramento presso terzi (nello specifico le somme giacenti sui conti intestati alla ASP e movimentati dalla banca gestore del servizio di tesoreria), vengono a svolgere le norme disciplinanti il servizio di tesoreria nella parte in cui impongono ai tesorieri, con norma regolamentare (il citato art. 4 d.m. 4 agosto 2009), in assenza di disponibilità non vincolate nelle contabilità speciali, di estinguere immediatamente i saldi negativi sul conto corrente per utilizzo anticipazioni, «immediatamente» con i primi introiti non vincolati rimessi sul conto corrente bancario, ovvero – in mancanza di introiti – «entro il giorno successivo» a quello di acquisizione di nuove disponibilità su contabilità speciali.

La Corte, partendo dalla distinzione tra i due rapporti sopra tratteggiata, ha chiarito quanto segue.

Limitatamente al servizio di tesoreria in senso stretto, la banca agisce secondo le regole del mandato integrato da specifiche norme di settore, effettuando i prelievi necessari ad eseguire i pagamenti dovuti dalla Azienda sanitaria anche a valere sul conto speciale infruttifero (con l'unica limitazione di somme per le quali già sussista un vincolo di destinazione). Tali somme sono nella immediata disponibilità dell'ente e per tale motivo la legge le qualifica come pignorabili con la peculiarità che è la banca che gestisce il rapporto di tesoreria ad assumere la veste di terzo, malgrado il rapporto di conto corrente speciale infruttifero intercorra tra l'Azienda sanitaria e la Sezione provinciale di tesoreria dello Stato presso cui il conto è acceso; altrimenti detto, il tesoriere non ha nella sua disponibilità le vicende del conto speciale infruttifero né può impiegare liberamente le somme giacenti su tale conto né deve restituire alcunché all'Azienda sanitaria quando cesserà il servizio di gestione sul predetto conto corrente; il pignoramento riguarderà quindi le giacenze esistenti e gli accrediti già disposti sul «conto speciale» a favore dell'Azienda sanitaria, rendendosi inopponibile al creditore pignorante, secondo il criterio della priorità cronologica, gli atti dispositivi di tali somme compiuti successivamente, dovendo soltanto aversi riguardo al perfezionamento della notifica nei confronti del tesoriere; se tra tale data e quella della dichiarazione di quantità dovessero essere accreditate sul conto speciale infruttifero nuove somme, non vincolate ex lege, queste vanno certamente a integrare la capienza del conto pignorabile.

Relativamente al distinto rapporto di conto corrente, quando lo stesso presenti un saldo contabile negativo, la rimessa non costituisce autonomo bene aggredibile dal creditore pignorante.

Per ulteriori approfondimenti si rinvia al commento all'art. 222 TUEL.

Bibliografia

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