Codice Civile art. 2471 - Espropriazione della partecipazione (1).

Mariadomenica Marchese

Espropriazione della partecipazione (1).

[I]. La partecipazione può formare oggetto di espropriazione. Il pignoramento si esegue mediante notificazione al debitore e alla società e successiva iscrizione nel registro delle imprese (2).

[II]. L'ordinanza del giudice che dispone la vendita della partecipazione deve essere notificata alla società a cura del creditore.

[III]. Se la partecipazione non è liberamente trasferibile e il creditore, il debitore e la società non si accordano sulla vendita della quota stessa, la vendita ha luogo all'incanto; ma la vendita è priva di effetto se, entro dieci giorni dall'aggiudicazione, la società presenta un altro acquirente che offra lo stesso prezzo.

[IV]. Le disposizioni del comma precedente si applicano anche in caso di fallimento di un socio.

(1) V. nota al Capo VII.

(2) L'art. 16, comma 12 quinquies, del d.l. 29 novembre 2008, n. 185, conv., con modif., nella l. 28 gennaio 2009, n. 2, ha soppresso le parole : «Gli amministratori procedono senza indugio all'annotazione nel libro dei soci». Ai sensi del comma 12 undecies del medesimo art. 16 del d.l. n. 185 del 2008, conv. con modif., dalla l. n. 2 del 2009, le disposizioni entrano in vigore il sessantesimo giorno successivo alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto. Entro tale termine, gli amministratori delle società a responsabilità limitata depositano, con esenzione da ogni imposta e tassa, apposita dichiarazione per integrare le risultanze del registro delle imprese con quelle del libro dei soci.

Inquadramento

Il previgente art. 2480 c.c. e l'attuale art. 2471 c.c. in tema di società a responsabilità limitata rappresentano l'unico referente normativo in punto di pignoramento di partecipazioni sociali. Lo scarno tessuto normativo è alla base, unitamente ad una tradizionale ritrosia connessa al subingresso di un terzo estraneo nella compagine sociale (si pensi in particolare alla rilevanza dell'elemento fiduciario nelle società di persone), dei molteplici profili problematici, di ordine sia teorico che pratico, che hanno storicamente accompagnato l'esegesi in punto di modalità esecutive di aggressione delle partecipazioni sociali.

Fin da subito infatti la dottrina ha sottolineato la laconicità del tessuto normativo evidenziando come questo vuoto ha condotto gli interpreti a percorrere soluzioni opposte sotto il profilo applicativo, anzitutto con riguardo al modello esecutivo da seguire per sottoporre a pignoramento le quote, oggi partecipazioni sociali (Rossi, 531 e ss. «(...) l'analisi delle (invero laconiche) disposizioni normative dettate in argomento (artt. 2479 ss. c.c.) non consente, a differenza di quanto accade in altri ordinamenti, di pervenire a conclusioni certe, anzi evidenzia un palese difetto di coordinamento tra sistemi normativi. All'introduzione nel nostro ordinamento della tipologia societaria a responsabilità limitata, avvenuta con il codice civile del 1942, con la contestuale previsione di assoggettabilità ad esecuzione delle relative partecipazioni sociali, non si è accompagnata, infatti, la individuazione di forme procedurali ad hoc ovvero il rinvio a modelli fissati nel codice di rito. Un significativo ausilio non reca, d'altra parte, il ricorso al criterio ermeneutico della lettura dei resoconti dei lavori preparatori al codice civile, considerato l'anodino tenore della relazione al Re sul punto (n. 1013: «basterà osservare le norme della procedura esecutiva ordinaria»).

Di conseguenza, essendo i modelli espropriativi ritagliati sulla tipologia del bene oggetto del pignoramento, le maggiori difficoltà ricostruttive si sono incentrate proprio sul profilo della ricostruzione della natura giuridica della quota, in quanto premessa funzionale ad individuare le modalità esecutive da percorrere. Sul punto, si sono avvicendate plurime ricostruzioni che mettono ciascuna in evidenza una delle connotazioni proprie della quota, caratterizzata da una pluralità di prerogative e, pertanto, difficile da incasellare in un'unica categoria di bene.

La natura giuridica della partecipazione sociale

La partecipazione sociale di una s.r.l. ha posto delicati problemi interpretativi tenuto conto, principalmente, dell'insussistenza di un sostrato materiale tipico delle azioni cartolari, con tutto quanto ciò comporta, in termini di individuazione delle modalità esecutive di pignoramento. Come detto, l'eterogeneità delle tesi sulla natura giuridica della quota è sintomatica della difficoltà di sussumerla in una categoria unitaria. La quota costituisce infatti una «posizione giuridica complessa ed eterogenea, ricomprendente prerogative di natura patrimoniale, corporativa e organizzativa. Peraltro, è altrettanto difficile negare che vi siano delle situazioni– quali il trasferimento della quota, sia inter vivos sia mortis causa, il sequestro, il pignoramento, la costituzione di diritti reali– in cui la quota viene considerata un quid unitario, a prescindere dalle singole posizioni giuridiche che la compongono» (così Parmiggiani, 1116 secondo cui «(...) nei casi, infatti, in cui la quota viene considerata nella sua globalità, pur non incorporata in un titolo, essa non si distinguerebbe dall'azione. In conclusione, la partecipazione sociale, indipendentemente dal fatto che venga incorporata o meno in un titolo di credito, è destinata ad assumere un doppio significato: uno interno, come posizione nei confronti della società e degli altri soci e un altro, esterno, come posizione destinata alla circolazione. Un modo per superare la necessaria ambivalenza della natura della quota è stato individuato dalla dottrina che ha sostenuto che la quota considerata nel suo complesso quale bene giuridico non rappresenta un qualcosa di diverso e ulteriore rispetto all'insieme delle situazioni giuridiche che ne costituiscono il contenuto, ma si risolve e si identifica interamente con queste ultime. La configurazione della quota come bene assume rilievo esclusivamente sul piano dinamico della negoziazione e quindi su quello della circolazione della partecipazione sociale. Ognuna delle vicende circolatorie della quota sopra menzionate ha generato numerosi problemi interpretativi e applicativi dal momento che la disciplina che è per lo più contenuta nei codici (civile e di procedura) non è stata pensata certo né con riferimento alla quota di s.r.l., né è in grado di soddisfare la complessa natura della stessa. Peraltro, la quota cessa di costituire un'entità riconducibile alla categoria dei beni giuridici ogniqualvolta i problemi che si pongono all'interprete non si collocano sul piano dinamico, ovvero su quello dell'idoneità della partecipazione sociale ad essere oggetto di un'unitaria vicenda dispositiva, ma sul piano, essenzialmente statico ed interno all'organizzazione societaria, delle singole situazioni giuridiche di cui la quota si compone»).

Proprio esaltando l'insussistenza di un sostrato materiale, le prime ricostruzioni della natura giuridica della quota l'hanno descritta quale diritto di credito, bene non suscettibile di spossessamento, e dunque diritto di credito del socio nei confronti della società avente ad oggetto gli utili e la quota di liquidazione la cui consistenza tuttavia è incerta e subordinata alla sussistenza di utili da ripartire. La tesi si è rivelata però insufficiente a comprendere tutte le prerogative connesse alla titolarità della quota che non può essere descritta, riduttivamente, alla stregua di un mero diritto di natura patrimoniale. Nel tentativo di conciliare aspetti propri dei diritti reali da un lato e di credito dall'altro, si muove perciò l'opzione che ha descritto la quota alla stregua di posizione contrattuale del socio avente ad oggetto un fascio di prerogative riconosciute dal contratto sociale (così Cottino, 696 che sottolinea tuttavia i limiti anche di questa ricostruzione teorica in quanto ogni partecipazione sociale «(...) incorpora in sé la posizione del socio e costituisce una posizione contrattuale, che è ad un tempo insieme di diritti (individuali o in comunione) e di vicende di varia natura. Ne deriva che la quota, proprio come l'azione, rappresenta, oltre che l'espressione di un insieme di situazioni giuridiche soggettive (obbligatorie, reali, corporative), anche un dato oggettivato nella disciplina o, plasticamente, una «posizione contrattuale obiettivata»). La tesi che definisce la quota alla stregua di bene mobile parte invece dalla considerazione per cui, al pari dell'azione, costituisce «un'entità economica e giuridica attuale, oggetto di un diritto assoluto e, come tale, opponibile erga omnes». La principale obiezione a tale ricostruzione risiede tuttavia proprio nell'assenza di un sostrato materiale. Proprio l'esigenza di superare quest'ultima obiezione è alla base della nozione della quota quale bene immateriale, privo di un sostrato materiale, appunto, parificato, dal punto di vista della disciplina applicabile, ad un bene mobile non iscritto in pubblici registri.

Infine, l'evoluzione normativa che ha positivizzato l'onere dell'iscrizione dei trasferimenti delle quote nel registro delle imprese ha condotto alla sua più recente qualificazione in termini di bene immateriale iscritto in pubblico registro (un approfondito excursus in ordine alla natura della quota ed alle varie tesi susseguitesi in merito è svolto dalla Cass. n. 7409/1986 per arrivare a qualificarla alla stregua di bene immateriale parificato ai beni mobili non iscritti in pubblici registri, pronuncia tuttavia anteriore all'istituzione del registro delle imprese del 1993 e che si colloca tra le statuizioni più risalenti tra quelle che sono pervenute a tale qualificazione. Secondo la Corte quindi «con riferimento alla quota sociale della società a responsabilità limitata, che è un bene immateriale equiparatoexart. 812 c.c. a bene mobile materiale non iscritto in pubblico registro e quindi sottoposto alla relativa disciplina legislativa, trova applicazione, per l'ipotesi di alienazione della quota che sia stata già pignorata, la disciplina dell'art. 2913 c.c. che fa salvi dall'inefficacia gli effetti del possesso di buona fede, equiparando estensivamente a tale possesso l'iscrizione nel libro dei soci della società a responsabilità limitata del trasferimento della quota sociale che immette l'acquirente nell'organizzazione societaria e lo pone in grado di esercitare i suoi poteri di socio. Ne consegue che, pignorata la quota di un socio di una società a responsabilità limitata ed alienata successivamente la quota dal socio ad un terzo, con iscrizione del trasferimento nel libro dei soci, il pignoramento non è efficace, e quindi non è opponibile, nei confronti del terzo acquirente in buona fede»).

Ancora, in sede di legittimità, la descrizione alla stregua di bene immateriale si ritrova anche in Cass. n. 697/1997 («l'affermazione si collega a quella impostazione che qualifica la quota di partecipazione nella società a responsabilità limitata come posizione contrattuale del socio, comprensiva di tutte le situazioni giuridiche attive e passive che ad esso fanno capo, con la conseguente assimilazione della stessa alla cessione del contratto, la cui struttura plurilaterale è affermata dalla prevalente dottrina e dalla giurisprudenza. La tesi è, peraltro, contrastata dalla diversa ricostruzione del fenomeno per la quale la quota esprime una posizione contrattuale obiettivata che va considerata come un bene immateriale equiparato ai beni mobili, ai sensi dell'art. 812 c.c., il cui trasferimento è validamente ed efficacemente attuato attraverso un contratto del quale sono parti l'alienante, titolare della quota, e l'acquirente, mentre la società è terza ed il trasferimento è produttivo di effetti indipendentemente dall'iscrizione nel libro dei soci la cui unica funzione è quella di renderlo efficace nei confronti della società Cass. n. 7409/1986. Orbene, poiché appare indiscutibile, ad avviso del collegio, la fondatezza di siffatta conclusione per la sua puntuale aderenza al sistema normativo posta che la quota di società a responsabilità limitata, se non può considerarsi un bene materiale, come l'azione, ha un valore patrimoniale oggettivo, che è dato dalla frazione del patrimonio che rappresenta ed è dalla legge trattata come oggetto unitario di diritti (in tal senso depongono gli artt. 2477, 2480, e 2482) ed assimilata ai beni immateriali, da ciò consegue l'inattendibilità del richiamo alla struttura trilatera del negozio avente ad oggetto il trasferimento di esse e, quindi il rigetto dei motivi di ricorso di cui si discute.»), ed ancora in Cass. n. 5494/1999, Cass. n. 6957/2000 («la quota di partecipazione in una società a responsabilità limitata esprime una posizione contrattuale obiettivata che va considerata come bene immateriale equiparabile al bene mobile non iscritto in pubblico registro ai sensi dell'art. 812 c.c., onde ad essa possono applicarsi, a norma dell'art. 813 c.c., le disposizioni concernenti i beni mobili e, in particolare, la disciplina delle situazioni soggettive reali e dei conflitti tra di esse sul medesimo bene, giacché la quota, pur non configurandosi come bene materiale al pari dell'azione, ha tuttavia un valore patrimoniale oggettivo, costituito dalla frazione del patrimonio che rappresenta, e va perciò configurata come oggetto unitario di diritti e non come un mero diritto di credito; ne consegue che le quote di partecipazione ad una società a responsabilità limitata possono essere oggetto di sequestro giudiziario e, avendo il sequestro ad oggetto i diritti inerenti la suddetta quota, ben può il giudice del sequestro attribuire al custode l'esercizio del diritto di voto nell'assemblea dei soci ed eventualmente, in relazione all'oggetto dell'assemblea, stabilire i criteri e i limiti in cui tale diritto debba essere esercitato nell'interesse della custodia»), n. 22361/2009 («la quota di partecipazione in una società a responsabilità limitata esprime una posizione contrattuale obiettivata, che va considerata come bene immateriale equiparabile al bene mobile non iscritto in pubblico registro ai sensi dell'art. 812 c.c., per cui ad essa possono applicarsi, a norma dell'art. 813, ultima parte, c.c., le disposizioni concernenti i beni mobili e, in particolare, la disciplina delle situazioni soggettive reali e dei conflitti tra di esse sul medesimo bene, poiché la quota, pur non configurandosi come bene materiale al pari dell'azione, ha tuttavia un valore patrimoniale oggettivo, costituito dalla frazione del patrimonio che rappresenta, e va perciò configurata come oggetto unitario di diritti; ne consegue che le quote di partecipazione ad una società a responsabilità limitata possono essere oggetto di pignoramento nei confronti del socio che ne è titolare, a nulla rilevando il fallimento della società, che è terzo rispetto al processo esecutivo, cui pertanto non si applica l'art. 51 l.fall.»).

Nella giurisprudenza di merito, quanto alla natura giuridica della partecipazione sociale, v'è un'interessante pronuncia del Trib. di Milano, sez. spec. in materia di imprese, 9 maggio 2017 che ha optato per la qualificazione della partecipazione sociale alla stregua di bene immateriale, ovvero bene mobile non iscritto in pubblici registri. Nelle motivazioni della sentenza in commento si coglie un argomento sistematico negli indici normativi introdotti dalla riforma del diritto societario, e, segnatamente, gli artt. 2471 e 2471-bis c.c. («(...) bene immateriale equiparato ad un bene mobile non iscritto in pubblico registro, con la conseguente applicabilità alla stessa delle disposizioni concernenti i beni mobili e, in particolare, della disciplina delle situazioni soggettive reali» trova conferma nelle norme, introdotte in sede di riforma, che consentono l'espropriazione della partecipazione e la sottoposizione di essa a pegno, usufrutto e sequestro (cfr. gli artt. 2471 e 2471-bis c.c.)».

La dottrina, sulla scorta delle argomentazioni svolte dal Tribunale milanese ha sottolineato come nella «(...) la sentenza in commento, la natura della quota come «bene immateriale equiparato ad un bene mobile non iscritto in pubblico registro, con la conseguente applicabilità alla stessa delle disposizioni concernenti i beni mobili e, in particolare, della disciplina delle situazioni soggettive reali» trova conferma nelle norme, introdotte in sede di riforma, che consentono l'espropriazione della partecipazione e la sottoposizione di essa a pegno, usufrutto e sequestro (cfr. gli artt. 2471 e 2471-bis c.c.). Rimane fermo che, ai sensi dell'art. 2468, comma 1, c.c., le partecipazioni dei soci non possono essere rappresentate da azioni né costituire oggetto di offerta al pubblico di prodotti finanziari. Sotto questi profili sussiste una netta differenziazione con le azioni ed una netta contrapposizione tra s.p. a. e s.r.l. Il divieto di rappresentare le partecipazioni con azioni può essere inteso in senso proprio come impossibilità di incorporarle in titoli azionari, oppure in senso più esteso, come impossibilità di dividerle in «quanta di uguale valore». Naturalmente il divieto di emissione dei titoli comporta anche quello di immissione in un sistema di gestione accentrata in regime di dematerializzazione. A sua volta il divieto di offrire al pubblico le partecipazioni in s.r.l. si estende, a differenza di quanto previsto per i titoli di debito, al mercato primario e secondario e trova la sua giustificazione sia nell'elasticità del tipo sia, soprattutto, nella mancanza di tutele per i soci investitori. Secondo l'opinione prevalente, ogni socio è titolare di una partecipazione e non sussistono partecipazioni standard. Occorre ancora aggiungere che, a norma dell'art. 2474 c.c., sostanzialmente già presente nel sistema ante riforma, in nessun caso la società può acquistare o accettare in garanzia partecipazioni proprie, ovvero accordare prestiti o fornire garanzie per il loro acquisto e la loro sottoscrizione. Tale norma trovava fondamento (anche) in una ragione «d'ordine puramente tecnico: mancando l'ausilio del titolo di credito, il quale, come è noto, non si estingue per confusione quando una stessa persona riunisce in sé la veste di debitore e di creditore, l'acquisto della quota da parte della società provocherebbe l'estinzione del rapporto sociale limitatamente alla quota stessa, essendo inammissibile il permanere di un rapporto della società stessa con sé medesima. Pertanto, la disciplina della s.r.l., quale risulta dalla riforma societaria, vede confermata la qualificazione della partecipazione come bene, fermo restando il divieto di rappresentarla mediante le azioni, l'impossibilità di creare categorie di quote o comunque quote standardizzate, il divieto di offrirle al pubblico, nonché quello di acquistarle da parte della società. Netta quindi sotto questo profilo la differenza di disciplina con le azioni» (così Cagnasso, 2422).

Le modalità esecutive

Come anticipato, le conclusioni del dibattito sulla natura giuridica della quota incidono sull'individuazione delle modalità esecutive di aggressione della stessa.

L'art. 2480 comma 1 del c.c. nella formulazione anteriore alla riforma del diritto societario del 2003, aveva accentuato tale dibattito in considerazione, come detto, della laconicità del testo normativo non contenendo alcuna prescrizione in ordine alle modalità di esecuzione aventi ad oggetto le quote di s.r.l. ed alcuna direttiva circa le modalità del procedimento esecutivo.

Ciò aveva spinto gli interpreti a varie ricostruzioni, quella del pignoramento di beni indivisi (Carnelutti, 85) o del pignoramento mobiliare presso il debitore sulla base dell'assimilazione delle partecipazioni sociali a beni suscettibili di costituire oggetto di diritto assoluto (Bonsignori, 74 ss.).

Quanto alla giurisprudenza, pur partendo dalla ricostruzione, come visto, della quota quale bene immateriale, diverso sia dal diritto di credito sia da un bene del debitore in possesso della società, si è a lungo attestata nel senso di ritenere che la forma dell'espropriazione dovesse essere quella disciplinata dagli artt. 543 e seguenti c.p.c. per ragioni di ordine pratico, quasi fosse la modalità esecutiva più malleabile in relazione alle peculiarità del caso di specie (in tal sento Cass. n. 7409/1986 secondo cui «(...) escluso il pignoramento mobiliare presso il debitore, che presuppone l'esistenza di una cosa (materiale) da apprendere, ed escluso il pignoramento immobiliare, previsto per i beni immobili, residua il pignoramento presso terzi, unica forma utilizzabile, con i necessari adattamenti» perché «l'individuazione della quota da espropriare non può farsi se non con la collaborazione degli organi sociali» essendo tale coinvolgimento della società, funzionale anche ad assolvere ad uno scopo informativo della stessa tenuto conto delle prerogative insite nella titolarità della quota sociale così consentendole «di essere informata fin dall'inizio dell'espropriazione di quota, cioè di un fatto che comporta una modificazione sociale [...] di particolare importanza nella società a responsabilità limitata». A tale pronuncia ne hanno fatto seguito numerose successive altre, Cass. n. 2926/1997 «in materia di espropriazione presso terzi, al terzo pignorato, quale destinatario di attività del processo esecutivo e titolare di un interesse a che questo si svolga secondo legge, in relazione al pregiudizio che in situazioni particolari egli possa ricevere dall'esecuzione, va riconosciuto il potere di proporre opposizione ex art. 617 c.p.c. contro il provvedimento che indirizza la sua prestazione in un modo anziché in un altro. Pertanto, nel caso di espropriazione della quota di uno dei soci, la società a responsabilità limitata, è legittimata a proporre opposizione contro il provvedimento di assegnazione della quota ad un soggetto ad essa estraneo, al fine di far valere il proprio diritto di presentare un altro acquirente a norma dell'art. 2480 c.c., applicabile anche nella indicata ipotesi, che realizza al pari della vendita coattiva una forma di trasferimento coattivo del diritto», Cass. n. 9577/1997, Cass. n. 7409/1986).

Nel silenzio normativo la giurisprudenza si è orientata perciò, in modo piuttosto omogeneo, nel senso di ritenere che il pignoramento dovesse seguire le forme del pignoramento presso terzi con correlativa ingiunzione al debitore di astenersi dal compiere qualunque azione diretta a sottrarre alla garanzia del credito la partecipazione pignorata e l'invito al terzo a comparire in udienza al cospetto del giudice dell'esecuzione per rendere la dichiarazione di cui all'art. 547 c.p.c. E tale opzione della giurisprudenza è stata quella prevalente almeno fino alla riforma del 2003.

Secondo tale impianto quindi il rappresentante della società doveva comparire dinanzi al giudice dell'esecuzione e dichiarare il nominativo del soggetto titolare della quota, indicare il valore della quota ed anche i vincoli eventualmente gravanti sulla stessa (in dottrina, in senso adesivo all'individuazione del pignoramento presso terzi quale forma preferibile di modalità esecutiva avente ad oggetto le quote di s.r.l., Rossi, cit., «(...) invero, delimitato l'ambito dell'indagine unicamente alle forme espropriative previste per i beni mobili, va prima facie evidenziata l'inadeguatezza del procedimento espropriativo diretto: il pignoramento presso il debitoreexart. 513 c.p.c. presuppone una cosa materialmente apprensibile da parte dell'ufficiale giudiziario procedente e tale res non può essere costituita né dalla quota, la quale non ha consistenza naturalistica, né tampoco dal certificato probatorio eventualmente emesso dalla società. Consequenziale si profila dunque il ricorso all'espropriazione presso terzi e più precisamente alla sua articolazione relativa al pignoramento di beni mobili. Deve tuttavia osservarsi che, pur non ritenendo il discorso concernente la nozione di quota compiutamente appagante o comunque idoneo a fondare un sicuro convincimento, lo strumento ablatorio indicato presenta un più elevato grado di compatibilità con la fattispecie in esame. Con tale modus procedendi, viene in primo luogo soddisfatta la necessità di addivenire, in virtù del meccanismo della dichiarazione del terzo (nonché, eventualmente, in caso di mancata o contestata dichiarazione, tramite il giudizio ex art. 548 c.p.c.), ad un accertamento giudiziale del contenuto attuale e della consistenza economica effettiva della quota staggita»).

Va tuttavia rilevato come questa strada interpretativa ha prestato il fianco a numerose critiche, non facilmente superabili ed incentrate sulle possibilità per il debitore esecutato ed eventuali terzi compiacenti, di sottrarsi agli effetti del pignoramento: si pensi alla possibilità di cedere le quote (pericolo concreto connesso alla mancanza di un sistema legale di pubblicità che disciplinasse i conflitti tra creditore procedente ed acquirente per cui molto spesso la procedura esecutiva non aveva alcuna utilità concreta per il creditore, così Acone, 629, «(...) fiorirono perciò le tesi aderenti alle opzioni via via prescelte: così chi riteneva la quota un diritto di credito verso la società o un bene mobile immateriale non iscritto, optava per l'espropriazione forzata presso terzi, chi riteneva la quota un'entità reale, parificabile ad un bene mobile, optava per il pignoramento mobiliare diretto; non mancarono neppure proposte più stravaganti, come quella di ritenere applicabile lo schema procedimentale dell'esecuzione per consegna o rilascio o quella di ritenere praticabile lo schema dell'espropriazione dei beni indivisi. La constatazione che tutte queste forme di esecuzione forzata non si adattavano all'espropriazione della quota di s.r.l. e che non vi erano dati testuali di riferimento per configurare una forma di pignoramento ad hoc, fece sì che si venisse formando l'orientamento favorevole alla scelta dello schema dell'espropriazione presso terzi ritenuto «meno inadatto» o, se si vuole, «più adatto» degli altri. È stato scritto incisivamente: «Non si può ricorrere allo strumento dell'espropriazione immobiliare, perché la quota non è mai equiparabile ad un bene immobile (neppure quando il patrimonio sociale sia costituito da beni immobili). E neppure si può ricorrere all'espropriazione mobiliare presso il debitore, perché questa è strutturata dal codice avendo di mira soltanto cose materiali, cosicché la disciplina del pignoramento appare inapplicabile quando oggetto ne debba essere una quota di s.r.l. non ricercabile né apprendibile secondo le modalità indicate dagli artt. 513 ss. c.p.c.». il pignoramento della quota di s.r.l. è stato sempre effettuato nelle forme del pignoramento presso terzi, con la notifica della relativa citazione alla società al fine di ottenere dal rappresentante della stessa la dichiarazione prevista dall'art. 547 c.p.c.; e ciò nonostante la constatazione del gravissimo inconveniente pratico della consueta mancata comparizione del rappresentante della società, determinante la necessità di un lungo giudizio di accertamento dell'obbligo del terzo pena l'estinzione della procedura esecutiva, e dell'altrettanto gravissima evenienza che, data l'impossibilità di impedire il trasferimento della quota in mancanza di un sistema legale di pubblicità idoneo a risolvere i conflitti tra creditore procedente ed acquirente, la procedura si concludeva assai spesso con un nulla di fatto, per avere nel frattempo il debitore trasferito la quota»).

Ancora, le criticità venivano segnalate anche quanto alla posizione ibrida della società, soggetto non qualificabile né come possessore della quota né come debitor debitoris, alla difficoltà di invocare un obbligo di custodia in capo ad essa, impedito dal previgente art. 2483 c.c. che vietava compiti di controllo, nonché alla possibilità per il terzo di non comparire all'udienza e dunque, con contegni ostruzionistici, costringere il creditore ad intraprendere un giudizio di accertamento.

Ancora, alcuni autori hanno considerato come il libro dei soci, non liberamente accessibile, non attuando alcuna forma di pubblicità, non consentiva al creditore di consultarlo prima di intraprendere il pignoramento al fine di verificare se il debitore rivestisse o meno la qualità di socio. Tra gli argomenti ostativi alla idoneità del pignoramento presso terzi quale modalità esecutiva per aggredire la quota di una società a responsabilità limitata, è stato efficacemente messo in rilievo inoltre, il limite rappresentato dal fatto che la quota non può essere a stretto rigore assimilata ad un credito del debitore verso terzi né ad una cosa del debitore in possesso di terzi. D'altra parte, si è osservato, la quota costituisce la sintesi di un fascio di prerogative e diritti ma anche oneri nella titolarità del socio e ciò anche prima della possibilità che si traduca nella titolarità di un credito in capo al socio (così Corsini, 1297, «(...) la consistenza del patrimonio sociale, infatti, è fluttuante e può anche essere inferiore a zero, quando le passività superano le attività. In tale evenienza, è chiaro che, alla chiusura del relativo esercizio, mancano utili da ripartire che, quand'anche la società venisse posta liquidazione, nulla sarebbe dovuto al socio. Addirittura, può accadere che sia la società ad essere creditrice del socio, non viceversa: pensiamo al caso in cui i conferimenti non siano stati integralmente versati, e gli amministratori domandino il pagamento del saldo. Il socio, poi, non è legittimato ad agire in via surrogatoria nei confronti dei debitori della società, come invece può fare il creditore, ai sensi dell'art. 2900 c.c. Parimenti al socio è precluso il ricorso al sequestro conservativo, anche qualora fondatamente tema la dispersione dei beni sociali a causa di una avventata amministrazione. A ciò si aggiunga che chi diviene titolare della quota in seguito alla vendita o dell'assegnazione non subentra semplicemente nei rapporti attivi verso la società, ma in tutto quel fascio di relazioni, comprendenti diritti ed obblighi, che derivano dall'acquisto dello status di socio. L'assimilazione della posizione di socio a quella di un creditore non fornisce nemmeno un'adeguata giustificazione dei poteri organici ed amministrativi, che risultano completamente estranei agli schemi dei rapporti obbligatori. La situazione giuridica di cui il socio è titolare, infatti, ha una propria consistenza anche prima ed indipendentemente dal verificarsi di eventi da cui può scaturire un credito «e cioè ... produzione o accertamento in bilancio o deliberata distribuzione dei dividendi di esercizio, da una parte; scioglimento o compiuta liquidazione (da cui residui dell'attivo) o approvazione del relativo bilancio o del piano di riparto, dall'altra». Oltre che discutibile dal punto di vista teorico, per le ricordate differenze tra la qualità di socio e quella di creditore, la tesi che auspicava l'utilizzo degli artt. 543 ss. c.p.c. implicava inconvenienti pratici di non secondario rilievo. Il rappresentante della società, ad esempio, sovente non si presentava all'udienza; conseguentemente doveva essere cominciato un normale giudizio di cognizione, destinato a durare per anni. La società, infatti, non ricavava alcun beneficio dalla collaborazione con il creditore, così come non l'ottenevano gli altri soci, poiché il loro interesse ad impedire il subentro nella compagine sociale di soggetti non graditi era già protetto dall'art. 2480, commi 2 e 3, c.c. (oggi art. 2471, commi 2 e 3, c.c.). Quid, poi, nel caso in cui il debitore fosse anche illegale rappresentante della società? Si poteva verificare un vero e proprio corto circuito processuale, dovendo egli, in qualità di terzo, rendere una dichiarazione relativa a suoi beni personali. Tra l'altro, l'oggetto del giudizio di merito non era del tutto chiaro; per le ragioni illustrate, infatti, non si trattava di stabilire l'esistenza di un obbligo della società nei confronti del debitore. Nemmeno si poteva immaginare che il procedimento servisse per appurare se il debitore fosse veramente socio: a questo proposito, era sufficiente consultare i pubblici registri»).

La l. n. 310/1993 ed il novellato art. 279 c.c.

Nel 1993 si collocano due interventi normativi che segnano una svolta nel panorama interpretativo benché non espressamente dedicati a disciplinare né il pignoramento né la sua natura.

Il primo è la l. n. 310/1993 che ha modificato l'art. 2479 c.c. stabilendo che il trasferimento della quota deve essere depositato dal notaio autenticante per l'iscrizione presso registro delle imprese. Il secondo intervento normativo è poi la l. n. 580/1993 che ha istituito il registro delle imprese.

Quanto alla l. n. 310/1993 essa, come detto, ha modificato l'art. 2479 comma 3 c.c.

La norma, corrispondente all'attuale art. 2470 c.c., ha previsto che l'atto di trasferimento delle quote societarie, con sottoscrizione autenticata, deve essere depositato entro 30 giorni, a cura del notaio autenticante, presso l'ufficio del registro delle imprese nella cui circoscrizione è stabilita la sede sociale.

Pur trattandosi di norma la cui ratio ispiratrice era quella di contribuire ad arginare il fenomeno del riciclaggio di denaro sporco, sia in dottrina che in giurisprudenza si è colta l'occasione di questa traccia testuale (che richiede l'iscrizione dei trasferimenti delle partecipazioni societarie) per ripensare la natura giuridica delle quote sociali e, conseguentemente, anche le modalità di sottoposizione delle stesse ad esecuzione forzata.

Proprio grazie all'iscrizione nel registro delle imprese, è possibile accertare e verificare la titolarità delle quote sociali, così passando a concepire la possibilità del loro pignoramento nelle forme del pignoramento in via diretta di un bene presso il debitore.

È dunque con l'entrata in vigore della l. n. 310/1993 che la giurisprudenza matura la consapevolezza di poter intraprendere l'esecuzione forzata delle quote di s.r.l. non già con le forme dell'esecuzione presso terzi ma con quelle dell'esecuzione diretta avente ad oggetto un bene mobile presso il debitore.

La novità normativa che ha sancito l'obbligo di iscrizione nel registro delle imprese degli atti di trasferimento di quote di s.r.l. ha offerto un addentellato normativo «per assimilare il regime circolatorio di tali partecipazioni a quello dei beni iscritti in pubblici registri, ed ha reso disponibile un criterio oggettivo, la data di iscrizione dell'atto nel registro imprese, per dirimere i conflitti tra titolari di diritti incompatibili sulla medesima quota. Ragioni di coerenza sistematica hanno indotto da subito a ritenere che il nuovo regime pubblicitario dovrebbe imporsi anche gli atti costitutivi di diritti reali limitati e di garanzia che, pur non incidendo sulla formale titolarità delle partecipazioni, sono prodromici ad un futuro trasferimento o comportano in ogni caso modificazioni in ordine all'esercizio delle situazioni soggettive facenti capo al socio» (Gasperini, 2307 ss.).

La novella normativa in commento ha aperto la strada ad un'evoluzione interpretativa nel senso di ritenere che anche il pignoramento delle quote di s.r.l., oltre agli atti di trasferimento, dovesse essere iscritto nel registro delle imprese (in dottrina, ricostruisce la tensione degli interpreti a cogliere la novella normativa quale addentellato funzionale ad ulteriori sviluppi esegetici Gasperini, cit., «la dottrina processualistica ha colto al volo le feconde implicazioni della nuova disciplina, affermando che anche il pignoramento avente ad oggetto quote di società a responsabilità limitata, in quanto atto prodromico ad un futuro trasferimento, dovesse essere iscritto nel registro delle imprese, con la conseguenza che esso poteva oramai ritenersi eseguibile con modalità «dirette», e dunque semplificate, consistenti nella notificazione al socio debitore di un atto contenente l'indicazione delle quote e l'ingiunzione di cui all'art. 492 c.c., da iscriversi successivamente nel pubblico registro. L'adozione di tali modalità avrebbe consentito di superare i due maggiori problemi di carattere pratico che l'espropriazione di quote di società a responsabilità limitata aveva da sempre posto: la necessità della collaborazione degli organi sociali ai fini dell'indicazione dei requisiti identificativi della partecipazione (titolarità in capo al socio debitore, valore nominale, eventuali vincoli sulla stessa) e, appunto, l'assenza, fino ad allora, di un meccanismo che consentisse al creditore di opporre il vincolo a terzi)».

E queste spinte interpretative avevano trovato eco anche nella giurisprudenza di merito. Il Trib. Milano (28 marzo 2000), con una decisione collegiale di riforma del provvedimento di rigetto adottato dal giudice del registro, si segnala quale pronuncia che ha limpidamente colto questa tensione ad intravedere nella novella del 1993 un addentellato normativo utile al fine di ammettere l'iscrizione nel registro delle imprese anche del pignoramento.

L'argomento ostativo, comunemente addotto per negare tale possibilità, ovvero la tipicità degli atti passibili di iscrizione nel registro delle imprese nonché l'impossibilità di classificare il pignoramento alla stregua di atto riconducibile all'incontro della volontà delle parti, è stato messo in discussione sulla base della considerazione per cui un ampliamento del catalogo chiuso potrebbe essere giustificata da interpretazioni sistematiche delle norme, che tengano conto quindi non solo del tessuto normativo ma anche della ratio legis (pertanto, come efficacemente sottolineato da Gasperini, 1246, «(...) in definitiva, secondo questa giurisprudenza, già le novità normative intervenute nel 1993 avrebbero legittimato la qualificazione giuridica della quota in termini di bene mobile (immateriale) soggetto a registrazione (fermi restando i profili differenziali tra pubblicità commerciale e trascrizione civilistica), sicché essa poteva ritenersi oramai assimilabile ai beni mobili registrati di cui agli art. 2683 ss. c.c., con le conseguenti ricadute sotto il profilo delle modalità espropriative in collegamento con il relativo regime pubblicitario»).

La fattispecie decisa traeva spunto dal rifiuto del Conservatore di dar corso all'iscrizione nel registro delle imprese di un atto di pignoramento di quote di s.r.l. sul presupposto del catalogo chiuso, tipico, degli atti passibili di iscrizione. Il giudice del registro aveva assecondato l'esegesi fatta propria del Conservatore rigettando il ricorso, provvedimento quest'ultimo riformato dal Collegio. In particolare, «con riferimento al principio di tipicità il collegio osserva che lo stesso deve «associarsi alla sua completezza» e ritiene che le medesime ragioni di pubblicità che valgono per gli atti ricevuti da un notaio (o da altro pubblico ufficiale autorizzato) devono valere «per ogni specie di titolo omologo che consenta di effettuare il pignoramento» come («oltre a quegli stessi atti ricevuti da un notaio o da altro pubblico ufficiale a ciò autorizzato, altresì) gli atti di formazione non negoziale, emessi dall'autorità giudiziaria o altri ancora a condizione che richiedano lo stesso carattere di autenticità» (richiesto dal regime di pubblicità imposto dalla l. n. 310/93). Quanto alla possibilità di applicare alle quote di s.r.l. la norma che prevede la trascrizione del pignoramento per i beni mobili registrati (art. 2693 c.c.) esclusa dal giudice di primo grado «in quanto ritenuta connessa con un regime di pubblicità assimilato a quello dei beni immobili» si osserva che a) l'art. 2480 c.c. – nel disporre che le quote di s.r.l. possono formare oggetto di espropriazione forzata – «sancisce in realtà un principio che rende applicabile direttamente (e non soltanto in via analogica) alle quote di s.r.l. l'esecuzione forzata, che conosce, come modalità attuativa per i beni soggetti a regime di pubblicità la trascrizione del pignoramento nei pubblici registri»; b) le quote di s.r.l. sono beni da inquadrare nella categoria residua dei beni mobili ai sensi dell'ultimo comma dell'art. 812 c.c. anche se non si tratta «di cose nel senso di beni materiali suscettibili di possesso»; c) sono noti gli inconvenienti, per quanto riguarda la s.r.l., creati dalla necessità della dichiarazione di cui all'art. 547 c.p.c.; d) detti inconvenienti devono ritenersi superati con l'obbligo di «iscrizione della situazione giuridica delle quote di s.r.l. in pubblico registro» non essendo così più necessario l'accertamento della titolarità in capo al debitore della quota; e) ai sensi dell'art. 2479 c.c. – nella parte in cui «impone la previa comunicazione dei trasferimenti al registro delle imprese come condicio sine qua non» per l'iscrizione nel libro soci– gli organi sociali ben potrebbero rifiutare l'iscrizione in quest'ultimo libro di vincoli sulle quote ove la stessa non fosse preceduta dalla sopra citata «comunicazione» al registro delle imprese; f) se si accoglie la tesi che estende l'iscrizione nel registro delle imprese anche del pignoramento di quote gli inconvenienti sopra evidenziati verrebbero di fatto superati» (in commento alla pronuncia, Guidotti, 495 secondo cui «(...) I provvedimenti del tribunale di Milano evidenziano la molteplicità di problemi che ha suscitato l'introduzione nel nostro ordinamento del novellato art. 2479 c.c. alcuni dei quali hanno trovato soluzioni condivise da dottrina e giurisprudenza; altri invece devono considerarsi a tutt'oggi aperti. Tra questi ultimi v'è sicuramente quello relativo all'efficacia del trasferimento della quota nei confronti dei terzi (e dei creditori pignoranti); con riferimento a quest'ultimo problema si notino le opposte soluzioni proposte nei provvedimenti che si commentano. Anche se da una analisi superficiale potrebbe apparire la valenza esclusivamente pratica dei problemi, la scelta tra l'una e l'altra soluzione presuppone, invece, una precisa presa di posizione su problemi di carattere teorico di non poco momento; presuppone infatti, da una parte, la necessità di qualificare la pubblicità in esame (come pubblicità dichiarativa ovvero come pubblicità-notizia); dall'altra, la necessità di verificare se la pubblicità commerciale possa o meno produrre effetti analoghi a quelli della pubblicità immobiliare. La tesi che riconosce la possibilità che il deposito nel registro delle imprese dell'atto di trasferimento delle quote sia idonea a risolvere – in base alla regola della priorità temporale della formalità pubblicitaria prevista dalla legge – i conflitti tra i terzi acquirenti della medesima quota ha quali premesse logico-giuridiche l'inquadramento della pubblicità in esame in quella di cui all'art. 2193 c.c. ed il riconoscimento che il deposito per l'iscrizione nel registro delle imprese possa produrre effetti analoghi a quelli della trascrizione immobiliare. Emblematica a tal proposito è la decisione del Trib. Milano 28 marzo 2000 nella cui motivazione c'è un continuo richiamo a norme dettate in tema di trascrizione (e pignoramento) di beni immobili. In altra sede si è già contrastata sia l'opinione che la pubblicità in esame sia da inquadrarsi in quella di cui all'art. 2193 c.c., sostenendo – per contro – che si è di fronte ad un caso di pubblicità-notizia; sia l'opinione che il deposito nel registro delle imprese possa produrre effetti analoghi a quelli della pubblicità immobiliare». Un lungimirante punto di vista nel senso della possibilità di iscrivere anche l'atto di pignoramento è stato offerto da Chiarloni,153 e ss.).

La riforma del diritto societario

La riforma del diritto societario del 2003 coglie questa mutata consapevolezza e, compiendo un ulteriore passo in avanti, recepisce l'evoluzione interpretativa finora descritta e, dettando le modalità esecutive del pignoramento nell'art. 2471 comma 1 c.c., amplia il tessuto normativo previsto dal previgente art. 2480 c.c.

La norma prevede infatti che il pignoramento della partecipazione societaria si esegue mediante notifica al debitore ed alla società e successiva iscrizione nel registro delle imprese (nonché annotazione nel libro soci, formalità quest'ultima espunta dall'art. 16, d.l. n. 185/2008, comma 12-quinquies, convertito in legge, con modificazioni, dalla l. n. 2/2009, con la decorrenza indicata nel comma 12-undecies, dello stesso art. 16).

Lo stesso legislatore del 2003 ha poi stabilito all'art. 2470 comma 3 c.c. che se la quota è alienata con successivi contratti a più persone, quella di esse che per prima ha effettuato in buona fede l'iscrizione nel registro delle imprese è preferita alle altre, anche se il suo titolo è di data posteriore.

La novella normativa segna così un decisivo passo nel senso della consacrazione del pignoramento mobiliare quale modalità esecutiva tipica del pignoramento di quote di s.r.l. (cfr. sul punto Cass. n. 13903/2014, «(...) la corte non avrebbe preso in esame le loro contestazioni (che ribadiscono), secondo le quali nella specie l'esecuzione sarebbe affetta da nullità insanabile, in quanto non avrebbe seguito le forme del pignoramento presso terzi, e neppure quelle previste dall'art. 2741 c.c. Tali doglianze – relative (giova precisare) a questione che, a differenza da quella esaminata nel punto precedente, deve ritenersi proponibile nel corso della causa di merito (a norma dell'art. 669-duodecies: cfr. Cass. n. 19101/03) – non meritano accoglimento. – Infondata è la censura di omessa motivazione: la corte di merito non si è limitata alla affermazione trascritta in ricorso, ma ha rilevato come, trattandosi di sequestro conservativo di quote di società a responsabilità limitata, esso sia stato eseguito mediante tempestiva iscrizione del provvedimento nel Registro delle imprese competente, così implicitamente rilevando che tale modalità di esecuzione del sequestro conservativo di quote sociali fosse conforme a legge. E, come già si è osservato, la omissione di specifiche considerazioni a supporto di tale valutazione non è denunciabile in sede di legittimità a norma dell'art. 360, n. 5 bensì, eventualmente, dell'art. 360 c.p.c., n. 3, specificando le ragioni per le quali il giudice di merito avrebbe erroneamente interpretato o applicato le norme di legge regolanti l'atto processuale in questione. – D'altra parte, l'interpretazione di tali norme seguita dalla corte di merito resiste alle ulteriori censure di violazione di legge esposte al riguardo in ricorso. – In primo luogo, ritiene il Collegio che la norma di legge da tenere presente in tema di esecuzione del sequestro conservativo di quote di s.r.l. – le cui modalità debbono essere desunte (secondo il riferimento contenuto nell'art. 678 c.p.c., a sua volta richiamato dall'art. 669-duodecies ai fini dell'attuazione dei sequestri) dalle norme sul pignoramento dei beni oggetto del provvedimento – è quella che regola specificamente il pignoramento di quote di s.r.l., cioè l'art. 2471 c.c., nel testo modificato dal d.lgs. n. 6/2003 di riforma del diritto societario, applicabile nella specie ratione temporis essendo in vigore, a norma dell'art. 10, a decorrere dall'1 gennaio 2004. Con tale disposizione, il legislatore ha attribuito al pignoramento di quote di s.r.l. la forma di pignoramento «documentale», che – come parte della dottrina non ha mancato di evidenziare – appare coerente con la qualificazione della quota come bene immateriale iscritto in un pubblico registro, ed è quindi alternativa rispetto alla forma del pignoramento presso terzi. Forma che in precedenza veniva ritenuto doversi seguire tanto nella esecuzione del pignoramento quanto nella esecuzione del sequestro di quote di s.r.l., nonostante l'intimazione al terzo (la società) di non disporre del bene (art. 543 c.p.c., n. 2) e la dichiarazione del terzo stesso – o in mancanza l'accertamento – in ordine al credito, o alle cose o somme del debitore in suo possesso (artt. 547 e 548 c.p.c.) mal si adattino alla situazione giuridica della quota sociale, considerando che il pignoramento (o il provvedimento di sequestro) di tale quota deve averne individuato l'oggetto e che della stessa non può disporne la società ma il debitore stesso. Laddove, nel procedimento previsto dal nuovo art. 2471 c.c., la notifica del provvedimento al debitore vale a produrre il vincolo di indisponibilità che sostanzia il pignoramento, che viene reso opponibile ai terzi con la iscrizione nel Registro imprese (art. 2193 c.c.). Non merita dunque condivisione la tesi dei ricorrenti secondo la quale la esecuzione del sequestro in questione doveva avvenire secondo le modalità previste per il pignoramento presso terzi, anziché in quelle previste dalla norma speciale regolante il pignoramento di quote sociali»).

Com'è stato osservato, trattasi di «fondamentali correttivi» apportati al testo antecedente, che si traducono, per un verso, nell'assunzione della notifica al debitore «quale momento perfezionativo del vincolo e quanto agli effetti sostanziali inter partes», e, per altro verso, nell'iscrizione del vincolo nel Registro delle imprese «quanto all'individuazione dello strumento per renderlo opponibile erga omnes,» (così Scotti).

Ciononostante, all'indomani della novella del 2003, il riferimento testuale alla notifica del pignoramento in favore della società, nel catalogo degli adempimenti funzionali all'esecuzione del pignoramento, ha indotto comunque taluni autori a ritenere che le forme del pignoramento fossero ancora quelle dell'espropriazione presso terzi (Castoro, 468 ss.).

Appare tuttavia preferibile l'opzione esegetica secondo cui il tenore testuale della norma nella parte in cui richiede la notifica del pignoramento in favore della società, è un dato positivo insufficiente per continuare a sostenere che le modalità di aggressione esecutiva di tali partecipazioni siano ancora quelle del pignoramento presso terzi.

D'altra parte, è stato acutamente sottolineato, il legislatore, laddove avesse inteso, con la previsione della notifica alla società, confermare la modalità esecutiva del pignoramento presso terzi, non avrebbe perso l'occasione per esplicitare, altrettanto, la necessità anche di fissare l'udienza per la dichiarazione del terzo (così Gasperini, cit., «(...) già la formulazione testuale della norma mal si presta ad essere letta come richiamo (implicito) alle forme del pignoramento presso terzi, dal momento che, se il legislatore delegato del 2003 avesse effettivamente inteso avvalorare la prassi invalsa nel vigore dell'art. 2480 c.c. (ante riforma), anche in considerazione del progressivo affermarsi di orientamenti dottrinali e giurisprudenziali di diverso avviso, difficilmente avrebbe omesso un riferimento quantomeno alla necessità della fissazione di un'udienza per la dichiarazione della società».

Sempre nel senso dell'inadeguatezza del riferimento testuale alla notifica alla società quale argomento da cui dedurre la perdurante percorribilità delle modalità esecutive del pignoramento presso terzi, Martino, 721, secondo cui «(...) in particolare, disponendo testualmente l'art. 543 c.p.c. che il procedimento di espropriazione presso terzi sia applicabile ai «crediti del debitore verso terzi» o alle «cose del debitore che sono in possesso di terzi», il dato normativo pone ostacoli difficilmente superabili. In primo luogo, pur ammettendo che la quota possa costituire oggetto di possesso, il suo possessore non potrebbe essere la società, bensì il socio stesso. In secondo luogo, può dirsi ormai ampiamente superata la tesi che riconduce la partecipazione a un diritto di credito. Quanto precede conduce ad escludere alcun obbligo in capo alla società di rendere la dichiarazione di cui all'art. 547 c.p.c., considerando, a fortiori, la inutilità della stessa in seguito all'attuazione del registro delle imprese, atteso che i legali rappresentanti sarebbero chiamati a rendere informazioni conoscibili da qualsiasi terzo, in quanto lì già contenute. Le superiori osservazioni hanno, pertanto, contribuito a indurre la prevalente dottrina a individuare nell'art. 2471 c.c. riformato «una peculiare ipotesi di pignoramento (mobiliare) diretto», da attuarsi mediante notificazione al debitore e alla società di un atto formato ai sensi dell'art. 492 c.p.c., da iscriversi, successivamente, nel registro delle imprese. Tale orientamento, inoltre, è stato recepito dalla più recente giurisprudenza di legittimità e di merito. Una ulteriore notazione di immediata rilevanza ai fini del ragionamento che si è inteso svolgere, il quale depone, si ribadisce, in senso contrario alla riconducibilità del procedimento di cui all'art. 2471 c.c. al fenomeno espropriativo presso terzi, deriva dal silenzio del legislatore in sede di riforma sia del diritto societario, sia del codice di procedura civile. La circostanza, cioè, che, nelle rispettive sedi di riforma, un legislatore – certamente consapevole dell'ampio contrasto di opinioni ricordato supra – non si sia avvalso della possibilità di menzionare espressamente il procedimento presso terzi come modello di esecuzione forzata sulle partecipazioni in s.r.l. induce a ravvisare nella sua inerzia la piuttosto chiara volontà di non far capo a tale paradigma espropriativo»).

Ancora, lo stesso incombente dell'iscrizione nel registro delle imprese, è di per sé distonico rispetto alla modalità esecutiva del pignoramento presso terzi, che presuppone, piuttosto, la non identificabilità a priori della quota e dunque, anche, la possibilità che essa sia identificata non solo a seguito della dichiarazione della società ma, eventualmente, a seguito del giudizio di accertamento del terzo.

Si tratta quindi di percorsi processuali rispetto ai quali l'iscrizione del pignoramento nel registro delle imprese si rivela ex se sufficiente (sempre, efficacemente Gasperini, cit., «(...) lo stesso incombente dell'iscrizione nel registro delle imprese risulta, peraltro, di non agevole collocazione nel contesto di una espropriazione che si svolga nelle forme di cui agli art. 543 ss. c.p.c. E in effetti, delle due l'una: o si ritiene che, anche quando detta procedura abbia ad oggetto quote sociali, l'individuazione del bene da espropriare consegua alla dichiarazione del terzo-società o, in mancanza, alla pronuncia della sentenza che definisce il giudizio ex art. 548 c.p.c., ed allora si dovrebbero iscrivere anche la dichiarazione della società o, eventualmente, la sentenza che di questa tiene luogo; oppure si conclude che le quote sono già individuate nell'atto di pignoramento da iscriversi nel registro delle imprese, e la collaborazione della società può risultare utile ai fini del conseguimento di informazioni diverse ed ulteriori (ad esempio, cariche eventualmente ricoperte dal socio o emolumenti percepiti)».

Piuttosto, la perdurante necessità della notifica del pignoramento a favore della società si spiega con l'opportunità di avvisare tempestivamente un soggetto rispetto al quale la quota costituisce comunque una porzione del capitale e, peraltro, assolve ad una funzione informativa in ordine alla possibilità di subentro di un terzo nella titolarità della quota pignorata e, ancora prima di tale eventualità, svolge una funzione informativa funzionale all'art. 2471 comma 3 c.c. tenuto conto del subentro del custode nella posizione del socio e dunque nell'esercizio dei diritti patrimoniali ed amministrativi della quota.

Ancora, è stato sottolineato come l'irrilevanza della notifica del pignoramento alla società ai fini del perfezionamento del vincolo si ricava anche dal venir meno dell'annotazione sul libro soci in quanto l'espunzione di tale incombente ha «(...) definitivamente, ridimensionato la rilevanza della notifica alla società, atteso che – già anteriormente – questa era circoscritta ai rapporti endosocietari (Cagnasso, op. cit., 153). Portando all'estremo un tale argomentare, il Tribunale di Rimini ha statuito che «(...) nel modificare il testo dell'art. 2471 c.c. (che prevede, per l'espropriazione della quota, la notificazione del pignoramento al debitore e alla società, e la successiva iscrizione nel registro delle imprese), il legislatore del 2003 ha omesso qualsiasi riferimento alla necessità della fissazione di un'udienza per la dichiarazione della società (sulla falsariga dell'art. 543 c.p.c.). Questa, del resto, appare del tutto superflua, dal momento che il creditore può trarre le informazioni necessarie circa la titolarità ed il valore nominale delle quote, direttamente dal registro delle imprese (nel quale il relativo trasferimento deve essere annotato, a mente dell'art. 2470, comma 2, c.c.). Appare pertanto, illogico continuare a richiedere la collaborazione degli organi sociali per l'attuazione del pignoramento, con il rischio per il creditore di soggiacere alle conseguenze della mancata collaborazione dell'organo amministrativo (che potrebbe non presentarsi all'udienza ex art. 543 c.p.c.). La soluzione del pignoramento «diretto» – adottata dalla giurisprudenza di merito più recente (Trib. Torino 9 ottobre 2002; Trib. Milano 28 marzo 2000 e 17 febbraio 2000) - può quindi ritenersi senz'altro più consona al canone dell'interpretazione letterale e sistematica della legge. Dalle considerazioni che precedono discende che il reclamo può essere accolto limitatamente al punto della validità del precetto e della legittimità dell'espropriazione delle quote della società a responsabilità limitata. Ne consegue che andrà revocata la statuizione di sospensione concernente tale ultima espropriazione (restando ferma la sospensione soltanto per le quote della società in nome collettivo)» (Trib. Rimini 12 maggio 2016, cit. Inoltre, com'è stato rilevato in punto di procedura, l'intervento della società ai sensi dell'art. 547 c.p.c. risulterebbe «per larga parte superfluo», dal momento che «i legali rappresentanti della società fornirebbero informazioni già contenute nel Registro delle imprese, e dunque ricavabili da qualsiasi terzo tramite la semplice consultazione di questo», quali «la circostanza che il debitore riveste la qualità di socio», «il valore nominale della partecipazione di costui», «i precedenti «eventuali atti dispositivi o cautelari» relativi alla quota». cfr. Briolini, L'espropriazione della partecipazione sociale, in s.r.l. Commentario, dedicato a Portale, a cura di Dolmetta e Presti, Milano, 2011, 388). La notifica alla società dell'atto di pignoramento, se da un lato, pertanto, non risulta affatto essenziale al fine dell'efficacia di quest'ultimo, dall'altro non costituisce neppure un presupposto indefettibile per procedere validamente all'iscrizione presso il Registro delle imprese del vincolo sulla quota (...) iscrizione che può essere effettuata tanto dal creditore pignorante – essendo questi il soggetto interessato ai sensi dell'art. 2189, comma 1, c.c. – quanto dall'ufficiale giudiziario (cfr. Briolini, op. cit., 390)» (così Garesio).

Infine, è stato ulteriormente considerato, la notifica avrebbe «una funzione informativa dell'avvio del processo esecutivo», in particolare «affinché gli amministratori, venuto meno l'obbligo di annotare il gravame nel libro dei soci, si astengano dal distribuire utili – rilevanti come frutti della quota, che in base agli artt. 2912 c.c. e 492 c.p.c. sono compresi nel pignoramento – al titolare della partecipazione vincolata» (così Briolini, Garesio).

A tale esegesi normativa si è adeguata la giurisprudenza di merito maggioritaria (Trib. Nola 25 settembre 2008, inedita; Trib. Parma 22 febbraio 2005, Trib. Bologna 2 dicembre 2004, Trib. Firenze 7 gennaio 2005, citate da Scotti, Commentario breve al diritto delle società, a cura di Maffei Alberti, Padova, 2007, sub 2471 c.c. e sono scarse le pronunce in senso opposto come Trib. Melfi 13 gennaio 2010 con nota critica di Gasperini, 1246 secondo cui «A quanto consta è la prima volta che, con riferimento ad un procedimento esecutivo instaurato successivamente al 1° gennaio 2004 e, dunque, soggetto all'applicazione dell'art. 2471 c.c. come riformato dal d.lgs. n. 6/2003, la giurisprudenza di merito insiste espressamente sulla necessità di ricorrere alle forme dell'espropriazione indiretta al fine di pignorare le quote del socio di società a responsabilità limitata. Il dato, da leggere pur sempre nel contesto di un numero limitato di precedenti noti, stupisce non tanto per la lettura «conservatrice» che in sé si offre della disposizione novellata, quanto per il disconoscimento di un percorso interpretativo che, già prima della riforma societaria, aveva condotto parte della stessa giurisprudenza di merito a rifiutare la soluzione operativa dell'eseguibilità del pignoramento di quote nelle forme dell'espropriazione presso terzi, e a privilegiare modalità esecutive semplificate anche alla luce della normativa sopravvenuta in materia di trasparenza del regime circolatorio dei beni in questione.

(...) Lo snodo cruciale, nell'ambito di questo percorso interpretativo, è da individuare nell'entrata in vigore della l. n. 580/1993, istitutiva del registro delle imprese presso le camere di commercio, e soprattutto della l. n. 310/1993, che ha modificato il testo del previgente art. 2479 c.c. introducendo la previsione dell'obbligo di iscrizione nel registro degli atti di trasferimento di quote di società a responsabilità limitata. Quest'intervento normativo, per la verità, aveva come finalità diretta ed immediata non quella di innovare il regime privatistico degli atti di trasferimento di quote, bensì di assicurare la trasparenza delle partecipazioni societarie allo scopo precipuo di prevenire fenomeni di riciclaggio, ma è apparso subito chiaro che l'iscrivibilità degli atti di cessione di quote nel registro delle imprese finiva inevitabilmente per incidere su quel regime e, in particolare, sull'opponibilità a terzi delle vicende circolatorie delle partecipazioni. È stato rilevato, infatti, che le nuove norme determinavano una forte assimilazione della circolazione delle quote a quella dei beni mobili registrati nella misura in cui rendevano disponibile un criterio oggettivo, quello dell'iscrizione nel registro delle imprese, ai fini della risoluzione dei conflitti tra più acquirenti della stessa quota. La dottrina processualistica ha colto al volo le feconde implicazioni della nuova disciplina, affermando che anche il pignoramento avente ad oggetto quote di società a responsabilità limitata, in quanto atto prodromico ad un futuro trasferimento, dovesse essere iscritto nel registro delle imprese, con la conseguenza che esso poteva oramai ritenersi eseguibile con modalità «dirette», e dunque semplificate, consistenti nella notificazione al socio debitore di un atto contenente l'indicazione delle quote e l'ingiunzione di cui all'art. 492 c.p.c., da iscriversi successivamente nel pubblico registro. L'adozione di tali modalità avrebbe consentito di superare i due maggiori problemi di carattere pratico che l'espropriazione di quote di società a responsabilità limitata aveva da sempre posto: la necessità della collaborazione degli organi sociali ai fini dell'indicazione dei requisiti identificativi della partecipazione (titolarità in capo al socio debitore, valore nominale, eventuali vincoli sulla stessa) e, appunto, l'assenza, fino ad allora, di un meccanismo che consentisse al creditore di opporre il vincolo a terzi»).

Vi è poi un filone della giurisprudenza di merito che ha descritto il pignoramento della partecipazione sociale alla stregua di procedimento esecutivo ad hoc (così Trib. Udine 18 febbraio 2013 secondo cui «L'art. 2471 c.c., il quale disciplina compiutamente le modalità di esecuzione della espropriazione delle quote di società a responsabilità limitata, non contiene alcun richiamo alla espropriazione presso terzi del c.p.c., né prescrive che la società sia chiamata a comparire ad apposita udienza per rendere le dichiarazioni previste dall'art. 547 c.p.c. Tutto ciò porta ad escludere che il pignoramento di quote di società a responsabilità limitata debba essere effettuato nelle forme del pignoramento presso terzi, mentre la previsione della notifica del pignoramento alla società ha lo scopo di rendere ad essa opponibile il vincolo pignoratizio e di ottenere la collaborazione dell'amministratore con particolare riferimento alla annotazione nel libro soci» ed anche, Trib. Milano 20 maggio 2013 «Le nuove disposizioni contenute nell'art. 2471 c.c. in ordine alla espropriazione delle quote di società a responsabilità limitata istituiscono un procedimento esecutivo ad hoc , del tutto estraneo al pignoramento presso terzi, che si svolge mediante notifica al debitore ed alla società di un atto complesso e la sua successiva iscrizione nel registro delle imprese, senza che sia necessario invitare società a rendere la dichiarazione di cui all'art. 547 c.p.c. e tantomeno instaurare l'eventuale giudizio di accertamento dell'obbligo del terzo. Inoltre, dalla disposizione secondo la quale l'ordinanza del giudice dell'esecuzione che dispone la vendita deve essere notificata alla società a cura del creditore procedente, si desume che dal momento della notifica al debitore esecutato dell'atto di pignoramento della quota decorre il termine di 90 giorni di cui all'art. 497 c.p.c. per formulare l'istanza di vendita e che, da questo punto di vista, la fase finale del pignoramento della quota torna nel solco della procedura espropriativa mobiliare presso il debitore con conseguente applicabilità degli articoli 534 e ss. c.p.c..»; Trib. Parma 24 maggio 2013 «Nel pignoramento di quote di s.r.l., si deve considerare superata la tesi del pignoramento presso terzi, a favore di un procedimento esecutivo ad hoc, del tutto nuovo ed estraneo allo schema dell'espropriazione presso terzi, da svolgersi mediante notifica al debitore ed alla società di un atto complesso e la sua successiva iscrizione nel registro delle imprese, senza dover invitare la società a rendere la dichiarazione del terzo di cui all'art 547 c.p.c. e tanto meno instaurare il giudizio di accertamento dell'obbligo del terzo. Visto che l'art. 2471 c.c. prevede che l'ordinanza che dispone la vendita da parte del g.e. debba essere notificata alla società a cura del creditore procedente, se ne desume che, dal momento della notifica al debitore esecutato dell'atto di pignoramento della quota decorra il termine di novanta giorni di cui all'art. 497 c.p.c. per formulare l'istanza di vendita e che, da questo punto di vista, la fase finale del pignoramento della quota di s.r.l., torni nel solco della procedura espropriativa mobiliare», Trib. Rimini 12 maggio 2016, massime tratte dal sito ilcaso.it).

All'indomani della riforma del 2003 anche la giurisprudenza della Corte di legittimità si è espressa uniformemente quanto all'individuazione del modello esecutivo del pignoramento diretto nei confronti del socio debitore quale forma propria del pignoramento della partecipazione sociale di s.r.l. discostandosi definitivamente dal modello del pignoramento presso terzi (così Cass. n. 13903/2014 secondo cui «il sequestro conservativo, a norma dell'art. 678 c.p.c., a sua volta richiamato dall'art. 669-duodecies, c.p.c., si esegue secondo le norme stabilite per il pignoramento dei beni che ne sono oggetto. Ne consegue che, nel caso di quote di società a responsabilità limitata, ai sensi dell'art. 2471, comma 1, c.c., nel testo modificato dal d.lgs. n. 6/2003, il sequestro si esegue non già nelle forme del pignoramento presso terzi, ma a mezzo dell'iscrizione del provvedimento nel registro delle imprese, senza che sia assolutamente necessaria la notifica al debitore o alla società, quando quest'ultima sia stata parte del procedimento cautelare», ed anche, anteriormente, Cass. n. 22361/2009 «(...) con riferimento, ora, alla espropriabilità della quota di s.r.l. – pur in pendenza di fallimento – deve rilevarsi quanto segue. Questa Corte ha, più volte, affermato che la quota di partecipazione in una s.r.l. esprime una posizione contrattuale obiettivata, che va considerata come un bene immateriale equiparato al bene mobile non iscritto in pubblico registro, ai sensi dell'art. 812 c.c. Alla stessa, pertanto, possono applicarsi – ai sensi dell'art. 813 c.c., ultima parte – le disposizioni relative ai beni mobili e, specificamente, la disciplina delle situazioni soggettive reali e dei conflitti tra di esse sul medesimo bene. La quota, quindi, se non può considerarsi come un bene materiale al pari dell'azione, tuttavia ha un valore patrimoniale oggettivo, che è dato dalla frazione del patrimonio che rappresenta; ed è trattata dalla legge come oggetto unitario di diritti, oltre che di obblighi (v. Cass. n. 697/1997; Cass. n. 6957/2000; v. anche Cass. n. 19161/2007). Conferma dell'equiparazione della quota al bene mobile non registrato si ricava anche dall'art. 2482 c.c., comma 2 e art. 2483 c.c., dai quali risulta che la quota di s.r.l. è oggetto del diritto di proprietà e può essere acquistata, con trasferimento dello stesso diritto da un soggetto all'altro (così Cass. n. 7409/1986 e le ulteriori richiamate). Ne deriva che la quota di partecipazione, come tale, è soggetta a trasferimenti, pignoramenti e sequestri nei confronti del socio che ne è il titolare, e non certo della società che, con riferimento a tali eventi, è terza. Al che consegue la piena pignorabilità della quota del socio di s.r.l. – debitore, da parte del creditore di quest'ultimo, con la conseguente, erronea declaratoria, nel caso in esame, di improseguibilità dell'azione esecutiva individuale»).

Con la novella del 2003 viene meno la ragione del compromesso che aveva indotto ad individuare nel pignoramento presso terzi la modalità preferibile di esecuzione forzata avente ad oggetto la quota, ovvero l'impossibilità di un'identificazione preventiva della stessa dovuta alla mancanza di strumenti di conoscibilità in capo al creditore, rimessi perciò solo alle informazioni che poteva rendere la società in sede di udienza dinanzi al giudice dell'esecuzione.

La novella del 1993, completata nel 2003, consente invece di individuare ed identificare ex ante la quota da parte del creditore, a prescindere dalla collaborazione della società, accedendo al registro delle imprese la cui consultazione consente di ottenere informazioni sulla titolarità delle quote, il loro valore nominale ed eventuali vincoli ed altri elementi la cui conoscenza, come detto, in passato, era rimessa alla sola collaborazione della società (sul punto Gasperini, 2307 ss. Tra i primi commentatori della riforma, in senso favorevole alla definitiva emancipazione dalla necessità di una forma di collaborazione da parte della società, anche Acone, 634 secondo cui «(...) la dichiarazione del terzo è, quindi, davvero una perdita di tempo, anche pericolosa perché la sua omissione determina la necessità di un giudizio di cognizione suscettibile di svolgersi in ben tre gradi. Il giudice dell'esecuzione non potrebbe infatti giammai procedere oltre in mancanza della dichiarazione degli organi societari. Sarebbe giocoforza per il creditore presentare l'istanza di cui all'art. 548, comma 10, c.p.c. ed instaurare un giudizio del tutto inutile in quanto ridotto ad un mero riscontro di ciò che già risulta dal registro e dal libro soci. Queste considerazioni, unite al niente affatto trascurabile vantaggio di una rapida conclusione della procedura esecutiva, lasciano propendere per la tesi che nelle norme sopra indicate vede realizzato un nuovo ed originale modello di procedimento esecutivo. Mancando nel nostro ordinamento uno schema procedimentale dell'espropriazione presso terzi simile a quello – bene illustrato da Colesanti e Vaccarella – in vigore negli ordinamenti germanici, in cui l'accertamento, ancorché al solo fine della definizione dell'oggetto della espropriazione, è di norma espunto dalla procedura esecutiva, la conclusione raggiunta – che non considero eccessivamente ardita – si lascia ancora di più preferire, mentre la notificazione dell'atto di pignoramento alla società può giustificarsi, dal punto di vista sistematico, con l'esistenza dell'obbligo dell'annotazione «senza indugio» del pignoramento nel libro dei soci posto a carico degli amministratori a mente dell'art. 2471, comma 1, c.c.»).

La nuova forma di pubblicità consente infatti al creditore un'informazione rispetto alla quale un'eventuale dichiarazione della società non ha più l'utilità che poteva rivestire in passato nella dinamica tipica del pignoramento presso terzi.

Il giudice dell'esecuzione competente

Quanto ai precipitati applicativi conseguenti a questo rinnovato quadro normativo ed interpretativo, vengono in rilievo numerosi profili non toccati dagli interventi normativi descritti ed inerenti all'individuazione del giudice competente, l'individuazione del momento di perfezionamento del pignoramento e il profilo dell'opponibilità.

Con riguardo alla competenza per materia occorre distinguere in base all'oggetto del pignoramento. Non sorgono infatti dubbi interpretativi quando l'oggetto sia un titolo azionario documentale nel qual caso trova applicazione il criterio generale dettato dall'art. 26 c.p.c. in tema di pignoramento mobiliare che individua quale competente il Tribunale del luogo in cui le cose si trovano (nel pignoramento mobiliare di titoli azionari documentali avrà così rilievo la concreta collocazione di essi, presso il debitore o presso terzi).

Quanto invece ai titoli azionari dematerializzati viene in rilievo il disposto dell'art. 26-bis c.p.c. con correlativa competenza del Tribunale del luogo in cui il debitore ha la sua residenza, domicilio, dimora o sede.

Maggiori dubbi interpretativi permangono quando il pignoramento abbia ad oggetto una partecipazione societaria di s.r.l. in considerazione del fatto che il criterio risolutivo di cui all'art. 26 c.p.c. non appare esattamente mutuabile in ragione della consistenza immateriale della partecipazione societaria di s.r.l.

Sul punto occorre premettere, ad ogni modo, che in passato la questione aveva maggiore pregnanza semantica in ragione della diversità del Foro competente nell'ipotesi di pignoramento mobiliare rispetto al pignoramento presso terzi.

Ad ogni modo, come detto, i dubbi permangono pur a fronte dell'allineamento normativo in ragione del disposto dell'art. 26 -bisc.p.c. introdotto dalla l. n. 132/2014 e vanno perciò segnalate le opzioni esegetiche secondo cui il Foro competente nel caso di pignoramento di quote societarie di s.r.l., pur nelle forme del pignoramento diretto presso il debitore, rimarrebbe quello del Tribunale in cui ha sede la società.

Tale esegesi risulterebbe, nelle argomentazioni degli interpreti, maggiormente conforme alla normativa comunitaria uniforme in materia di procedure di insolvenza nonché agli adempimenti della società connessi alla custodia ed amministrazione delle quote pignorate (in tal senso Casali, 815, secondo cui «se si tratta di pignoramento «diretto» c'è il problema della competenza territoriale del procedimento esecutivo: la natura immateriale della quota rende difatti inapplicabile il criterio della competenza del giudice del luogo in cui la cosa si trova (art. 26 c.p.c.). Visto che il pignoramento va iscritto nel registro delle imprese, si può allora richiamare l'art. 2470 c.c. laddove prevede che l'atto di trasferimento delle partecipazioni va depositato presso l'ufficio «nella cui circoscrizione è stabilita la sede sociale»; pertanto per l'espropriazione dovrebbe essere competente il tribunale del luogo in cui si trova la sede della società»).

In giurisprudenza, premessa un'articolata e approfondita disamina delle modalità esecutive percorribili all'esito della riforma del diritto societario del 2003, è stato recepito il criterio per cui è competente il giudice dell'esecuzione competente a dirigere il pignoramento diretto nei confronti del debitore, cioè il giudice del luogo in cui la cosa si trova (cfr. Trib. Monza 14 marzo 2016 secondo cui «(...) ai fini dell'individuazione del criterio di competenza territoriale applicabile al caso in esame risulta utile innanzitutto individuare a quale di queste categorie sia riconducibile l'espropriazione che abbia ad oggetto una quota di s.r.l., stante l'assenza di specifiche norme processuali a riguardo; in particolare rileva la disciplina civilistica prevista dall'art. 2471 c.c., il quale ammette l'espropriabilità della quota di una società a responsabilità limitata, la quale è da intendersi quale bene immateriale assoggettabile alla disciplina dell'espropriazione dei beni mobili iscritti in pubblico registro, ed il cui pignoramento si esegue mediante notificazione al debitore e alla società, salvo l'onere di procedere a successiva iscrizione del pignoramento nel registro delle imprese. Tale norma, introdotta con la riforma del 2003, disattende quella parte di giurisprudenza che riconduceva tale figura alla fattispecie dell'espropriazione presso terzi (esemplificativamente si vedano Cass. n. 859/1957; Cass. n. 1835/1962; Cass. n. 454/1964; Cass. n. 640/1984; Cass. n. 7409/1986; Cass. n. 13019/1992; Cass. n. 2926/1997); ciò, peraltro, trova riscontro nell'assenza di un richiamo testuale all'art. 543 c.p.c. e nella non essenzialità dell'apporto del terzo debitore ai fini dell'identificazione dell'oggetto del pignoramento nell'ambito della procedura esecutiva in esame. La Cassazione a proposito afferma infatti che ‘con tale disposizione (l'art. 2471 c.c.), il legislatore ha attribuito al pignoramento di quote di s.r.l. la forma di pignoramento «documentale», coerente con la qualificazione della quota come bene immateriale iscritto in un pubblico registro, ed è quindi alternativa rispetto alla forma del pignoramento presso terzi. Forma che in precedenza veniva ritenuto doversi seguire tanto nella esecuzione del pignoramento quanto nella esecuzione del sequestro di quote di s.r.l., nonostante l'intimazione al terzo (la società) di non disporre del bene (art. 543 c.p.c., n. 2) e la dichiarazione del terzo stesso – o in mancanza l'accertamento – in ordine al credito, o alle cose o somme del debitore in suo possesso (artt. 547 e 548 c.p.c.) mal si adattino alla situazione giuridica della quota sociale, considerando che il pignoramento (o il provvedimento di sequestro) di tale quota deve averne individuato l'oggetto e che della stessa non può disporne la società ma il debitore stesso. Laddove, nel procedimento previsto dal nuovo art. 2471 c.c., la notifica del provvedimento al debitore vale a produrre il vincolo di indisponibilità che sostanzia il pignoramento, che viene reso opponibile ai terzi con la iscrizione nel Registro imprese (art. 2193 c.c.). Non merita dunque condivisione la tesi dei ricorrenti secondo la quale la esecuzione del sequestro in questione doveva avvenire secondo le modalità previste per il pignoramento presso terzi, anziché in quelle previste dalla norma speciale regolante il pignoramento di quote sociali (Cass. n. 13903/2014). Le stesse conclusioni erano già state evidenziate in precedenza dalla Cassazione, la quale affermava che «Questa Corte ha, più volte, affermato che la quota di partecipazione in una s.r.l. esprime una posizione contrattuale obiettivata, che va considerata come un bene immateriale equiparato al bene mobile non iscritto in pubblico registro, ai sensi dell'art. 812 c.c. Alla stessa, pertanto, possono applicarsi – ai sensi dell'art. 813 c.c., ultima parte – le disposizioni relative ai beni mobili e, specificamente, la disciplina delle situazioni soggettive reali e dei conflitti tra di esse sul medesimo bene. La quota, quindi, se non può considerarsi come un bene materiale al pari dell'azione, tuttavia ha un valore patrimoniale oggettivo, che è dato dalla frazione del patrimonio che rappresenta; ed è trattata dalla legge come oggetto unitario di diritti, oltre che di obblighi (v. Cass. n. 697/1997; Cass. n. 6957/2000; v. anche Cass. n. 19161/2007). Conferma dell'equiparazione della quota al bene mobile non registrato si ricava anche dall'art. 2482 c.c., comma 2 e art. 2483 c.c., dai quali risulta che la quota di s.r.l. è oggetto del diritto di proprietà e può essere acquistata, con trasferimento dello stesso diritto da un soggetto all'altro (così Cass. n. 7409/1986 e le ulteriori richiamate). Ne deriva che la quota di partecipazione, come tale, è soggetta a trasferimenti, pignoramenti e sequestri nei confronti del socio che ne è il titolare, e non certo della società che, con riferimento a tali eventi, è terza. (Cass. n. 22361/2009). Dunque, tale orientamento interpretativo è quello più conforme e aderente alla disciplina normativa prevista dall'art. 2471 c.c. così come riformata nel 2003. In particolare la previsione secondo la quale si debba procedere a notificare il pignoramento anche alla società non vuole alludere alle modalità del pignoramento presso terzi (consentendo cioè alla società, mediante tale notifica, di rendere la dichiarazione tipica dell'espropriazione presso terzi); infatti la notificazione alla società assolve, da un lato, la funzione di mettere a conoscenza la società di un evento che, incidendo sulla compagine sociale, produce effetti indiretti anche nei confronti della società stessa e dall'altro lato, alla funzione di rendere immediatamente operante anche nei suoi confronti il vincolo che costituisce l'effetto tipico del pignoramento e che consegue all'ingiunzione dell'ufficiale giudiziario di non sottrarre i beni pignorati alla garanzia del credito. Per altro verso l'iscrizione nel Registro delle Imprese dell'avvenuto pignoramento delle partecipazioni sociali non assolve ad una funzione di pubblicità costitutiva, ma meramente dichiarativa, stante la natura di strumento destinato ad una pubblicità soggettiva; l'iscrizione infatti costituisce un requisito di efficacia esterna dell'atto per il quale essa è richiesta, in quanto i terzi non possono invocare l'ignoranza dei fatti dal momento in cui l'iscrizione del relativo atto è avvenuta. Nel medesimo senso, quindi, l'iscrizione nel registro delle imprese del pignoramento ha la funzione di rendere inopponibili ed inefficaci nei confronti del creditore pignorante gli eventuali trasferimenti della quota successivi all'iscrizione medesima ('il trasferimento delle quote della società a responsabilità limitata, in quanto soggetto ad iscrizione nel registro delle imprese..., è opponibile ai terzi solo quando sia stato effettuato tale adempimento, non essendo sufficiente l'iscrizione nel libro soci...che disciplina solo l'opponibilità del trasferimento nei confronti della società», Trib. Padova 14 aprile 2003 in Gi. 2003, 1912). Conseguentemente grava sull'acquirente l'onere di verificare le vicende relative alla quota e qualora risulti l'iscrizione su di essa di un pignoramento la stessa sarà passibile di espropriazione. Non contraddice la conclusione cui si è giunti nella massima estrapolata da parte del Sig. Za dalla sent. n. 13903/2014 poiché la stessa esplicitamente e correttamente ritiene la superfluità della notifica al debitore nella diversa ipotesi di attuazione del sequestro conservativo di quote, ivi evidenziandosi come ‘a differenza della esecuzione del pignoramento l'attuazione del sequestro conservativo avvenga sulla base di un provvedimento già perfezionato, nel contraddittorio tra le parti. Ne consegue che, mentre non può prescindersi dall'iscrizione del sequestro nel Registro, non altrettanto può dirsi per la notifica prescritta dall'art. 2471 c.c. per il pignoramento. Alla luce di tali ricostruzioni si desume che le regole di competenza applicabili al caso di pignoramento di quote di s.r.l. sono quelle proprie dell'espropriazione mobiliare secondo cui competente è il giudice del luogo ove si trova il bene oggetto del pignoramento e quindi, legittimato a procedere è l'ufficiale giudiziario appartenente all'Ufficio unico notificazioni esecuzioni e protesti che ha sede nel mandamento del tribunale competente per l'esecuzione. Nel caso di specie dunque la quota di s.r.l. oggetto del pignoramento, alla luce del disposto dell'art. 2471 c.c., è da intendersi quale bene mobile che si trova presso la residenza del debitore il quale risiede in B., Comune per il quale la competenza territoriale a procedere all'espropriazione è quella del Tribunale di Milano. In altre parole, è lo stesso art. 2471 c.c. in tema di espropriazione della quota a identificare il luogo ove si trova il bene-quota, cioè la residenza del debitore presso cui la notifica del pignoramento va eseguita ai fini del suo perfezionamento, mentre la quota stessa non può ritenersi situata presso la sede della società, estranea al pignoramento in sé e alla quale la notifica viene prevista solo per le finalità che si sono sopra riportate. Conseguentemente, stante l'esclusività e l'inderogabilità della competenza territoriale per le esecuzioni ai sensi degli artt. 9 e 26 c.p.c., si ritiene ricorra nel caso di specie un'ipotesi di nullità dell'atto di pignoramento, in quanto posto in essere da un ufficiale giudiziario (quello presso il Tribunale di Monza) privo della necessaria competenza a procedervi (sulla nullità del pignoramento effettuato dall'ufficiale giudiziario territorialmente incompetente si veda Cass. n. 5583/2003)».

Nel caso di specie quindi la società aveva sede nel circondario del Tribunale di Monza mentre il debitore era residente in un Comune compreso nel circondario del Tribunale di Milano. La soluzione del caso ha perciò richiesto l'individuazione del «luogo in cui le cose si trovano» ai sensi dell'art. 26 c.p.c. rintracciato nel luogo di residenza del debitore sulla base del tenore dell'art. 2471 c.c. che, nel richiedere la notifica del pignoramento presso la residenza del socio-debitore, di fatto, individua in tale luogo quello in cui la «cosa» si trova.

A riprova del disomogeneo quadro interpretativo in materia, non sono mancate voci dottrinali non adesive alla scelta giurisprudenziale predetta, cfr. Farina, «(...) a nostro modo di vedere, infatti, in caso di espropriazione della partecipazione al capitale di una s.r.l. la competenza di cui all'art. 26 c.p.c. deve ritenersi attribuita al tribunale del luogo in cui ha la propria sede legale la società partecipata. Queste le ragioni. Deve, innanzi tutto, escludersi che in ipotesi di pignoramento ex art. 2471 c.c. possa farsi applicazione della previsione contenuta nel novellato art. 26-bis c.p.c. a tenore del quale, nel caso di pignoramento di crediti, il giudice competente per l'esecuzione è il tribunale del luogo di residenza del debitore; può dirsi, infatti, oramai definitivamente superata la tesi in virtù della quale, pur a seguito della modifica apportata dal legislatore del 2003 al testo dell'art. 2741 c.c., il pignoramento delle partecipazioni al capitale sociale di una s.r.l. debba seguire le forme e le regole dell'espropriazione presso terzi di cui agli artt. 543 ss. c.p.c. È, dunque, corretta la premessa da cui è partito il ragionamento del Tribunale di Monza per individuare il criterio di competenza territoriale applicabile al caso di specie, ossia che in ipotesi di pignoramento di partecipazioni sociali ex art. 2471 c.c. ci si trovi, dopo tutto, al cospetto di un'espropriazione per la quale vale, in mancanza di specifica regola derogatoria, il criterio di competenza del forum rei sitae. Non altrettanto corretta ci pare, al contrario, l'argomentazione adoperata dal tribunale per sostenere la parte finale del proprio ragionamento, vale a dire che sarebbe proprio dall'art. 2471 c.c. che dovrebbe ricavarsi la conclusione per cui, per il legislatore, sarebbe il luogo in cui risiede il socio-debitore a radicare la competenza per l'espropriazione della partecipazione da questi detenuta nel capitale sociale di una s.r.l. con sede sociale altrove (...) E tuttavia per sciogliere la detta alternativa non pare possa assumere rilevanza decisiva il solo fatto che la notificazione dell'atto di pignoramento vada eseguita presso la residenza (o la sede) del socio-debitore, pur se unito alla circostanza per cui (secondo una tesi di recente emersa nella giurisprudenza di merito la notificazione alla società le cui quote sono oggetto del pignoramento non risulta – tanto più nel contesto normativo attuale nel quale il libro soci ha perso valenza obbligatoria – di per sé adempimento necessario ad integrare gli effetti tipici del pignoramento; è naturale, infatti, che l'atto che concreta il vincolo, allorché si abbia a che fare con una forma di pignoramento c.d. «documentale», debba essere portato a conoscenza della parte che lo subisce (ossia il socio debitore) e, quindi, notificato in uno dei (pur vari) luoghi in cui questi può essere concretamente attinto ma ciò, a nostro modo di vedere, non può dire nulla sulla diversa circostanza attinente la corretta individuazione del luogo in cui la cosa si trova».

Piuttosto, secondo l'autore, vi sarebbero altri argomenti nel senso di ritenere, quale Foro competente ex art. 26 c.p.c., il luogo in cui ha sede la società partecipata. E, segnatamente, la natura della quota quale bene immateriale, fascio di prerogative sociali e contrattuali di talché, essendo la sede della società il luogo in cui tali prerogative sono esercitate, la competenza andrebbe perciò radicata nel luogo in cui questa ha sede. D'altra parte, tale opzione esegetica si rivelerebbe maggiormente coerente con il principio della territorialità tipico dell'esecuzione forzata che, di regola, si svolge dove si trovano i beni.

Il contenuto dell'atto di pignoramento

Il disposto dell'art. 2741 c.c. non esplicita il contenuto dell'atto di pignoramento limitandosi a richiedere la sua notifica in favore del debitore e della società nonché la sua successiva iscrizione nel registro delle imprese. L'opzione maggioritaria secondo cui la forma di tale pignoramento è quella del pignoramento mobiliare induce a ritenere che il contenuto di tale atto debba rispecchiare i profili contenutistici di cui all'art. 492 c.p.c.: ingiunzione al debitore, descrizione della quota e indicazione del suo valore nominale.

L'oggetto del pignoramento di partecipazione societaria d'altra parte, non attinge solo il pignoramento della quota ma attinge il complesso di diritti e situazioni giuridiche connessi alla quota e che spettano al debitore nella sua qualità di socio.

La quota, bene immateriale, rappresenta un fascio di prerogative e di situazioni giuridiche nella titolarità del socio.

Ciò induce a ritenere, che ai sensi dell'art. 2912 c.c., nell'ipotesi di scioglimento della società, il pignoramento si estende alla quota di liquidazione (tanto risulta chiaro nelle argomentazioni della Corte di legittimità secondo cui «il pignoramento della quota di società a responsabilità limitata non si estingue con l'azzeramento del capitale sociale, perché esso si concentra, per estensione ex art. 2912 c.c., sulla quota di liquidazione nel caso di deliberazione di scioglimento della società ovvero sul diritto di opzione ove sia deliberata la ricostituzione del capitale sociale. In tale ultima ipotesi ne consegue che, se questo diritto non venga esercitato, il pignoramento produrrà i suoi effetti sul valore dello stesso diritto di opzione e l'espropriazione continuerà anche solo limitatamente a questo valore», così Cass. n. 13019/1992).

L'iscrizione del pignoramento nel registro delle imprese e l'opponibilità del pignoramento

Un altro profilo problematico su cui si concentra l'interpretazione dell'art. 2471 c.c. è quello della valenza costitutiva o meramente dichiarativa dell'iscrizione del pignoramento nel registro delle imprese. Sul punto si assiste ad un dibattito che in qualche modo replica quello sviluppatosi attorno al pignoramento immobiliare ed alla valenza della trascrizione rispetto alla prodromica notifica dello stesso. Appare preferibile la tesi secondo cui l'iscrizione nel registro delle imprese non ha natura costitutiva ma meramente dichiarativa.

Strettamente connesso è poi il tema dell'opponibilità del pignoramento e della soluzione del conflitto tra creditore pignorante e terzo acquirente.

Sul punto, fin da epoca anteriore alla novella del 1993, si è registrata una disomogeneità del quadro interpretativo che si riscontra ancora oggi, pur dopo la riforma del diritto societario del 2003. È utile ripercorrere le tappe dell'evoluzione normativa ed interpretativa sul punto.

Prima della novella del 1993, in mancanza di qualsiasi presidio normativo sul regime di opponibilità delle quote s.r.l., assumeva rilievo, nel conflitto con il creditore pignorante, l'iscrizione dell'acquisto nel libro dei soci («sulla rilevanza assunta dall'annotazione del pignoramento nel libro dei soci la giurisprudenza di legittimità aveva mutato orientamento passando da una concezione della quota come entità insuscettibile di possesso ad una concezione della quota suscettibile «di una situazione di relazione diretta di fatto» assimilabile al possesso». Secondo il primo orientamento, il conflitto veniva risolto sulla base dell'art. 2914, n. 4) in quanto, sebbene la quota non fosse suscettibile dello spossessamento e dell'impossessamento altrui previsti nella norma, ciò non escludeva la possibilità di applicare la seconda ipotesi normativa ivi prevista (e cioè che il trasferimento risultasse da scrittura privata che avesse acquisito data certa anteriore e dunque fosse opponibile al creditore pignorante); in tal modo, richiamandosi l'art. 2914, n. 4), si escludeva pure la possibilità di invocare l'art. 2913 c.c. La certezza della data rendeva irrilevante l'annotazione o meno a libro dei soci. Secondo il successivo orientamento relativo a tale primo periodo, invece, la Suprema Corte risolveva il conflitto tra creditore procedente e terzo avente causa sulla base dell'art. 2913 e dell'art. 1153 configurando la quota come bene suscettibile di possesso: non essendovi alcun obbligo esplicito di iscrivere il pignoramento della quota nel libro dei soci, la Suprema Corte si trovò costretta ad escludere l'applicazione dell'art. 2914: la decisione veniva resa sul presupposto che la quota fosse un bene mobile immateriale e che tale bene fosse suscettibile di «possesso» meglio indicato come una «situazione di relazione diretta di fatto» che dipendeva dall'avere iscritto la titolarità della quota nel libro dei soci, situazione questa ritenuta assimilabile al possesso di un bene materiale. Si riteneva comunque in dottrina che i soci, sia unitariamente che singolarmente considerati, fossero tenuti a non cooperare con il socio esecutando agevolandone la disposizione della quota: tale obbligo comportava il rifiuto da opporre all'istanza di iscrizione del trasferimento nel libro dei soci. Quando, invece, il pignoramento fosse stato successivo al trasferimento della quota, la giurisprudenza di legittimità con due pronunce aveva ritenuto che per l'opponibilità al creditore pignorante  e al fallimento  fosse sufficiente che il trasferimento risultasse da atto scritto avente data certa anteriore al pignoramento o alla sentenza dichiarativa di fallimento; in senso contrario si era pronunciata la giurisprudenza di merito la quale assimilando la cessione di quote di una s.r.l. alla cessione dei contratti, affermava che l'opponibilità al creditore pignorante del trasferimento di quote di s.r.l. dipendesse unicamente dalla iscrizione nel libro soci (in quanto tale iscrizione avrebbe funzionato come notifica al contraente ceduto)», svolge una ricostruzione dettagliata ed esaustiva dell'evoluzione esegetica connessa all'evoluzione normativa, Murino, 212).

Successivamente, l'intervento legislativo del 1993, limitandosi a prevedere un regime pubblicitario per la quota ma non anche un criterio risolutivo del conflitto tra più aventi causa, ha indotto la giurisprudenza a ribadire la rilevanza dell'iscrizione nel libro dei soci ai fini della risoluzione del predetto conflitto (in tale solco interpretativo si colloca Cass. n. 10826/2014 secondo cui «(...) deve essere in primo luogo disattesa l'opinione del ricorrente secondo cui la quota di società a responsabilità limitata andrebbe qualificata come bene mobile iscritto in pubblici registri ed assoggettata alla relativa disciplina, quanto all'efficacia degli atti di trasferimento. Si ricorda che è problematica, ed è utilizzabile e utilizzata solo in senso improprio, la stessa qualificazione della quota come un bene mobile. La quota infatti è priva di ogni carattere di «realità» e comprende un complesso di diritti e doveri di carattere personale e di contenuto obbligatorio. Solo in considerazione del fatto che la partecipazione sociale assume, sotto il profilo economico, un valore patrimoniale oggettivo, in quanto rappresenta il diritto ad una frazione del patrimonio sociale, ed in considerazione del rilevante interesse a che il complesso dei diritti e degli obblighi facenti capo alla titolarità della quota (il c.d. status di socio) possa costituire oggetto unitario di atti di disposizione (trasferimento, sequestro, pignoramento, ecc.: cfr. Cass. II, n. 934/1997; Cass. I, n. 6957/2000), la si assimila ai beni mobili immateriali. Tale definizione, tuttavia, non esprime una realtà fenomenica, bensì solo la sintesi di una disciplina, cioè l'assoggettabilità della quota – in linea di massima – alle norme che regolano i beni mobili, ai sensi dell'art. 812 c.c., comma 3. Potrebbe quindi avere interesse e rilevanza il qualificare la quota societaria come bene mobile iscritto in pubblici registri se l'obbligatoria iscrizione degli atti di disposizione nel registro delle imprese producesse gli stessi effetti della iscrizione degli atti aventi ad oggetto beni mobili registrati. Ma ciò non avviene, poiché il criterio adottato in materia societaria per la soluzione dei conflitti fra più titolari di diritti sul medesimo bene diverge da quello che vale per i trasferimenti immobiliari, nonché per i trasferimenti di beni mobili registrati (cfr. art. 2685 c.c., comma 2 e art. 2644 c.c.), nel senso che, nel sistema di pubblicità tramite iscrizione nel registro delle imprese, l'iscrizione è requisito necessario (nel regime attuale), ma non sufficiente, per l'opponibilità ai terzi degli atti medesimi, poiché chi per primo ha trascritto prevale sugli atti compiuti in data anteriore, ma non trascritti, solo se abbia agito in buona fede, cioè ignorando di ledere l'altrui diritto (art. 2193 c.c., comma 1 e art. 2448 c.c.). In tema di trascrizione immobiliare, per contro, colui che ha trascritto per primo prevale comunque.

Il problema definitorio posto dal ricorrente è quindi irrilevante. Quanto alla necessità che l'atto di pignoramento dovesse essere iscritto nel registro delle imprese, va condivisa la motivazione della Corte di appello, la quale ha rilevato che – alla data del pignoramento – la legge non richiedeva una tale iscrizione, formalità che è stata introdotta solo a seguito della riforma del diritto societario del 2003. Si può anche condividere, in astratto, il rilievo del ricorrente, secondo cui – disposto l'obbligo di iscrizione nel registro delle imprese degli atti di trasferimento delle partecipazioni societarie ad opera della l. n. 310/1993, – sarebbe stato coerente introdurre analoga disposizione con riguardo agli altri atti afferenti ai diritti sulle partecipazioni medesime, quale il pignoramento. Resta il fatto che la legge non ha disposto in tal senso e che le norme attinenti agli adempimenti formali che presiedono alla pubblicità legale e, soprattutto, alle sanzioni ed agli effetti pregiudizievoli della loro omissione, debbono essere espresse e specifiche, e non possono ritenersi applicabili per analogia, considerata la rilevanza degli effetti che ne conseguono. Si consideri, fra l'altro, che la l. n. 310/1993 – dettando norme quali quelle degli artt. 4 e 5, modificative del testo allora in vigore degli artt. 2435 e 2493 c.c. – ha posto a carico degli amministratori l'obbligo di rendere pubblico l'elenco dei soci e degli altri titolari di diritti (ivi inclusi quindi i creditori pignoratizi) sulle azioni e sulle quote sociali, tramite il deposito presso il registro delle imprese, unitamente al bilancio annuale: disposizione che sembra dimostrare che, nell'intento del legislatore dell'epoca, tale adempimento costituisse sufficiente garanzia di trasparenza. L'efficacia del pignoramento notificato dalla s.r.l. legge del 1998 non può quindi ritenersi infirmata dalla mancata trascrizione dell'atto; né in tal senso può essere interpretato l'art. 2914 c.c., n. 1. Il secondo motivo denuncia violazione dell'art. 2913 c.c., per avere la Corte di appello escluso che l'acquirente della quota ceduta dal C.N. possa opporre al creditore pignorante il fatto di avere conseguito in buona fede il possesso della quota. Assume la ricorrente che, dopo l'iscrizione della cessione in libro soci, il cessionario è in condizione di esercitare di fatto i diritti inerenti alla qualità di socio e pertanto si trova in situazione definibile come possessoria. Si tratterebbe poi di possesso di buona fede, in quanto l'acquisto della quota è avvenuto, con efficacia fra le parti, il 1° agosto 1998, molti mesi prima della notificazione del pignoramento. Il motivo non è fondato. Anche ammesso che la quota di s.r.l. possa costituire oggetto di possesso, contrariamente a quanto ha ritenuto la Corte di appello, ma conformemente al prevalente orientamento giurisprudenziale (Cass. III, n. 22361/2009), in primo luogo unica parte legittimata ad opporre al creditore pignorante gli effetti dell'acquisizione in buona fede del possesso potrebbe essere, se mai, il terzo acquirente della quota pignorata, cioè il C.A. o, che nella specie non è in causa; o meglio, non è in causa in proprio, ma solo quale rappresentante legale della società pignorata. Quest'ultima – quale società di capitali, dotata di personalità giuridica nettamente distinta da quella dei soci – avrebbe dovuto specificare su quali basi fonda la propria legittimazione a rivendicare gli effetti della buona fede in favore del socio acquirente, considerato che, in linea di principio, dovrebbe esserle indifferente il fatto di essere debitrice del valore della quota verso l'una o verso l'altra delle parti dell'atto di cessione (cfr. anche, sui limiti in cui il terzo pignorato è legittimato a mettere in questione il credito del debitore esecutato o del terzo acquirente dallo stesso, Cass. n. 6449/2003). In secondo luogo, e soprattutto, in relazione a quel peculiare bene che è la quota societaria, formata da un complesso di diritti obbligatori, il possesso viene a configurarsi come «possesso di diritti» e non di cose, cioè come situazione che consente di fatto l'esercizio dei diritti inerenti alla posizione acquisita. In quanto tale, il possesso di quota può essere acquisito solo nel momento in cui l'iscrizione in libro soci dell'atto di trasferimento immetta l'acquirente nell'organizzazione societaria e lo ponga in condizione di potere effettivamente esercitare i diritti inerenti allo status di socio (cfr. Cass. III, n. 7409/1986). L'iscrizione in libro soci nella specie è avvenuta solo il 31 marzo 1999, successivamente alla notificazione dell'atto di pignoramento, donde l'inapplicabilità sia dell'art. 2913, sia anche dell'art. 2914 c.c., n. 4, conformemente a quanto ha deciso la sentenza impugnata»).

Va premesso che nel caso di specie trovava applicazione la disciplina previgente rispetto alla riforma del 2003. Nell'occasione la Corte di legittimità affronta il profilo pregiudiziale relativo all'individuazione del momento di perfezionamento della notifica e, successivamente, quello del criterio risolutore del conflitto tra creditore pignorante e acquirente della partecipazione sociale. In tale contesto normativo la Corte di legittimità conferma la decisione della corte territoriale che dichiarava inopponibile la cessione al creditore pignorante attesa la notifica del pignoramento in epoca anteriore alla cessione e negando l'applicabilità dell'art. 2913 c.c. ai sensi del quale restano salvi gli effetti del possesso di buona fede, per l'impossibilità di assimilare le quote della società ai beni mobili.

In particolare, la Corte ha escluso di poter assimilare, dal punto di vista degli effetti, la pubblicità nel registro delle imprese alla trascrizione nei pubblici registri così escludendo la necessità dell'iscrizione del pignoramento nel registro delle imprese. La pronuncia è stata criticata dalla dottrina, cfr. Furgiuele secondo cui «la soluzione prospettata, seppure riferibile ad un contesto normativo ormai modificato, ma del quale il giudice ha potuto tener conto per trarne spunti di interpretazione, deve essere censurata, innanzitutto, quanto alla individuazione nella iscrizione nel libro dei soci del trasferimento come criterio di soluzione dei conflitti che ineriscono alle vicende delle quote. Neppure nel regime precedente l'abrogazione del libro dei soci dai libri sociali obbligatori della società a responsabilità limitata poteva ritenersi che il libro in parola fosse in grado di assolvere alla funzione dirimente, né tanto meno, ed è questo il punto più rilevante e ancora attuale, il problema del conflitto fra più titolari di diritti incompatibili sulla quota è destinato a porsi sul piano interno delle vicende dell'organizzazione. Al contrario, la rilevanza dell'annotazione nel libro dei soci si coglie, tuttora, esclusivamente rispetto alle esigenze di conoscenza della compagine sociale da parte della società e ai fini dell'integrazione dell'indice di legittimazione all'esercizio dei diritti. Il tema esaminato nella sentenza è di particolare attualità, dal momento che il dettato normativo vigente non offre indicazioni in merito al criterio di soluzione del conflitto fra creditore pignorante e acquirente, né, del resto, sulla individuazione della efficacia del pignoramento. Il legislatore del 2003 è intervenuto a disciplinare per la prima volta il pignoramento della quota e all'art. 2471 c.c. ha prescritto, accanto alla notifica alla società e al debitore, l'iscrizione del gravame nel registro delle imprese e la successiva annotazione nel libro dei soci, quest'ultima attualmente abrogata a seguito della l. n. 2/2009. La disciplina di nuova introduzione è stata accolta dall'opinione prevalente quale recepimento dell'indirizzo che affermava la possibilità di ricavare il regime delle formalità del pignoramento da quello del trasferimento della quota, sottolineandosi la valenza autonoma di questo procedimento espropriativo. Secondo un altro orientamento il nuovo regime costituirebbe, in assoluta continuità con il passato, una mera integrazione delle formalità del pignoramento presso terzi. Per vero, la disposizione riformata non ha affatto risolto il problema della individuazione del momento a partire dal quale il gravame deve intendersi perfezionato e, in particolare, non ha individuato quale ruolo assolva l'iscrizione nel registro delle imprese rispetto al pignoramento della quota. Si discute difatti se la pubblicità abbia effetti costitutivi, ovvero se sia unicamente funzionale alla soluzione dei possibili conflitti fra più aventi diritto, mentre il pignoramento dovrebbe considerarsi perfezionato, nei confronti del socio debitore e della società, con la notifica ex art. 492 c.p.c. Seppure, quindi, permangano senza espressa soluzione alcuni rilevanti profili nell'interpretazione dell'art. 2471 c.c., la disposizione è tuttavia idonea a ravvisare con sufficiente certezza nella iscrizione nel registro delle imprese il momento a partire dal quale si realizza l'effetto della indisponibilità della quota nei confronti dei terzi. Il meccanismo pubblicitario risolve il problema che, nel regime previgente, era da taluni ricavato per via di interpretazione analogica dalla disciplina della pubblicità del trasferimento, ma non offre al contempo, ad avviso di chi scrive, la possibilità di argomentare che la pubblicità commerciale costituisca, in assenza di un'espressa disposizione normativa in tal senso, il meccanismo di soluzione dei conflitti fra più titolari di diritti incompatibili sulla quota. Al contrario, l'espressa previsione della iscrizione nel registro delle imprese del pignoramento e soprattutto l'individuazione, al comma 3 dell'art. 2470 c.c., del criterio di soluzione del conflitto fra più acquirenti della partecipazione in base alla priorità della iscrizione avvenuta in buona fede, ha indotto gran parte degli autori a ricavare da tali indici normativi la possibilità di attribuire all'iscrizione nel registro delle imprese un effetto prenotativo simile a quello della trascrizione per i beni immobili o mobili registrati, talora ritenendo necessario ricorrere allo stato soggettivo della buona fede disposto dall'art. 2470, comma 3, c.c. In tal senso, il dettato normativo riformato avrebbe confermato l'opinione che, già sotto il regime previgente, attribuiva alla pubblicità commerciale la funzione di soluzione del conflitto fra più titolari di diritti incompatibili sulla quota. Si profila dunque necessario individuare la valenza del riferito adempimento rispetto alle vicende della partecipazione in società a responsabilità limitata. Può difatti anticiparsi che diversa è la portata riconosciuta dall'ordinamento alla pubblicità commerciale, a seconda delle situazioni ora in considerazione, e che tale diversità impone di non poter ragionare ponendole sul medesimo piano».

Anche successivamente alla riforma del 2003, come detto, si registra una disomogeneità del panorama interpretativo a fronte di un dato normativo che disciplina il conflitto tra più aventi causa della stessa quota (art. 2470, comma 3, c.c.) ma non quello tra il creditore pignorante ed il terzo acquirente, avente causa dal debitore esecutato.

I termini del dibattito, quanto a tale ultimo aspetto perciò, si possono riassumere nella posizione di quanti, da un lato, ritengono che trovi applicazione il disposto dell'art. 2914 c.c. e quanti invece ritengono come la disciplina applicabile sia quella speciale prevista dal combinato disposto degli artt. 2470 e 2193 c.c.

È utile ripercorrere il contenuto delle norme che vengono in rilievo nell'esegesi di questi profili: l'art. 2470 comma 3, c.c., secondo cui il conflitto tra più acquirenti della medesima partecipazione si risolve a favore di chi abbia iscritto per primo nel registro delle imprese purché in buona fede (così contemperando il profilo il principio del prior in tempore potior in iure con il principio della buona fede).

Ancora, l'art. 2193 comma 1 c.c., secondo cui i fatti per cui è prescritta l'iscrizione, quando non iscritti, non possono essere opposti ai terzi, a meno che non si provi la loro effettiva conoscenza, l'art. 2193 comma 2 c.c., secondo cui l'ignoranza dei fatti dei quali la legge prescrive l'iscrizione non può essere opposta dai terzi dal momento in cui l'iscrizione è avvenuta e l'art. 2914 comma 1 n. 1 c.c. secondo cui non hanno effetto nei confronti del creditore pignorante e dei creditori che intervengono nell'esecuzione le alienazioni di beni immobili o iscritti in pubblici registri che siano intervenute prima del pignoramento, ma siano state trascritte dopo.

Individuare il regime applicabile è perciò, ancora una volta, premessa dalle ricadute applicative notevoli in quanto l'art. 2470 c.c. che ha sostituito l'art. 2479 c.c., per il caso di doppia alienazione delle quote societarie, ai fini dell'opponibilità ai terzi, prevede che l'atto di alienazione deve essere depositato presso l'ufficio del registro delle imprese entro 30 giorni a cura del notaio autenticante ed inoltre prevede al comma 3 che se la quota è alienata con successivi contratti a più persone, quella che per prima ha effettuato l'iscrizione nel registro delle imprese è preferita alle altre, anche se il suo titolo è di data posteriore.

Il dibattito risente della posizione che si adotti in ordine alla funzione della pubblicità commerciale, se sia o meno sovrapponibile a quella della pubblicità immobiliare.

Sul punto assumono decisivo rilievo le considerazioni di quanti hanno messo in luce la diversa funzione cui pubblicità immobiliare e commerciale assolvono: solo la pubblicità immobiliare infatti consente un'opponibilità rispetto alla quale non sussistono deroghe, viceversa, non è detto che la priorità dell'iscrizione nel registro delle imprese garantisca l'acquisto della partecipazione societaria in favore dell'acquirente che iscrive per primo quando l'altro acquirente dimostri la conoscenza dell'atto non iscritto (Gasperini, cit. «(...) al riguardo si è autorevolmente sostenuto che mentre la pubblicità immobiliare è a servizio della circolazione giuridica, assolvendo alla funzione di dirimere i conflitti tra più acquirenti del medesimo bene, la pubblicità commerciale è al servizio della trasparenza delle vicende dell'impresa, consentendo all'imprenditore di opporre ai terzi i fatti iscritti senza che rilevi la situazione di ignoranza, da parte dei terzi medesimi, dei predetti fatti, ma al contempo senza escludere l'opponibilità del fatto non iscritto qualora si dimostri che il terzo ne abbia comunque conoscenza. Il regime della opponibilità ai terzi del pignoramento di cui all'art. 2471 c.c. è dunque quello dell'art. 2193 c.c. e non quello dell'art. 2914 n. 1 c.c.» ed anche Furgiuele, «quanto al primo aspetto, vi è innanzitutto da osservare che, a differenza della pubblicità immobiliare, il sistema della pubblicità dell'impresa non può prescindere dallo stato soggettivo della conoscenza dei fatti che non siano iscritti (art. 2193, comma 1, seconda parte, c.c.). A ciò si aggiunga che la diversa portata delle due forme di pubblicità si coglie essenzialmente nel fatto che manca rispetto alla pubblicità commerciale il principio di continuità delle iscrizioni che, al contrario, fonda la stessa possibilità che la trascrizione valga a dirimere il conflitto fra più titolari di diritti incompatibili).

Parte della dottrina ha perciò messo in luce come, proprio sulla base della diversa funzione cui assolvono pubblicità commerciale ed immobiliare, come in caso di conflitto tra creditore pignorante ed acquirente non è sufficiente la priorità della trascrizione (art. 2914 comma 1 c.c.) essendo necessario un requisito soggettivo ulteriore, ovvero la buona fede di chi abbia iscritto per primo (art. 2193 comma 1 e 2 c.c.).

In sostanza, ai fini dell'opponibilità del pignoramento ai terzi acquirenti, assumerebbe decisivo rilievo, secondo la tesi in oggetto, anche un presupposto soggettivo, la buona fede dell'acquirente che abbia iscritto il proprio acquisto nel registro delle imprese (come efficacemente chiarito «(...) sulla scorta di queste regole, tra più acquirenti della quota, prevale chi per primo abbia trascritto in buona fede, e cioè nell'ignoranza dell'altrui acquisto. Ergo, se dopo la notifica del pignoramento il debitore cede le sue quote e l'atto di cessione viene iscritto prima dell'iscrizione del pignoramento, l'atto di pignoramento sarà inopponibile al cessionario, a meno che il creditore pignorante dimostri che questi era conoscenza dell'avvenuto pignoramento. La disciplina del regime di opponibilità del pignoramento cambia se si applica l'art. 2914 c.c., a mente del quale non hanno effetto in pregiudizio del creditore pignorante e dei creditori che intervengono nell'esecuzione, sebbene anteriori al pignoramento, le alienazioni di beni mobili iscritti in pubblici registri, che siano state trascritte successivamente al pignoramento. È evidente che ove si faccia utilizzo di questa disposizione, il regime di opponibilità delle cessioni di quote viene a sovrapporsi a quello dei trasferimenti immobiliari, perché si prescinderebbe da ogni valutazione sulla buona o cattiva fede del primo trascrivente, valendo in modo assoluto la regola prior in tempore potior in iure (D'Alonzo, 312. In dottrina è stato perciò fin da subito messa in luce l'insufficienza della novella del 2003 nel solco della progressiva assimilazione della quota ad un bene mobile registrato. Considerazioni critiche sono svolte da Amendola, 18 e ss. «(...) la prima considerazione alla quale è indotto l'interprete è che il legislatore del 2003 ha perso un'ottima occasione per portare a compimento l'operazione ermeneutica di assimilazione delle quote di s.r.l. ai beni mobili registrati: la priorità dell'iscrizione dell'atto di trasferimento nel registro delle imprese non è criterio dirimente in assoluto del conflitto tra più acquirenti dello stesso diritto o di diritti tra loro incompatibili sulla quota, perché l'avente causa che ha iscritto in data posteriore può, dimostrando la mala fede di chi lo ha preceduto, conseguire la tutela reale, e non soltanto risarcitoria, della posizione soggettiva di cui è titolare (...) Il legislatore del 2003 sembra insomma aver voluto recuperare in pieno la nozione di bene mobile immateriale della quota, rispetto al quale l'iscrizione nel registro delle imprese costituisce solo una forma di acquisizione del possesso (come in passato si era ritenuto potesse essere l'annotazione nel libro soci), più che strumento di pubblicità del trasferimento ai noti effetti delineati nel sistema codicistico: il che ricaccia la disciplina del regime di circolazione della quota indietro, sugli approdi sacramentati dal richiamato arresto della Suprema Corte n. 7409/19862. Se passerà questa lettura, fermo il criterio di soluzione dei conflitti prima esplicitato, l'applicabilità delle norme volte a rendere pubbliche anche le domande relative ai contratti di cessione delle quote ne uscirà completamente spiazzata. Ma, per quanto attiene al pignoramento, tornerà in gioco anche il disposto del n. 4 dell'art. 2914 c.c., a tenor del quale non hanno effetto in pregiudizio del creditore pignorante «le alienazioni di beni mobili di cui non sia stato trasmesso il possesso anteriormente al pignoramento, salvo che risultino da atto avente data certa». Peraltro l'applicabilità di tale disposizione, pacificamente riferibile alle sole alienazioni di mobili aventi effetto traslativo immediato (in relazione alle quali sia stata cioè differita unicamente la consegna), riproporrà in maniera assai pregnante il problema dell'individuazione del momento in cui si perfeziona il pignoramento della quota, tutte le volte in cui l'atto di trasferimento della stessa risulti da contratto avente data certa successiva alla notifica, ma anteriore all'iscrizione nel registro delle imprese»).

Un panorama altrettanto disomogeneo si registra in sede giurisprudenziale.

Difatti, affianco a pronunce che hanno individuato la regola di soluzione dei conflitti nell'art. 2470 c.c., così dando rilievo anche al presupposto soggettivo della buona fede (in tal senso Cass. n. 10826/2014), si registrano pronunce che invece hanno apertamente preso le distanze da tale referente normativo per ritenere, piuttosto, che il conflitto tra creditore pignorante e terzo acquirente della partecipazione societaria vada risolto applicando l'art. 2914 n. 1 c.c., con la conseguenza che non hanno effetto in pregiudizio del primo le alienazioni che siano state iscritte nel registro delle imprese successivamente all'iscrizione del pignoramento, senza che rilevi lo stato soggettivo di buon fede, non essendo applicabile il comma 3 dell'art. 2470 c.c. (così Cass. n. 20170/2017 secondo cui i motivi primo e secondo sono infondati perché il Collegio ritiene che la norma applicabile non sia l'art. 2470 c.c., quindi nemmeno è da discutere del rapporto tra il primo ed il comma 3 di questo. La disposizione è volta a regolare gli effetti nei confronti della società degli atti di trasferimento delle partecipazioni sociali (comma 1) ed il conflitto tra diversi acquirenti (comma 3). Essa non regola il conflitto tra il creditore pignorante ed i terzi acquirenti, né appare applicabile analogicamente a questa fattispecie. È bene prendere le mosse dall'art. 2471 c.c., in tema di espropriazione della partecipazione di s.r.l. Non rileva ai fini della presente decisione approfondire la questione, posta dalla norma, dell'individuazione del momento in cui il pignoramento si perfeziona. È qui sufficiente osservare che l'iscrizione nel registro delle imprese rende il pignoramento opponibile ai terzi. Essa costituisce perciò il dato di riferimento per dirimere il conflitto tra creditore pignorante e terzo acquirente. In linea di principio, questa conclusione non osterebbe ad un'applicazione analogica dell'art. 2470 c.c., comma 3. Per contro, va osservato, in primo luogo, che questa norma si pone come eccezionale nel regime della pubblicità, non solo immobiliare ma anche commerciale, perché combina il dato formale dell'iscrizione con lo stato soggettivo dell'iscrivente, non senza considerare che l'opinione prevalente in dottrina è nel senso che, comunque, la tutela non sia assicurata all'acquirente a non domino, malgrado l'anteriorità dell'iscrizione. La natura eccezionale dell'art. 2470 c.c., comma 3, impedisce quindi, in mancanza di apposita previsione, la sua estensione al conflitto tra il creditore pignorante e l'acquirente della partecipazione. Comunque, ed in via dirimente, va osservato che la mancanza di un'apposita disciplina che regoli gli effetti del pignoramento di quota sociale, la norma applicabile è quella specificamente posta dall'art. 2914 c.c., che regola appunto gli effetti delle alienazioni nei confronti del creditore pignorante. La fattispecie in esame non è letteralmente riconducibile ad alcuno dei numeri da 1) a 4) della disposizione. Esclusa l'applicabilità delle regole dei numeri 2) e 3), la scelta interpretativa da farsi tra i numeri 1) e 4) si basa sull'attribuzione alla partecipazione sociale della natura di bene mobile iscritto in pubblici registri ovvero di bene mobile suscettibile di «possesso» ai sensi dell'art. 2913 c.c. e del detto n. 4) dell'art. 2914 c.c. Questa seconda opzione è stata sostenuta in dottrina in forza della diversa portata attribuita al sistema della pubblicità dell'impresa rispetto alla pubblicità immobiliare, non avendo la prima la portata reale che è invece propria della seconda. L'argomento è stato fatto proprio da un precedente di questa Corte (Cass. n. 10826/2014, relativo ad un caso cui non era applicabile la riforma del diritto societario del 2003), tuttavia con le precisazioni che l'equiparazione della quota sociale ai beni mobili registrati va esclusa «quanto all'efficacia degli atti di trasferimento» (come si legge nella relativa motivazione) e però ne va esclusa anche la natura di bene mobile suscettibile di possesso, in quanto assimilabile ai beni mobili immateriali (cfr. Cass. n. 6957/2000). Orbene, avuto riguardo alla disciplina introdotta dalle disposizioni rinnovate degli artt. 2470 e 2471 c.c., le conclusioni sopra raggiunte in punto di inapplicabilità dell'art. 2914 c.c., n. 1 non convincono. Non pare infatti corretto inferire la natura del bene di che trattasi, ai fini dell'applicazione di questa norma, dagli effetti della sua pubblicità, piuttosto che prendere atto della previsione di un apposito regime pubblicitario che, di per sé, è idoneo a differenziare la partecipazione sociale dai beni mobili immateriali nonché dai beni mobili suscettibili di «possesso» ai sensi dell'art. 2913 c.c., (ritenuto operante a seguito dell'annotazione sul libro soci, nel regime previgente) ed ai sensi dell'art. 2914 c.c., n. 4, (tanto è vero che poi la stessa dottrina che ritiene applicabile questa norma finisce per attribuire rilevanza all'iscrizione dell'atto di cessione della partecipazione nel registro delle imprese, al fine di attribuire data certa ai sensi dello stesso n. 4 dell'art. 2914 c.c.). Piuttosto, si ritiene che, sebbene l'alienazione della partecipazione della s.r.l. non si «trascriva» nei pubblici registri, ma si «iscriva» nel registro delle imprese – così come d'altronde anche il pignoramento – e sebbene non vi sia dubbio che la pubblicità commerciale, quanto agli effetti traslativi, non sia equiparabile alla pubblicità immobiliare, non sussistono ostacoli significativi all'applicazione dell'art. 2914 c.c., n. 1, al fine di dirimere il conflitto tra l'acquirente della partecipazione sociale ed il creditore pignorante. In conclusione, va affermato che, in tema di pignoramento della partecipazione a società a responsabilità limitata, il conflitto tra creditore pignorante ed acquirente della partecipazione va risolto applicando l'art. 2914 c.c., n. 1, con la conseguenza che non hanno effetto in pregiudizio del primo le alienazioni che siano state iscritte nel registro delle imprese successivamente all'iscrizione del pignoramento, senza che rilevi lo stato soggettivo di buona fede, non essendo applicabile l'art. 2470 c.c., comma 3).

È interessante ripercorrere le argomentazioni di queste pronunce. In particolare, la pronuncia del 2014 si distingue per alcune puntualizzazioni sulla natura giuridica della partecipazione sociale quale indefettibile premessa per individuare il regime di opponibilità applicabile.

Nell'occasione, con riguardo ad una fattispecie anteriore alla riforma del diritto societario del 2003, la Cassazione, quanto allo specifico profilo del conflitto fra più titolari di diritti sul medesimo bene, sottolineava tuttavia il diverso regime rispetto a quello dei trasferimento immobiliare in quanto l'iscrizione «(...) è requisito necessario (nel regime attuale), ma non sufficiente, per l'opponibilità ai terzi degli atti medesimi, poiché chi per primo ha trascritto prevale sugli atti compiuti in data anteriore, ma non trascritti, solo se abbia agito in buona fede, cioè ignorando di ledere l'altrui diritto (art. 2193 c.c., comma 1 e art. 2448 c.c.). In tema di trascrizione immobiliare, per contro, colui che ha trascritto per primo prevale comunque».

Diverse, come detto, le conclusioni cui la Corte di legittimità giunge nel 2017 sulla premessa per cui, a seguito della rinnovata disciplina degli artt. 2470 e 2471 c.c. non può continuare a sostenersi l'inapplicabilità dell'art. 2914 n. 1 c.c.

La Cassazione muta prospettiva e sottolinea come il regime di opponibilità non può essere ricercato partendo dall'interrogativo in ordine alla natura giuridica della partecipazione societaria dovendosi prendere atto dell'esistenza di un espresso e specifico regime pubblicitario, idoneo a differenziare la partecipazione societaria dai beni mobili immateriali nonché dai beni mobili suscettibili di possesso ai sensi dell'art. 2913 c.c. ed ai sensi del n. 4 dell'art. 2914 c.c. (nel caso di specie una s.r.l., titolare di un diritto di credito, aveva pignorato il diritto di usufrutto del debitore e gravante sulla partecipazione sociale del 40% del capitale della stessa società. Il figlio dell'esecutato aveva perciò proposto opposizione di terzo assumendo di essere pieno proprietario della quota in quanto la proprietà pregressa della nuda proprietà si era consolidata avendo ricevuto dal padre, a seguito di cessione anteriore al pignoramento, il diritto di usufrutto insistente sulla stessa. L'opposizione era stata accolta sulla base dell'anteriorità dell'atto di cessione rispetto al pignoramento in quanto iscritto nel registro delle imprese anteriormente all'atto di pignoramento ai sensi dell'art. 2470 comma 3 c.c. La Corte d'Appello aveva rigettato il gravame e avverso tale decisione la società, creditore pignorante, ha proposto il ricorso in Cassazione deciso dalla pronuncia in oggetto).

La Corte di legittimità, con la prima pronuncia che si registra sul tema successivamente alla riforma del 2003, prendendo le mosse dalla consapevolezza della diversa funzione di pubblicità commerciale ed immobiliare afferma il principio di diritto secondo cui «in tema di pignoramento della partecipazione a società a responsabilità limitata, il conflitto tra il creditore pignorante e l'acquirente della partecipazione stessa va risolto a norma dell'art. 2914, n. 1, c.c., con la conseguenza che non hanno effetto in pregiudizio del primo le alienazioni che siano state iscritte nel registro delle imprese successivamente all'iscrizione del pignoramento, senza che rilevi lo stato soggettivo di buona fede, non essendo applicabile l'art. 2470, comma 3, c.c.».

La soluzione accolta dalla giurisprudenza di legittimità ha trovato il consenso della dottrina che ha, in particolare, condiviso la valutazione dell'eccezionalità della previsione di cui all'art. 2470 comma 3 c.c., eccezionalità che non consente estensioni analogiche ma impone, in mancanza di precise scelte del legislatore, di applicare i principi generali in punto di conflitti tra titolari di situazioni incompatibili (così Martino, 721, «i Giudici di legittimità, infatti, rilevano la eccezionalità della norma de qua nel regime della pubblicità – non solo immobiliare, ma anche commerciale – e la mancanza di una apposita previsione normativa che ne preveda l'estensione: ciò che, in ultima analisi, «impone» al giudicante di rifarsi alle ordinarie regole previste ai sensi dell'art. 2914 c.c., disciplinante gli effetti delle alienazioni nei confronti del creditore pignorante. Come si accennava, tale soluzione pare condivisibile, in quanto con l'introduzione del nuovo art. 2470 c.c., comma 3, c.c. è preferibile ritenere che il legislatore abbia operato una scelta originale rispetto ai già noti canoni di soluzione dei conflitti fra più acquirenti, sancendo un precetto che rappresenterebbe «un ibrido fra le regole del trasferimento della proprietà dei beni mobili e quelle dei mobili registrati. Com'è noto, in effetti, – prescindendo ora dal nuovo principio contenuto nella disposizione in esame – l'ordinamento giuridico conosce differenti criteri al fine di dirimere i conflitti tra più acquirenti di un medesimo bene; essi vengono poi riprodotti proprio nell'art. 2914 (nn. 1, 2 e 4), il quale, sulla base di quegli stessi criteri, risolve il contrasto fra creditore pignorante ed acquirente del bene. Il nuovo precetto, invece, vede l'affiancamento allo strumento pubblicitario – di norma utilizzato per risolvere i rapporti tra titoli aventi ad oggetto beni immobili e mobili registrati (artt. 2644 e 2684 c.c.) – del requisito soggettivo della buona fede, che – per così dire – contraddistingue la soluzione delle controversie relative alla circolazione dei beni mobili e dei titoli di credito. Per tale ragione i primi commentatori hanno qualificato la citata disposizione come innovativa del sistema di soluzione dei conflitti, la cui ratio, a mente della Relazione al d.lgs. n. 6/2003, sarebbe quella di mantenere una coerenza sistematica tra il regime di circolazione delle partecipazioni in s.r.l. e quello dei titoli di credito o degli strumenti finanziari dematerializzati. In essa si evidenzia, più in particolare, l'esito «paradossale» cui avrebbe condotto l'adozione del solo criterio della anteriorità della trascrizione (rectius la sola pubblicità presso il registro delle imprese), rilevato che l'acquirente di una partecipazione in s.r.l. avrebbe beneficiato di «una tutela persino maggiore rispetto a quella di cui gode chi acquista un titolo di credito o uno strumento finanziario dematerializzato». In verità, è stato obiettato che un paragone nei termini siffatti sia il frutto di una parziale sovrapposizione di piani operata dal legislatore, il quale ha proceduto al raffronto di due regole – effetti della trascrizione ex art. 2644 c.c. e principio del possesso di buona fede ex art. 1155 c.c. - eterogenee tra di loro e non utilmente confrontabili, atteso che le stesse rinvengono la propria differenza non tanto nella tutela («maggiore») del primo trascrivente o – rispettivamente – del secondo acquirente, quanto nella scelta di garantire o meno l'applicazione di una regola sugli acquisti a non domino. Comprendere, pertanto, se il legislatore abbia voluto prevedere una nuova fattispecie di acquisti a non domino rileva in quanto, se così fosse, la protezione dell'acquirente si estenderebbe, evidentemente, anche alla ipotesi in cui il dante causa non fosse titolare del diritto trasferito. Quale che fosse l'intenzione del legislatore, le superiori riflessioni in merito alla peculiare disciplina della norma de qua inducono a non ritenere possibile una interpretazione estensiva volta al suo impiego al rapporto tra creditore pignorante e acquirente della partecipazione. È opportuno precisare, comunque, che la formulazione dell'art. 2471 c.c. – secondo cui l'iscrizione del pignoramento nel registro delle imprese è condizione necessaria affinché esso spieghi i suoi effetti (quantomeno) nei confronti dei terzi – non osterebbe di per sé all'adozione del comma 3 dell'art. 2470 c.c., ma due ulteriori considerazioni corroborano la tesi poc'anzi propugnata in merito alla sua inapplicabilità. In primo luogo, depone in questo senso la formulazione letterale complessiva dell'art. 2470 c.c. e, in particolare, del suo comma 3. Al suo interno, infatti, il legislatore, sostituendo la generica espressione «trasferimento» contenuta nei primi due commi, adotta una specifica terminologia che allude a titoli traslativi volontari, terminologia, questa, stricto sensu difficilmente conciliabile con la vicenda pignoratizia. In secondo luogo, l'opzione risultante dal combinato disposto degli artt. 2471 e 2470, comma 3, c.c. condurrebbe ed esiti sconosciuti nel sistema, confliggenti con il principio espresso nell'art. 2914, n. 1, c.c. in tema di beni mobili iscritti in pubblici registri, per il quale l'acquirente che non abbia ancora iscritto non può essere preferito al creditore pignorante primo iscrivente dimostrando la sua conoscenza circa l'anteriorità dell'acquisto»).

L'Autore, svolgendo un'ampia ed articolata argomentazione, individua inoltre ulteriori motivi che ostano all'applicabilità del criterio di cui all'art. 2470 comma 3 c.c.: al comma 3, c.c. infatti il legislatore non utilizza più la locuzione «trasferimento» utilizzata nei commi precedenti ma parla di «alienazioni» così accedendo ad un termine che sembra piuttosto alludere a trasferimenti volontari difficilmente assimilabili alle vicende esecutive. «In secondo luogo, l'opzione risultante dal combinato disposto degli artt. 2471 e 2470, comma 3, c.c. condurrebbe ed esiti sconosciuti nel sistema, confliggenti con il principio espresso nell'art. 2914, n. 1, c.c. in tema di beni mobili iscritti in pubblici registri, per il quale l'acquirente che non abbia ancora iscritto non può essere preferito al creditore pignorante primo iscrivente dimostrando la sua conoscenza circa l'anteriorità dell'acquisto».

In senso adesivo alle argomentazioni della Corte di legittimità anche Acone, cit. ed anche Cagnasso secondo cui «come è noto, l'art. 2470, comma 3, c.c., disciplina l'ipotesi del conflitto tra più acquirenti prevedendo che, se la quota è alienata con successivi contratti a più persone, quella tra esse che per prima ha effettuato in buona fede l'iscrizione del registro delle imprese è preferita alle altre, anche se il suo titolo è di data posteriore. Pertanto, il conflitto tra più acquirenti è risolto con riferimento sia al profilo formale dell'anteriorità dell'iscrizione nel registro delle imprese, sia a quello sostanziale dello stato soggettivo di buona fede in chi richiede l'iscrizione (e quindi dell'ignoranza dell'anteriore cessione). La regola ha dato luogo a vari dubbi sulla sua opportunità: in ogni caso, come rileva la Cassazione nella sentenza in commento, «si pone come eccezionale nel regime della pubblicità, non solo immobiliare, ma anche commerciale, perché combina il dato formale dell'iscrizione con lo stato soggettivo dell'iscrivente». La natura eccezionale della regola, secondo la Suprema Corte, impedisce quindi la sua estensione ad una fattispecie differente rispetto al conflitto tra più acquirenti della stessa quota e quindi esclude che valga per quello tra pignorante e acquirente. Secondo la Cassazione in tal caso la norma applicabile è quella contenuta nell'art. 2914 c.c., che prevede appunto tale ipotesi. L'articolo ora richiamato, rubricato significativamente «alienazione anteriore al pignoramento», si riferisce a quelle di beni immobili e di beni mobili iscritti in pubblici registri (numero uno), alle cessioni di crediti (numero due), alle alienazioni di universalità di mobili (numero tre), a quelle di beni mobili di cui non sia stato trasmesso il possesso (numero quattro). Ovviamente i numeri due e tre sono estranei al caso in esame; la Cassazione esclude che la quota abbia natura di bene mobile suscettibile di possesso; pertanto ritiene che venga in considerazione il numero uno, anche se letteralmente applicato ai beni immobili e ai beni mobili iscritti in pubblici registri. Pertanto, come si legge nella massima, il conflitto tra creditore pignorante e acquirente della partecipazione va risolto con riferimento all'anteriorità dell'iscrizione nel registro delle imprese. Al di là del problema specifico affrontato dalla Cassazione, sia il Giudice di merito, sia la Suprema Corte, nelle sentenze in commento, prendono le mosse dalla qualificazione della partecipazione di s.r.l. come bene mobile immateriale. Nella prima sentenza da essa si trae la conseguenza che la quota possa essere oggetto di un contratto preliminare, nella seconda pronuncia, pur qualificandola come bene mobile, si perviene all'applicazione di una regola specificamente prevista per i beni immobili e per i beni mobili iscritti in pubblici registri. In realtà il profilo che consente tale estensione ed è comune alle due categorie di beni è da riscontrare nella soggezione a pubblicità, sia pure ai soli fini della circolazione, anche se con forme e regole differenti. Ed è proprio tale profilo che assume rilievo per la soluzione del conflitto tra acquirente e creditore pignoratizio»).

Non sono mancate tuttavia voci che, pur condividendo l'approdo esegetico tracciato dalla Cassazione hanno messo in luce alcuni limiti di tale soluzione, soprattutto con riguardo al profilo della tutela del creditore procedente (sul punto sono efficaci le notazioni critiche di Murino, cit., secondo cui «Conclusivamente, dalla mancata applicazione analogica dell'art. 2470, comma 3, c.c. la Suprema Corte fa scaturire l'irrilevanza dello stato soggettivo di buona o mala fede non solo in capo al creditore pignorante ma anche in capo al soggetto acquirente: alla luce della sentenza in discorso la mala fede dell'acquirente pertanto, rileverà se in conflitto con altro acquirente mentre non rileverà se in conflitto con un creditore pignorante. Per quanto condivisibile, tale interpretazione espone il creditore pignorante ad un rischio maggiore rispetto a quello corso nella fattispecie della doppia alienazione della quota in quando egli soccomberà nel conflitto anche se il terzo acquirente abbia sì iscritto precedentemente ma in mala fede: la mala fede del terzo acquirente non sarà, infatti, ostativa al consolidamento dell'acquisto. Resta irrisolta l'ulteriore questione posta in dottrina ed inerente al dubbio di cosa accada qualora il pignoramento non sia stato iscritto: al riguardo la dottrina chiedendosi se sarà comunque opponibile dal creditore anche all'avente causa che ne era a conoscenza, facendo così prevalere l'art. 2193 ovvero non lo sarà dovendosi privilegiare l'art. 2914, n. 1), c.c. opta per la prima alternativa in quanto l'art. 2193 regolerebbe un regime speciale di pubblicità, mentre l'art. 2914 si riferirebbe indistintamente a tutti i tipi di iscrizione nei pubblici registri. È evidente che alla luce della pronuncia in commento la tutela del creditore pignorante viene a spostarsi innanzitutto su altri rimedi civilistici quali l'azione revocatoria, l'azione di simulazione, la responsabilità civile, ecc.; oltre che sul fronte penalistico»).

L'iscrizione a ruolo del pignoramento e gli adempimenti successivi

Il regime dell'iscrizione a ruolo ha subito nel 2014 una significativa modifica (art. 18 d.l. n. 132/2014 convertito in l. n. 162/2014). Tale adempimento infatti, in passato prerogativa dell'ufficiale giudiziario è ora incombente che ricade sul creditore il quale dovrà provvedervi, per quanto riguarda il pignoramento mobiliare, entro quindici giorni dalla consegna degli originali di titolo esecutivo, precetto e verbale di pignoramento da parte dell'ufficiale giudiziario.

Il creditore perciò (art. 518 comma 6 c.p.c.) provvederà di conseguenza a depositare la nota di iscrizione con copia conforme di titolo esecutivo, precetto e verbale di pignoramento.

Non sono mancate voci della dottrina secondo cui tale adempimento spetterebbe, in via concorrente, all'ufficiale giudiziario ed al creditore (in tal senso, Casale, 815 secondo cui, sotto tale specifico profilo «(...) dopo la notifica il pignoramento deve essere iscritto nel registro delle imprese, affinché sia opponibile ai terzi. La legge non specifica a carico di chi sia l'iscrizione, da effettuarsi ora in via telematica. In analogia con quanto disposto per la trascrizione del pignoramento immobiliare (art. 555 c.p.c.) si profila una legittimazione concorrente del creditore e dell'ufficiale giudiziario, ma di fatto dovrà provvedervi il primo, essendo in pratica del tutto improbabile che la effettui il soggetto che ha eseguito la notifica»).

Va tuttavia rilevato come la specificità del pignoramento avente ad oggetto la partecipazione sociale di una quota di s.r.l., tenuto conto delle peculiarità di tale bene, non consente di mutuare in toto la disciplina dell'esecuzione mobiliare o, comunque, impone di valutarne la compatibilità così come di ricercare i necessari adattamenti tutte le volte in cui tale compatibilità non sia agevolmente rintracciabile.

Per questo, quanto allo specifico profilo dell'iscrizione a ruolo, la dottrina, all'esito della novella del 2014 e dell'inefficacia del pignoramento conseguente alla tardiva iscrizione, si è interrogata sull'individuazione del dies a quo del termine utile per la tempestiva iscrizione a ruolo nonché sulla durata di tale termine, se quello di quindici giorni previsto nel pignoramento mobiliare o quello di trenta giorni previsto per il pignoramento presso terzi.

Sul punto sono condivisibili le conclusioni della dottrina secondo cui l'iscrizione a ruolo va effettuata nel termine di quindici giorni essendo quello più lungo, previsto per il pignoramento presso terzi, un termine che trova la propria ragion d'essere nell'opportunità di assegnare uno spazio valutativo maggiore al creditore in base al comportamento del terzo.

Tale ratio non si ravvisa nell'ipotesi del pignoramento della partecipazione sociale in quanto il bene è subito identificabile, a prescindere dalla collaborazione di terzi. Ancora, «(...) sembra da escludere che il creditore debba altresì depositare, a pena di inefficacia del pignoramento, copia conforme della documentazione attestante l'avvenuta iscrizione del pignoramento di quote nel registro delle imprese, in quanto, come già precisato, detta iscrizione – a differenza della trascrizione del pignoramento immobiliare – non costituisce elemento perfezionativo del vincolo di destinazione» (così Gasperini, cit.).

La fase successiva al pignoramento

Quanto ai passaggi procedurali successivi all'iscrizione a ruolo, ancora una volta, si registra il silenzio del legislatore. Se il codice di procedura civile non dedica alcuna norma al pignoramento della partecipazione sociale, l'unico addentellato normativo del codice civile, come visto, non disciplina altri aspetti se non la notifica a debitore e società e l'iscrizione del pignoramento nel registro delle imprese.

Come per le procedure esecutive mobiliari, perciò, entro il termine di cui all'art. 497 c.p.c. dalla notifica del pignoramento, il creditore dovrà depositare l'istanza di vendita (cui sarebbe opportuno allegare un riscontro dell'avvenuta iscrizione del pignoramento nel registro delle imprese, lo statuto della società e la visura camerale anche allo scopo di conoscere eventuali privilegi nonché l'esistenza di vincoli. Si tratta di informazioni funzionali ad assolvere importanti ulteriori adempimenti processuali, tra i quali, ad esempio, la notifica dell'avvisoexart. 498 c.p.c. in favore di un eventuale creditore sequestrante).

L'articolato dibattito fin qui ricostruito sulla natura giuridica della quota di s.r.l., sull'individuazione delle modalità di aggressione esecutiva della stessa e, ancora, sull'iscrizione nel registro delle imprese del pignoramento, non esaurisce i dubbi interpretativi che si pongono in tema di pignoramento di partecipazioni sociali tenuto conto dell'assenza di referenti normativi in ordine agli adempimenti successivi all'iscrizione del pignoramento nel registro delle imprese.

In particolare, nessun accenno a tale fase è contenuto nell'art. 2471 c.c. Soccorre perciò, in quanto compatibile e utile a colmare le lacune suddette, la normativa generale in punto di pignoramento mobiliare ed adempimenti successivi nel volto ridisegnato dal legislatore del 2015 (d.l. n. 132/2014 convertito in l. n. 162/2015).

Un referente testuale alla possibilità di fare ricorso alla disciplina appena richiamata è stato rintracciato nell'art. 137 comma 2 del d.lgs. n. 30/2005 che, quanto alle modalità dell'esecuzione avente ad oggetto i diritti di proprietà industriale rinvia espressamente alla disciplina sull'esecuzione mobiliare.

Ampie argomentazioni sulla percorribilità, nei limiti dell'applicazione analogica, della disciplina dell'esecuzione mobiliare, sono state puntualizzate dalla giurisprudenza di merito (sul punto, Trib. Milano 8 ottobre 2014 secondo cui «(...) la laconica disciplina dettata in materia di espropriazione delle partecipazioni societarie lascia di per sé irrisolto il problema di quale sia la disciplina processuale applicabile a tale forma di espropriazione ed in particolare, se sia applicabile direttamente la disciplina dettata dagli artt. 513 e ss. per l'espropriazione dei beni mobili, ovvero se questa disciplina possa essere applicata solo in via analogica e salvo il limite della sua compatibilità con le caratteristiche proprie dell'espropriazione delle quote sociali; la disciplina dettata dal Capo II, Titolo II del Libro III del codice di rito civile sembra trovare al più un'applicazione solo analogica all'espropriazione delle partecipazioni sociali in virtù delle seguenti considerazioni: 1. gli artt. 513 e ss. c.p.c. presuppongono l'esistenza materiale del bene mobile oggetto dell'espropriazione come si ricava dai seguenti articoli: 513 (ricerca delle cose da pignorare), 514, 515 e 516 (tutti materiali i beni assolutamente, relativamente e in particolari circostanze impignorabili), 518 e 519 (forma e tempo del pignoramento), 520 e 521 (in materia di custodia) 523 e 524 (in materia di pignoramenti uniti e successivi); tanto considerato, siccome la disciplina dettata per le espropriazioni mobiliari riguarda le cose dotate di un substrato materiale, solo in via analogica, la relativa disciplina potrebbe essere applicabile alle partecipazioni sociali che, evidentemente, sono prive di un substrato materiale; 2. il pignoramento di quote sociali si esegue in via «documentale», mediante notifica di un atto al debitore e alla società e successiva iscrizione dell'atto di pignoramento nel registro delle imprese: tale forma di pignoramento, come osservato da autorevole dottrina, richiama da vicino la forma (pure documentale) di pignoramento dei beni immobili più che la disciplina del pignoramento dei valori mobiliari che si attua, anche nell'ipotesi di beni iscritti nei pubblici registri, nelle forme di cui all'art. 518 c.p.c. e, quindi, tramite individuazione e descrizione dei beni da pignorare da parte dell'ufficiale giudiziario; quale che sia il significato da attribuire all'iscrizione nel registro delle imprese dell'atto di pignoramento (ma analoghe incertezze esistono in ordine alla natura costitutiva o dichiarativa della trascrizione nelle espropriazioni immobiliari), deve infatti affermarsi che il pignoramento di quote sociali è una fattispecie a formazione progressiva che richiede per il suo perfezionamento tanto la notifica di un atto quanto la sua successiva iscrizione nel registro delle imprese, mentre anche con specifico riferimento ai beni mobili iscritti in pubblici registri, la trascrizione dell'atto nei detti registri non costituisce una formalità necessaria per il compimento del pignoramento (che si attua comunque nelle forme stabilite dall'art. 518 c.p.c.) e assolve all'esclusiva funzione di regolare il conflitto tra il creditore pignorante e successivi acquirenti del bene come confermato dagli artt. 2693 c.c. che richiede la trascrizione del pignoramento (già perfezionato) sui beni mobili solo agli effetti di cui agli artt. 2913 e ss. c.c.; connesso ai profili sopra richiamati e ad ulteriore riprova della spiccata originalità del pignoramento di quote sociali, inoltre, si devono menzionare, poi, proprio i profili attinenti all'opponibilità ai terzi dell'atto di pignoramento di quote sociali: se, infatti, per i beni immobili e i mobili registrati vale la regola sancita dall'art. 2914 n. 1, nell'ipotesi di pignoramento di quote sociali il conflitto tra creditore pignorante e acquirente viene risolto in favore di chi per primo iscrive l'atto, ma solo se in buona fede, come si desume dal combinato disposto degli artt. 2470, comma 3, e 2193, commi 1 e 2 del codice civile; 3. depone, ancora, nel senso dell'assoluta peculiarità della disciplina relativa ai pignoramenti di partecipazioni sociali la considerazione per cui, almeno prima della riforma del 2003, la giurisprudenza della Suprema Corte era pacifica nel ritenere che il pignoramento delle partecipazioni sociali si eseguisse nelle forme del pignoramento presso terzi (cfr.ad es. Cass. n. 859/1957; Cass. n. 1835/1962; Cass. n. 454/1964; Cass. n. 640/1984; Cass. n. 7409/1986; Cass. n. 13019/1992; Cass. n. 2926/1997), con ciò escludendo l'applicabilità della disciplina dettata in materia di espropriazione mobiliare presso il debitore al previgente art. 2480 c.c.; 4. l'analisi del sistema delle esecuzioni per espropriazione forzata nel loro complesso, inoltre, sembrerebbe portare ad una conclusione diversa da quella raggiunta da parte reclamante che dalla natura di valore mobiliare delle partecipazioni sociali vorrebbe trarne la necessità di seguire il modello dettato per l'espropriazione mobiliare diretta per la vendita dei detti beni in sede di esecuzione forzata; come evidenziato da attenta dottrina subito dopo l'entrata in vigore delle novelle del 2005 e 2006, infatti, nel ridisegnato quadro delle espropriazioni forzate, un ruolo di assoluta importanza ha assunto il custode dei beni pignorati; la dottrina che più autorevolmente si è occupata delle problematiche attinenti alla espropriazione delle partecipazioni societarie, poi, non ha mancato di sottolineare che le disposizioni normative in tema di custodia dei beni pignorati contenute negli artt. 520,546 e 559 c.p.c. evidenziano che l'esigenza della custodia deve essere soddisfatta sin dall'inizio della procedura esecutiva, contestualmente alla costituzione del vincolo di pignoramento; ebbene, proprio con riferimento a tale momento imprescindibile di ogni espropriazione forzata, si è affermato che la disciplina di cui all'art. 2471 c.c. è muta e che le norme dettate in materia di espropriazione mobiliare diretta presso il debitore (in cui è l'ufficiale giudiziario a nominare il custode a norma dell'art. 520 c.c.) non possono evidentemente sopperire a tale carenza normativa – atteso che in tale forma di espropriazione l'ufficiale giudiziario si limita a notificare l'atto di pignoramento al debitore e alla società - sicché per ragioni legate all'analogia strutturale tra pignoramento di quote e pignoramento immobiliare (trattandosi in entrambe le ipotesi di un pignoramento c.d. «documentale»), non può non ritenersi applicabile, analogicamente, la disciplina di cui all'art. 559 c.p.c.; proprio in considerazione dell'importanza del ruolo del custode e dell'analogia strutturale tra pignoramento di quote sociali e pignoramento immobiliare, parimenti caratterizzate da modalità «documentali» per la loro attuazione in quanto tanto nel pignoramento di quote quanto nel pignoramento immobiliare il vincolo si attua con la notifica di un atto e la successiva iscrizione (nel caso di pignoramento di quote) o trascrizione (nel caso di pignoramento immobiliare) in un pubblico registro, questo Tribunale in un recente arresto ha concluso nel senso che il pignoramento di quote sociali non può validamente costituirsi nelle forme del pignoramento presso terzi, nemmeno se l'atto di pignoramento risulti iscritto nel registro delle imprese; 5. un ulteriore argomento a conferma del fatto che in caso di pignoramento di partecipazioni sociali le norme dettate in materia di espropriazione mobiliare presso il debitore possono trovare applicazione, al più analogica e salvi i limiti di compatibilità, si potrebbe trarre dall'art. 553 comma 2 c.p.c. a mente del quale nell'espropriazione presso terzi – che si conclude normalmente con un provvedimento di assegnazione – se le somme dovute dal terzo sono esigibili in un termine maggiore di novanta giorni e i creditori non ne chiedono l'assegnazione, si applicano le regole stabilite per la vendita di cose mobili ai sensi degli artt. 529 e ss. c.p.c.Laddove il legislatore ha ritenuto di applicare le norme sulla vendita di beni mobili (e quindi sui diritti reali su beni mobili), anche alle ipotesi di vendita di diritti di credito, ciò ha fatto espressamente: da ciò consegue che, in mancanza di un'analoga previsione nel testo di cui all'art. 2471 c.c., ove l'interprete giungesse ad affermare l'applicabilità della disciplina dettata per le vendite di diritti reali su beni mobili, anche alle vendite delle quote sociali (la cui natura giuridica risulta estremamente controversa), ciò potrebbe affermare solo seguendo un ragionamento analogico e non ritenendo applicabile in via diretta la disciplina sull'espropriazione mobiliare presso il debitore»).

La scansione processuale prevede perciò, successivamente alla notifica del pignoramento, la restituzione degli atti al creditore procedente da parte dell'ufficiale giudiziario in modo che il creditore provveda all'iscrizione a ruolo della procedura esecutiva (nel termine perentorio di quindici giorni dalla restituzione degli atti da parte dell'ufficiale giudiziario (art. 518 comma 6 c.p.c.).

Non vi è omogeneità di vedute su plurimi passaggi procedurali.

In particolare, è dibattuta anche la necessità dell'iscrizione telematica del pignoramento di partecipazione di quota sociale. Ancora una volta l'art. 2471 c.c. è silente e ciò ha indotto parte della giurisprudenza a ritenere che l'iscrizione a ruolo del pignoramento possa eseguirsi anche in forma cartacea sulla base di argomentazioni che, partendo dalla laconicità del dato normativo, escludono l'applicazione analogica di altri istituti (così Trib. di Cuneo 16 novembre 2016, secondo cui «Rilevato che il tema della natura del pignoramento di quote sociali è a tutt'oggi assai dibattuto in dottrina e giurisprudenza, Rilevato che nel nostro ordinamento giuridico l'espropriazione di quote sociali non trova la sua regolamentazione all'interno del codice di procedura civile, bensì all'interno del codice civile, ossia, all'art. 2471 c.c. che dispone: «la partecipazione può formare oggetto di espropriazione. Il pignoramento si esegue mediante notificazione al debitore e alla società e successiva iscrizione nel registro delle imprese. L'ordinanza del giudice che dispone la vendita della partecipazione deve essere notificata alla società a cura del creditore. Se la partecipazione non è liberamente trasferibile e il creditore, il debitore e la società non si accordano sulla vendita della quota stessa, la vendita ha luogo all'incanto; ma la vendita è priva di effetto se, entro dieci giorni dall'aggiudicazione, la società presenta un altro acquirente che offra lo stesso prezzo. Le disposizioni del comma precedente si applicano anche in caso di fallimento di un socio», Rilevato che con la riforma delle procedure esecutive sono state dettate nuove disposizioni per l'iscrizione a ruolo delle stesse per via telematica, Rilevato che il d.l. n. 132/2014 (convertito in l. n. 162/2014) ha infatti profondamente riformato gli artt. 518, 543 e 557 (ed introdotto l'art. 521-bis), prevedendo in particolare che la formazione del fascicolo dell'esecuzione avvenga a cura dell'avvocato, Rilevato che è stato, altresì, aggiunto un periodo all'art. 16-bis, comma, d.l. n. 179/2012, ai sensi del quale «a decorrere dal 31 marzo 2015, il deposito nei procedimenti di espropriazione forzata della nota di iscrizione a ruolo ha luogo esclusivamente con modalità telematiche, nel rispetto della normativa anche regolamentare concernente la sottoscrizione, la trasmissione e la ricezione dei documenti informatici. Unitamente alla nota di iscrizione a ruolo sono depositati, con le medesime modalità, le copie conformi degli atti indicati dagli articoli 518, comma 6, 543, comma 4 e 557, comma 2, del c.p.c. Ai fini del presente comma, il difensore attesta la conformità delle copie agli originali, anche fuori dai casi previsti dal comma 9-bis», Rilevato che dal suddetto elenco manca l'art. 2471 c.c. (atteso che lo stesso prevede, come unico adempimento da espletare in via telematica, l'iscrizione a ruolo della procedura riferendosi a tutti i procedimenti di esecuzione forzata per poi passare ad occuparsi esclusivamente delle procedure di cui agli art. 518,543 e 557 c.p.c., senza fare menzione alcuna dell'art. 2471 c.c.), Rilevato che, stante il tenore della norma, effettuato il deposito telematico della nota di iscrizione a ruolo, la procedura dovrebbe seguire i canoni classici ante riforma e cioè il deposito «cartaceo» presso la Cancelleria dell'istanza di vendita, dell'atto di pignoramento notificato e della documentazione attestante l'avvenuta iscrizione della formalità presso il Registro delle imprese, senza necessità di alcuna attestazione di conformità e, soprattutto, senza l'obbligo di osservare i ristretti termini posti dalle norme sopra citate, per di più a pena di inefficacia del pignoramento, Rilevato che la prima parte della norma impone il deposito telematico per tutti gli atti successivi a quello con cui inizia l'esecuzione ma solo per i procedimenti di cui al libro III del c.p.c., posto che il pignoramento delle quote sociali non è regolato dal codice di rito ma solo dal codice civile, Rilevato che la giurisprudenza prevalente in passato, in epoca anteriore alla formulazione della norma in commento (e sotto il vigore dell'abrogato art. 2480 c.c.), sposava la tesi dell'applicazione della disciplina del pignoramento presso terzi immaginando la quota come diritto di credito verso la società (ex multis, v. Cass. n. 13019/1992; Cass. n. 2926/1997), non ritenendosi applicabile né la disciplina del pignoramento mobiliare, che, secondo tale giurisprudenza, presupponeva pur sempre l'esistenza di una cosa materiale da apprendere, né, ovviamente, la disciplina del pignoramento immobiliare e ritenendo che la notificazione dell'atto di pignoramento alla società avesse le funzione di consentire a quest'ultima di presenziare all'udienza al fine di riferire sulla posizione globale del debitore e sulla consistenza della sua quota, ovvero, circa l'esistenza di vincoli sulla stessa, Rilevato che tale suddetto argomento ha a tutt'oggi perso ogni fondamento dal momento che con la riforma dell'art. 543 c.p.c. è stata eliminata la citazione del terzo tra i requisiti dell'atto di pignoramento presso terzi. Rilevato che la più recente giurisprudenza ha considerato che le nuove disposizioni, introdotte con il nuovo art. 2471 c.c., siano giunte a configurare un procedimento del tatto nuovo ed estraneo al pignoramento presso terzi, da svolgersi mediante notifica al debitore e alla società di un atto complesso da iscriversi successivamente nel registro delle imprese, senza necessità alcuna di invitare la società a rendere la dichiarazione di cui all'art. 547 c.p.c. (in tal senso v. Trib. Parma 20 maggio 2013; Trib. Udine 18 febbraio 2013, entrambe pubblicate su Il Caso.it), rilevato che secondo altra recente giurisprudenza (Trib. Milano 8 ottobre 2014, rinvenibile per esteso su Il Caso.it) occorre considerare che la laconica disciplina dettata in materia di espropriazione delle partecipazioni societarie lascia di per sé irrisolto il problema di quale sia la disciplina processuale applicabile a tale forma di espropriazione ed in particolare, se sia applicabile direttamente la disciplina dettata dagli artt. 513 e ss. per l'espropriazione dei beni mobili, ovvero, se questa disciplina possa essere applicata solo in via analogica e salvo il limite della sua compatibilità con le caratteristiche proprie dell'espropriazione delle quote sociali, Rilevato che la disciplina dettata dal Capo II, Titolo II del Libro III del codice di rito civile sembra trovare al più un'applicazione solo analogica all'espropriazione delle partecipazioni sociali in virtù delle seguenti considerazioni: 1. gli artt. 513 e ss. c.p.c. presuppongono l'esistenza materiale del bene mobile oggetto dell'espropriazione come si ricava dai seguenti articoli: 513 (ricerca delle cose da pignorare), 514, 515 e 516 (tutti materiali i beni assolutamente, relativamente e in particolari circostanze impignorabili), 518 e 519 (forma e tempo del pignoramento), 520 e 521 (in materia di custodia) 523 e 524 (in materia di pignoramenti uniti e successivi); tanto considerato, siccome la disciplina dettata per le espropriazioni mobiliari riguarda le cose dotate di un substrato materiale, solo in via analogica, la relativa disciplina potrebbe essere applicabile alle partecipazioni sociali che, evidentemente, sono prive di un substrato materiale; 2. il pignoramento di quote sociali si esegue in via «documentale», mediante notifica di un atto al debitore e alla società e successiva iscrizione dell'atto di pignoramento nel registro delle imprese: tale forma di pignoramento richiama da vicino la forma (pure documentale) di pignoramento dei beni immobili più che la disciplina del pignoramento dei valori mobiliari; 3. il pignoramento di quote sociali è una fattispecie a formazione progressiva che richiede per il suo perfezionamento tanto la notifica di un atto quanto la sua successiva iscrizione nel registro delle imprese; 4. depone, ancora, nel senso dell'assoluta peculiarità della disciplina relativa ai pignoramenti di partecipazioni sociali la considerazione per cui, almeno prima della riforma del 2003, la giurisprudenza della Suprema Corte era pacifica nel ritenere che il pignoramento delle partecipazioni sociali si eseguisse nelle forme del pignoramento presso terzi, con ciò escludendo l'applicabilità della disciplina dettata in materia di espropriazione mobiliare presso il debitore al previgente art. 2480 c.c.; Rilevato che deve, dunque, ritenersi che effettivamente il pignoramento di quote sociali presenta caratteristiche sue proprie e che tali caratteristiche devono essere considerate nell'individuazione della disciplina applicabile alla vendita (o alla richiesta di assegnazione), considerando che, ove si affermi la possibilità di applicare alle vendite di quote sociali la disciplina dettata per l'espropriazione presso il debitore a tale risultato si può giungere – salvo il limite della compatibilità – solo facendo applicazione analogica della ridetta disciplina e non affermando che le regole di cui agli artt. 513 e ss. trovano diretta applicazione nel caso di pignoramento di quote sociali, rilevato che potendosi applicare la normativa sulle espropriazioni mobiliari solo per via analogica, nell'ambito dell'espropriazione di partecipazioni sociali, in forza dell'art. 14 disp. prel. c.c., non troverebbe applicazione la regola, evidentemente eccezionale, di cui all'art. 518 c.p.c. novellato in forza della quale il difensore del creditore attesta la conformità del processo verbale, del titolo esecutivo e dell'atto di precetto ai soli fini del presente articolo, rilevato che anche laddove si volesse superare il problema posto dall'art. 14 disp. prel. c.c. e si volesse comunque applicare la disciplina del pignoramento mobiliare permarrebbe il dubbio sul momento dal quale inizierebbe a decorrere il termine di quindici giorni per l'iscrizione a ruolo della procedura, ovvero, dalla notifica del pignoramento o dall'iscrizione dello stesso nel registra delle imprese, rilevato che il pignoramento si perfeziona con l'iscrizione nel registro delle imprese e non con la semplice notifica dell'atto di pignoramento, sicché non si potrebbe neppure applicare per via analogica il disposto dell'art. 557 c.p.c. per il caso in cui il creditore (e non l'ufficiale giudiziario) procede alla trascrizione del pignoramento, Rilevato che in forza di un'interpretazione rigorosamente attinente al dato letterale della legge (nello specifico dell'art. 16-bis, comma 2, d.l. n. 179/2012) sarebbe possibile il solo deposito telematico della nota di iscrizione a ruolo, del titolo esecutivo e dell'atto di precetto e dell'atto di pignoramento e dell'attestazione di conformità, rilevato che effettuato tale incombente non pare esservi molto spazio per il deposito telematico degli atti successivi quali l'istanza di vendita o la prova dell'iscrizione del pignoramento in camera di commercio; Rilevato che l'art. 2471-bis c.c. con la riforma del 2003, ha, quindi, ammesso che la quota possa essere oggetto di pegno, usufrutto o sequestro, così, sciogliendo definitivamente ogni dubbio sulla natura della quota quale cosa mobile, rilevato che per l'orientamento prevalente ora si tratti di un pignoramento «diretto» da eseguirsi secondo quanto previsto dall'art. 2471 c.c. (Cass. n. 13903/2014, Trib. Parma 24 maggio 2013 e 20 maggio 2013, Trib. Udine 18 febbraio 2013; Rilevato che manca un espresso riferimento all'art. 543 c.p.c., rilevato che non necessita l'apporto di un terzo per identificare l'oggetto del pignoramento, atteso che detta identificazione risulta dal registro delle imprese, rilevato che il pignoramento di quota societaria in oggetto avrebbe dovuto indicare (oltre ai dati relativi alle parti, al titolo esecutivo, al precetto, all'ingiunzione ex art. 492 c.p.c., la denominazione e la sede della società) anche l'indicazione specifica della partecipazione e l'ammontare nominale della quota da espropriare; Rilevato che trattandosi di un pignoramento «diretto» da iscriversi nel registro delle imprese, opinabile sarebbe anche la competenza territoriale, in quanto richiamando l'art. 2470 c.c., dovrebbe essere il Tribunale del luogo in cui si trova la sede della società; Rilevato che seguendo la disciplina generale dell'espropriazione forzata, entro 45 giorni dalla notifica del pignoramento il creditore deve poi presentare l'istanza di vendita ex art. 497 c.p.c., rilevato che, nel caso di specie, il pignoramento di quota societaria è stato effettuato con la forma del pignoramento presso terzi anziché con pignoramento mobiliare presso debitore, rilevato che, nel caso di specie, il creditore procedente non ha presentato istanza di vendita ex art. 497 c.p.c., rilevato che il creditore procedente si è limitato a respingere ex adverso istanza di rateizzazione nel termine di 36 mesi ed, in via subordinata, ad accordare alla debitrice esecutata la conversione ed il rateizzo di quanto dovuto come da precisazione del credito allegata in atti, con vittoria di spese, diritti ed onorari di procedura (....)»).

Tuttavia, come efficacemente sostenuto in dottrina, tale conclusione non convince «(...) sul primo versante, la norma afferma che l'iscrizione a ruolo telematica vale per i procedimenti di espropriazione forzata, e non per alcuni solo di essi. La previsione aggiunge poi che unitamente alla nota di iscrizione a ruolo vadano depositati taluni documenti, che vengono individuati mediante rinvio alle forme di espropriazione disciplinate dal codice di procedura civile, ma da questo non potrà trarsi la conclusione per cui, siccome non sono richiamati i documenti indicati dall'art. 2471, l'iscrizione a ruolo con modalità telematiche non si applica a quella tipologia di pignoramento. Peraltro, tra i documenti richiamati da queste norme (518, comma 6, 543 comma 4 e 557 comma 2 c.p.c.) sono presenti documenti attraverso i quali si compie anche il pignoramento di partecipazioni societarie. Da un punto di vista sistematico, l'art. 16 -bisd.l. n. 179/2012, è norma generale, da ritenersi applicabile a tutti i procedimenti esecutivi, senza che al suo interno possono ricavarsi elementi dai quali trarre la voluntas legis, o, comunque ragioni logico giuridiche, per escluderne l'applicazione con riferimento al pignoramento di partecipazioni societarie, senza che il limite posto al potere certificativo dell'avvocato per attestare la conformità all'originale degli ulteriori atti da allegare alla nota di iscrizione ai soli effetti di tale adempimento imprima alla disposizione carattere di specialità, trattandosi di un limite imposto per un'attività finalizzata all'iscrizione a ruolo» (così D'Alonzo,318).

Dubbi interpretativi si impongono inoltre anche relativamente alle conseguenze del mancato tempestivo deposito della nota di iscrizione a ruolo e delle copie conformi di titolo esecutivo precetto. Parte della dottrina propende per la soluzione per cui trattandosi di forme di estinzione tipica, e dunque eccezionali, non sarebbe consentita un'applicazione analogica al di fuori dell'ipotesi per cui sono espressamente previste.

Dalla notifica del pignoramento decorre inoltre il termine decadenziale di quarantacinque giorni previsto per il deposito dell'istanza di vendita (art. 497 c.p.c.) cui è opportuno allegare il certificato dell'avvenuta iscrizione nel registro imprese, lo statuto della società e la visura camerale (documenti funzionali ad una verifica del valore nominale della partecipazione e dell'eventuale esistenza di privilegi, art. 529 comma 3 c.p.c., o vincoli alla sua circolazione).

Ancora, sempre sulla scorta della disciplina generale del codice di procedura civile, eventuali creditori iscritti dovranno ricevere l'avvisoexart. 498 c.p.c., così come il creditore beneficiario di un sequestro conservativo o in favore del titolare di un pegno (artt. 2471-bis e 2806 c.c.).

La custodia

La recente esperienza maturata in particolare nel settore delle esecuzioni immobiliari grazie alle prassi virtuose dei tribunali che hanno anticipato la nomina di un soggetto terzo quale custode dell'immobile, fin dalla fissazione dell'udienza ex art. 569 c.p.c., ha confermato il ruolo centrale del custode nell'ottica dell'efficienza delle procedure esecutive.

Tuttavia, anche con riguardo al profilo della custodia, nel silenzio della legge, la scelta processuale nello specifico ambito dell'esecuzione di partecipazioni societarie, è stata condizionata dalla pregiudiziale soluzione in ordine alla natura della quota.

In particolare, ricostruita quale bene mobile, si è rintracciato un addentellato normativo per far luogo alla nomina del custode nell'art. 520 c.p.c. così giungendo ad affermare che la nomina spetti all'ufficiale giudiziario benché sia facoltà del creditore proporre istanza al fine di ottenere la sostituzione del debitore nella custodia (in tal senso Amendola, Acone, cit. Alla tesi che trae spunto dall'art. 520 c.p.c. si è tuttavia obiettato che la disciplina della custodia nell'esecuzione mobiliare non è del tutto compatibile con la custodia della partecipazione sociale. In particolare, non sono compatibili le disposizioni che vedono l'intervento, nell'attività di custodia, di ufficiale giudiziario o cancelliere).

Altra tesi propende invece per la nomina del custode da parte del giudice dell'esecuzione ai sensi dell'art. 65 c.p.c., con divieto di nominare custode la società (traendo spunto dal dettato dell'art. 2474 c.c.).

Infine, si è detto, non vi sono ostacoli a che il debitore conservi la custodia della quota pignorata. In particolare, nel pignoramento di partecipazioni sociali, la possibilità di porre l'onere della custodia anche in capo al debitore, non risente dei limiti posti a tale opzione nell'ambito dell'esecuzione mobiliare.

Ciò in quanto, nel pignoramento della quota sociale, a differenza del pignoramento mobiliare, lo spossessamento non costituisce il proprium, l'essenza dell'aggressione esecutiva della quota.

L'esecuzione mobiliare infatti, a differenza del pignoramento della quota sociale, si fonda sullo spossessamento del bene staggito e dunque sull'ontologica impossibilità di accollare l'onere della custodia al debitore.

Tale incompatibilità, come detto, non si ravvisa nell'ipotesi di pignoramento della quota laddove lo spossessamento non è il proprium della sua aggressione esecutiva.

Piuttosto, il pignoramento della quota sociale, al pari del pignoramento immobiliare, non si compie attraverso l'interruzione della relazione materiale del debitore col bene per cui è configurabile l'ipotesi che questi, come espressamente previsto dall'art. 555 c.p.c., sia anche custode dell'immobile pignorato, realizzandosi fin dalla notifica del pignoramento una diversa relazione di fatto tra il debitore e l'immobile pignorato (in tal senso Arieta De Santis, cit., 880).

Nel pignoramento della quota sociale, quindi, non è lo spossessamento a realizzare il vincolo pignoratizio ma, come visto, la notifica al debitore e la successiva iscrizione nel registro delle imprese in quanto il vincolo pignoratizio non ha lo scopo di sottrarre la disponibilità del bene al suo titolare quanto la disponibilità giuridica di esso.

Queste ragioni spiegano e giustificano perciò la possibilità che il debitore, titolare della quota pignorata, possa essere anche custode della stessa (in dottrina si è espresso in tal senso D' Alonzo, cit., secondo cui «la tesi da ultimo ricordata ci sembra convincente, come si osservi che la ragione in forza della quale nell'esecuzione mobiliare è l'ufficiale giudiziario a nominare il custode, si giustifica in considerazione del fatto che lì il pignoramento si perfeziona mediante apprensione diretta del bene da parte dell'ufficiale giudiziario medesimo, il quale deve subito dopo provvedere alla sua custodia, ritrovandoselo letteralmente tra le mani. La disciplina della custodia contenuta nell'art. 520 c.p.c. è cioè incentrata sul presupposto fattuale per cui l'ufficiale giudiziario deve materialmente affidare ad un soggetto i beni sottratti alla disponibilità del debitore (o del terzo), presupposto che evidentemente manca nel pignoramento di quote, così come manca nel pignoramento immobiliare». La tesi della applicabilità della disciplina sulla custodia dettata per l'esecuzione immobiliare è sostenuta anche da Soldi, 2019, secondo cui «tale seconda soluzione appare preferibile poiché, per un verso, consente l'individuazione di un custode ex lege sin dal momento della notificazione dell'atto e, per altro verso, permette al giudice di compiere un controllo diretto sulla individuazione del professionista incaricato della custodia giudiziaria. Per completezza va da ultimo precisato che tutti i provvedimenti inerenti alla custodia debbono essere iscritti nel registro delle imprese in quanto attinenti a vicende che incidono sulla legittimazione all'esercizio dei diritti sociali»).

Altro aspetto, connesso a quello della custodia della partecipazione sociale pignorata, è quello dell'individuazione del soggetto cui spetti la legittimazione all'esercizio dei diritti sociali e, segnatamente, l'esercizio del diritto di voto.

Va premesso che nelle ipotesi di pegno, usufrutto e sequestro della quota non v'è il medesimo vuoto normativo in punto di titolarità del diritto di voto.

L'art. 2471 -bis c.c. richiama l'art. 2352 c.c. espressamente dettato per le società per azioni, di talché il diritto di voto, salvo convenzione contraria, è attribuito al creditore pignoratizio o all'usufruttuario, e nel caso di sequestro delle azioni, al custode. E, ancora, «se le azioni attribuiscono un diritto di opzione, questo spetta al socio ed al medesimo sono attribuite le azioni in base ad esso sottoscritte [...] salvo che dal titolo o dal provvedimento del giudice risulti diversamente, i diritti amministrativi diversi da quelli previsti nel presente articolo spettano, nel caso di pegno o di usufrutto, sia al socio sia al creditore pignoratizio o all'usufruttuario; nel caso di sequestro sono esercitati dal custode».

I risvolti problematici di tale ennesimo vuoto normativo si riverberano sia sotto il profilo della configurabilità o meno, anche nel caso di pignoramento della quota, di una legittimazione in capo al custode, al pari di quanto avviene per il sequestro e, in secondo luogo, sotto il profilo dell'individuazione del soggetto cui spetti tale diritto quando un custode non sia stato nominato.

Piuttosto omogenee sono le conclusioni della giurisprudenza sulla legittimazione all'esercizio del diritto di voto in capo al custode nominato dal giudice dell'esecuzione.

Si è sottolineato come la qualità di socio e l'esercizio del diritto di voto si pongono su piani distinti nella consapevolezza per cui la quota costituisce un'entità dinamica di cui va preservato il valore.

Ancora, proprio riflettendo sul dato normativo che, quanto al sequestro, accorda il diritto di voto al custode, si è giunti alla conclusione per cui anche nel caso di pignoramento, l'esercizio del diritto di voto spetti al custode ove nominato dal giudice dell'esecuzione (in tal senso peraltro si muove anche un'argomentazione di carattere sistematico sulla base del disposto di cui all'art. 678 c.p.c. secondo cui le modalità di attuazione del sequestro sono le medesime del pignoramento. In dottrina, si orienta nel senso della preferibilità di tale opzione, Gasperini, cit., secondo cui «(...) se è vero che gli artt. 2352 e 2471-bis c.c. si riferiscono al sequestro tout court, disciplinando in maniera unitaria i poteri del custode indipendentemente dal fatto che si tratti di sequestro giudiziario o conservativo, l'analogia di effetti tra sequestro conservativo e pignoramento (art. 2906 c.c.) ed il collegamento teleologico tra gli stessi (art. 686 c.p.c.) inducono a ritenere che il riconoscimento della legittimazione all'esercizio dei diritti sociali in capo al custode sequestratario debba estendersi al custode di partecipazioni pignorate»).

In giurisprudenza, la Cassazione si è orientata nel senso della legittimazione del custode in una fattispecie di sequestro di quote (Cass. n. 6957/2000 secondo cui «il ricorrente critica la sentenza della Corte d'appello sotto un duplice profilo: a) perché, pur riconoscendo che l'esercizio del diritto di voto nell'assemblea che delibera l'aumento del capitale sociale supera i poteri dell'ordinaria custodia, tuttavia ha contraddittoriamente affermato che tale esercizio va regolato secondo quanto stabilito dal giudice del sequestro, mentre può votare soltanto il socio, quale soggetto su cui ricadono le conseguenze economiche della delibera; b) per aver ritenuto, quanto al voto espresso dall'usufruttuaria G., che l'art. 2352 c.c., dettato in materia di società per azioni, sia applicabile anche nell'ipotesi di usufrutto di quote di una s.r.l., mentre nulla autorizza a tale conclusione, tanto più che il voto può essere espresso soltanto dal nudo proprietario, in quanto le quote sono beni immateriali sui quali non è esercitabile alcun possesso.

La censura è infondata sotto entrambi i profili prospettati. Con riferimento al voto espresso dal custode sequestratario, la sentenza impugnata è conforme ad un pur remoto precedente di questa Corte, secondo cui il sequestro giudiziario di un titolo azionario (o, per le ragioni già indicate, di una quota) ha per oggetto i diritti inerenti, onde il giudice del sequestro legittimamente attribuisce al sequestratario il diritto di voto (Cass. n. 1483/61, contenente la precisazione che il sequestratario può anche impugnare le delibere assembleari, ove il giudice gli abbia attribuito il diritto di voto). La Corte etnea, inoltre, ha esattamente osservato che l'attribuzione del diritto di voto al sequestratario è finalizzata alla conservazione del valore patrimoniale del bene, in quanto correlata alla sua entità dinamica, con la conseguenza che spetta al custode esercitare tutti i diritti sociali nell'interesse di chi, all'esito della controversia, vedrà riconosciute le proprie pretese. L'aver precisato che l'esercizio del diritto di voto supera i poteri dell'ordinaria custodia e che va regolato secondo i criteri ed i limiti stabiliti dal giudice, non è in alcun modo contraddittorio, essendo evidente che tali criteri sono necessari proprio in ragione della «straordinarietà» della delibera adottanda: tant'è che, nel caso di specie, il giudice ha imposto al custode di votare contro l'aumento del capitale sociale perché non rispondente all'interesse della custodia, circostanza su cui la società controricorrente poggia la considerazione che, detto aumento essendo stato approvato esclusivamente con il voto degli altri soci, in ogni caso quello espresso dal sequestratario non avrebbe incidenza sulla validità della delibera.

Sotto il secondo profilo, la censura riproduce parzialmente la questione della natura della quota rispetto all'azione e, quindi, valgono le considerazioni già svolte al riguardo. Per il resto, il Collegio intende ribadire – perché del tutto condivisibili – i principi enunciati dalla sentenza di questa Corte n. 7614/1996 in tema di esercizio del diritto di voto da parte dell'usufruttuario di quote di una società a responsabilità limitata.

Se per un verso, infatti, il mancato richiamo dell'art. 2352 c.c. in sede di disciplina della s.r.l. non può costituire ostacolo, di per sé stesso, all'applicabilità analogica, ove sia ravvisabile un'identità di ratio (tant'è che non viene posta in discussione l'applicabilità alla s.r.l. di norme dettate per la s.p.a. e non richiamate espressamente, quali l'art. 2366, ultimo comma, e l'art. 2442 c.c.), per altro verso la citata sent. n. 7614/1996 ha posto esattamente in rilievo come lo stesso art. 2352 c.c. preveda la possibilità di un patto contrario, con attribuzione del diritto di voto al nudo proprietario delle azioni concesse in usufrutto, ossia indipendentemente dal possesso del titolo azionario, onde non è consentito ritenere che la scelta legislativa sia stata condizionata dal carattere cartolare della azione e non sia compatibile con un sistema in cui quel carattere faccia difetto.

Quanto al maggior rilievo dell'elemento personale nella s.r.l. (accentuato dal recepimento, ad opera del d.l. n. 88/93, della direttiva Cee 89/66 7 e con possibilità, quindi, di costituire una s.r.l. con un unico socio), è certamente vero che ciò – come è stato osservato in dottrina – introduce un elemento di divaricazione tra s.p.a. e s.r.l., ma è anche vero che non assume rilevo decisivo per non applicare in via analogica l'art. 2352 c.c., circoscrivendone l'operatività nell'ambito della s.p.a., sull'assunto – peraltro, tutto da dimostrare – che la naturale circolazione delle azioni impone un accertamento del diritto di voto improntato al possesso del titolo: soccorre ancora, al riguardo, quanto affermato da Cass. 7614/1996, secondo cui «il maggior peso dell'elemento personale potrebbe giustificare l'introduzione nello statuto della società di una clausola volta a vietare la concessione di quote in usufrutto o in pegno; ma, una volta che invece tale possibilità sia ammessa, l'accennato elemento personale non rileva in ordine al problema di chi, tra il socio e l'usufruttuario (o il creditore pignoratizio), abbia diritto al voto. Anche quest'ultimo, infatti, è titolare, rispetto alla quota, di una situazione giuridica avente carattere di realità e dunque per ciò stesso si qualifica come portatore di una posizione giuridica che lo rende partecipe, non già estraneo, alla compagine sociale». Non va taciuto, poi, che il voto inerente alla partecipazione sociale rappresenta un'estrinsecazione del diritto di usufrutto, ossia del godimento della res e, quindi, con facoltà di usarla ed amministrarla, diversamente da quanto accade per il nudo proprietario. Si deve riaffermare, pertanto, che il diritto di voto nell'assemblea della s.r.l., per le quote che siano state date in usufrutto, spetta unicamente all'usufruttuario, il quale esercita un proprio diritto e non vota, conseguentemente, in nome e per conto del proprietario; che non è obbligato, allora, ad attenersi alle istruzioni eventualmente impartitegli dallo stesso proprietario, pur dovendosi astenere da comportamenti che possano arrecare ingiusto danno a quest'ultimo; che la violazione di tale obbligo espone l'usufruttuario al rischio di cessazione dell'usufrutto ed all'azione risarcitoria, ma non si riflette sulla validità del voto espresso e, dunque, della relativa delibera, pur se quel voto sia risultato determinante»).

Il caso deciso traeva spunto da un'interessante fattispecie concreta. Veniva infatti impugnata una delibera assembleare deducendo, tra l'altro, la sua illegittimità per essere stata adottata col voto espresso dal custode della quota, oggetto di sequestro giudiziario.

La domanda è stata rigettata nei primi due gradi di giudizio, pronunce confermate in sede di legittimità riflettendo sulla natura giuridica della quota, per dedurne che pur non potendosi considerare quale bene materiale al pari dell'azione, ha un valore patrimoniale oggettivo che è dato dalla frazione patrimoniale che rappresenta (a commento della pronuncia in oggetto, la dottrina, ricostruendo il panorama interpretativo in punto di ammissibilità del sequestro giudiziario della quota, si è poi soffermata sull'opportunità di distinguere, quanto ai confini del diritto di voto in capo al custode, tra assemblea ordinaria e straordinaria ritenendo che «(...) non sia sufficiente la generica attribuzione del diritto di voto al sequestratario contenuta nel provvedimento di sequestro o in un altro successivo, ma sia necessaria un'autorizzazione specifica del giudice del sequestro per ogni singola deliberazione», così Ferri, 370).

La giurisprudenza di legittimità ha successivamente confermato quest'opzione interpretativa sempre in una fattispecie di impugnazione della delibera assembleare sul presupposto della sua illegittima adozione col voto del custode statuendo che «il sequestro preventivo penale,exart. 321 c.p.p., di quote o azioni di una società di capitali, in difetto di contraria indicazione contenuta nel provvedimento che lo dispone, priva i soci dei diritti relativi alle quote o azioni sequestrate, sicché il diritto di intervento e di voto nelle assemblee, anche in ordine all'eventuale nomina e revoca degli amministratori, spetta al custode designato in sede penale: ponendosi quello ora indicato come un effetto naturale della misura cautelare in questione, in rapporto alla sua funzione tipica di evitare che la «libera disponibilità» di una cosa pertinente al reato – e, dunque, nel caso delle azioni o quote sociali, l'esercizio dei diritti e delle facoltà ad esse inerenti, tra cui, anzitutto, i cosiddetti diritti amministrativi (o corporativi) del socio – possa aggravare o protrarre le conseguenze del reato medesimo, oppure agevolare la commissione di altri reati. L'attribuzione al custode del diritto di voto implica che soltanto a costui sia altresì riservata la legittimazione ad impugnare le deliberazioni assembleari al fine di ottenerne l'annullamento ai sensi dell'art. 2377 c.c., stante la strumentalità del diritto di impugnazione rispetto a quello di voto, quale esplicazione del medesimo inscindibile potere che si esprime nel concorrere alla formazione della volontà assembleare e nel reagire alle eventuali manifestazioni illegittime di detta volontà. Tale conclusione palesemente non si pone in contrasto con gli artt. 24 e 111 Cost., con gli artt. 6 e 17 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e con l'art. II-107 del Trattato che adotta la Costituzione europea, sotto il profilo della lesione del diritto di difesa, sia perché il sequestro penale preventivo è posto a garanzia di interessi generali costituzionalmente rilevanti, sì che la temporanea compressione dei diritti del socio da esso derivante corrisponde ad una disciplina che contempera gli opposti interessi dell'indagato e dello Stato all'attuazione della pretesa punitiva; sia perché il diritto di difesa del socio è assicurato su un piano diverso, con la possibilità di impugnare davanti al giudice penale, in sede riesame o di appello, il provvedimento cautelare o di chiedere al medesimo giudice la revisione della portata del sequestro – destinato comunque a perdere efficacia nel caso di sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere (art. 323 c.p.p.) – nonché con la possibilità di agire per far valere l'eventuale responsabilità del custode giudiziario, ove questi abbia male esercitato i poteri-doveri di gestione della partecipazione sociale sequestrata, ed ancora con la legittimazione a reagire direttamente contro le deliberazioni societarie non semplicemente annullabili, ma nulle o giuridicamente inesistenti (e come tali impugnabili da qualunque interessato), ove lesive di un proprio interesse» (così Cass. n. 21858/2005). Nella giurisprudenza di merito, su una legittimazione concorrente, quanto alla consultazione dei libri sociali in capo al socio debitore ed al creditore, si è espresso Trib. Roma Sez. spec. in materia di imprese, 31/03/2020 secondo cui «in caso di pignoramento della quota di partecipazione al capitale di una s.r.l. di cui sia titolare un socio che non partecipi all'amministrazione, la legittimazione ad esercitare il diritto di avere notizie in merito allo svolgimento degli affari sociali e di consultare, anche tramite professionisti di fiducia, i libri sociali ed i documenti relativi all'amministrazione compete, in concorso, allo stesso socio esecutato ed al creditore esecutante»).

In dottrina sono invece isolate le voci di quanti si sono espressi in senso sfavorevole all'esercizio del diritto di voto da parte del custode.

Talvolta è stata messa in luce, in senso ostativo, la tassatività delle ipotesi di deroga al principio della coincidenza tra la posizione del socio e l'esercizio del diritto di voto (in senso critico Collia, 2000, «(...) Una volta ritenuto ammissibile il sequestro giudiziario di quote di s.r.l. sussiste il problema dell'esercizio di voto nelle assemblee. Come detto in precedenza, l'orientamento prevalente in dottrina e giurisprudenza è di ritenere ammissibile il diritto di voto del custode in assemblea, rientrando nella gestione temporanea di cui all'art. 670 c.p.c. e nell'amministrazione di cui all'art. 676 c.p.c. L'ammissibilità dell'esercizio di voto da parte del custode giudiziale, peraltro, mi pare possa essere discussa. Da un esame della disciplina codicistica legislativa, mi pare di poter affermare che la deroga al principio della coincidenza tra la posizione di studio e l'esercizio del diritto di voto è limitata a casi tassativamente previsti dal legislatore. Si pensi al regolamento contenente norme di attuazione della l. n. 288/1986 sulla società M. t., approvato con deliberazione della Consob n. 2723/1989, che all'art. 18 comma 3, prevede che in caso di sequestro, legittimato ad avanzare la richiesta per l'esercizio di diritti è la persona a tal uopo designata dall'autorità giudiziaria. L'art. 2352 c.c. può, poi, prevede espressamente che il diritto di voto non venga esercitato dal socio, bensì dal creditore pignoratizio o dall'usufruttuario, facendo comunque salvi eventuali patti contrari. Alcuni processualcivilisti insegnano che: «Non sarà infine inutile ricordare che quando si parla di gestione temporanea non si intende formulare una ipotesi contrastante con la custodia. Vi sono delle cose che non si possono custodire se non gestendole ... è questa l'ipotesi della legge. In nessun caso si potrebbe vedere, nella formula della legge, una implicita autorizzazione a sfruttare la cosa oggetto della custodia ... Questo non può avvenire che con l'accordo di tutte le parti». Questo dovrebbe indurre a rivalutare l'insegnamento sul punto di Carnelutti, secondo il quale esercitando il diritto di voto si amministra la società e non le quote, mentre il sequestro ha per oggetto le quote e non la società»).

Quanto all'ipotesi di mancata nomina di un custode nella persona di un soggetto terzo, si riscontra la prevalenza dell'orientamento secondo cui l'esercizio del diritto di voto spetta al debitore, benché con qualche voce critica (in giurisprudenza, in linea con l'individuazione nel debitore del soggetto legittimato all'esercizio del diritto di voto, Trib. Milano 2 agosto 2017, secondo cui in caso di mancata nomina del custode delle quote di s.r.l. oggetto di pignoramento, ai sensi dell'art. 2471-bis c.c., il socio titolare delle quote deve ritenersi investito tacitamente del ruolo di custode e, dunque, legittimato all'esercizio del diritto di voto in assemblea.

Nello stesso senso anche Trib. di Milano 14 e 22 febbraio 2012.

Da ultimo, sempre argomentando sulla omogeneità della custodia della quota pignorata rispetto al regime dettato dall'art. 555 c.p.c. nel caso di pignoramento immobiliare, il Tribunale di Bologna si è espresso nel senso dell'esercizio del diritto di voto da parte del socio, e non già del creditore pignorante, in caso di mancata nomina di un custode terzo.

Nella pronuncia del 7 gennaio 2020, sebbene al solo fine della disamina della soccombenza virtuale essendo nel frattempo cessata la materia del contendere, il Tribunale di Bologna ha infatti escluso la validità del voto espresso dal creditore pignorante.

A tale scopo gli argomenti valorizzati dalla recente pronuncia sono il vuoto normativo in punto di esercizio del diritto di voto nell'ipotesi di pignoramento della quota a differenza delle ipotesi di pegno, usufrutto e sequestro che legittima il ricorso analogico ad altra disciplina nella premessa dell'impossibilità di lasciare la quota priva della nomina di un soggetto incaricato della sua custodia. Il Tribunale ha così individuato nell'art. 559 c.p.c. il referente normativo preferibile per integrare la disciplina di cui all'art. 2471 c.c. Ha in proposito argomentato infatti che «(...) ad avviso del Collegio, il voto espresso nel corso della assemblea dal socio D.B., in relazione alle quote in titolarità della sorella, di cui era creditore pignorante, (e non come risulta dal verbale di assemblea, pignoratizio) non è stato validamente espresso: al di là della assonanza letterale, ovvio che ben diversa è la condizione del creditore pignoratizio, che in forza della titolarità di un diritto di garanzia reale ha il possesso materiale della quota, per un tempo più o meno duraturo, rispetto al creditore pignorante, che sulla base di un titolo esecutivo di condanna ha avviato un procedimento di esecuzione forzata per espropriazione, finalizzato al realizzo in un orizzonte temporale tendenzialmente limitato: si tratta di situazioni differenti a cui corrispondono norme diverse. Il pignoramento della quota di s.r.l. trova infatti la sua disciplina all'art. 2471 c.c., che prevede si realizzi con la notifica al debitore e alla società, e la successiva iscrizione nel registro delle imprese: nulla viene detto, peraltro circa l'esercizio del diritto di voto, in caso di pignoramento, e neppure circa le forme ed i modi in cui può intervenire la nomina di un custode. Diversa è la condizione del pegno, positivamente disciplinato dall'art. 2471-bis c.c., che tramite il richiamo alla norma dettata per le s.p.a., dall'art. 2352 c.c. attribuisce il diritto di voto, quanto meno con riferimento alle delibere ordinarie, e salvo convenzione contraria, al creditore pignoratizio. La stessa norma attribuisce peraltro il diritto di voto all'usufruttuario, (escludendone quindi di regola il nudo proprietario), e al custode nominato in caso di sequestro. La lacuna normativa che si rinviene nella disciplina del pignoramento di quota sociale, deve dunque essere colmata, tramite l'applicazione analogica; vero è che la quota sociale ha caratteristiche sue proprie che ne impediscono una piena assimilazione ai beni materiali, trattandosi in effetti «di una posizione contrattuale, obbiettivata» ovvero «una complessa posizione soggettiva», nella definizione della Suprema Corte (vedi Cass. n. 22361/2009; Cass. n. 19161/2007; Cass. n. 6957/2000), e tuttavia è vero anche che le plurime norme del codice di procedura civile dettate in materia di custodia evidenziano la intenzione del legislatore di garantire in ogni caso di esecuzione forzata la possibilità di nomina di un custode, finalizzata alla conservazione di valori ancora in titolarità del debitore, e nel contempo destinati a fornire garanzia e soddisfazione dei diritti del creditore; il sistema processuale non consente alcun intervallo tra la costituzione del vincolo pignoratizio o del sequestro (vedi art. 676 c.p.c.) e l'assunzione dei doveri di custodia: è dunque inammissibile ipotizzare una situazione in cui la quota risulti priva di amministrazione; anche la dottrina conviene circa la necessaria individuazione di un custode, qualora oggetto di espropriazione sia una partecipazione societaria, salvo individuarne diversamente le modalità di nomina. Esaminando le disposizioni dettate agli artt. 521,546 e 559 c.p.c., per le diverse forme di pignoramento, pare condivisibile la opinione che ritiene quest'ultima la più adeguata ad integrare la disciplina dell'art. 2471 c.c. Il pignoramento di quota sociale in effetti si esaurisce con la mera notifica ed iscrizione nel registro delle imprese, senza che l'ufficiale giudiziario riceva beni da custodire, o assuma ulteriori compiti, diversamente da quanto accade in sede di esecuzione mobiliare: non vi è ragione, quindi, di ritenere che spetti all'ufficiale giudiziario la nomina del custode, ex art. 520 e 521 c.p.c. La società d'altro canto non è terzo pignorato, ma mera destinataria di una comunicazione che la renda edotta della sussistenza del pignoramento, e quindi non vi è neppure ragione di richiamare l'art. 546 c.p.c., che attribuisce al terzo pignorato la carica ed i compiti di custode. Dunque, l'unica norma che può offrire una soluzione equilibrata è proprio l'art. 559 c.p.c., che consente di contemperare l'interesse del debitore, e quello del creditore. Il primo, titolare dei diritti sul bene pignorato, (e quindi legittimato, in ipotesi, ad esercitare una serie di facoltà che gli consentano di conservare tale titolarità, quali, ad esempio, la conversione del pignoramento), diviene, in seguito al pignoramento, e in virtù della legge, custode del bene, mentre al creditore è consentito di prospettare al Giudice la inopportunità di tale custodia, ed ottenere di conseguenza la nomina di una persona diversa dal debitore. L'attribuzione al debitore del diritto di voto, in definitiva, consente di comprimere il diritto di proprietà solo nei limiti della necessaria tutela del creditore procedente, assicurando una interpretazione rispettosa del dettato costituzionale in materia di intangibilità del diritto reale assoluto (...) il voto spetta quindi al socio, custode della quota pignorata, anche dopo la iscrizione del pignoramento nel registro delle imprese, in tutti i casi in cui non sia intervenuta la nomina di un custode terzo». Ancora un referente normativo funzionale a sostenere la compatibilità della custodia affidata al debitore si rintraccia nell'art. 137 comma 4 del Codice della proprietà industriale in base al quale il debitore, dalla notifica del pignoramento, assume gli obblighi del sequestratario giudiziale del titolo di proprietà industriale).

Come anticipato, non sono mancate voci critiche che hanno messo in evidenza potenziali pericoli connessi all'esercizio del diritto di voto da parte del debitore in caso di mancata nomina di un custode.

In particolare, si è evidenziato, sottolineando le potenzialità pregiudizievoli di tale eventualità, che «(...) la garanzia patrimoniale generica di un debitore già soggetto ad espropriazione difficilmente può costituire una assicurazione efficace per la tutela del creditore procedente. Inoltre, nella ipotesi in cui il creditore pignorante sia un altro socio, potrebbe venir meno l'esigenza di tutela della dialettica endoassembleare posta dal richiamato indirizzo del Tribunale di Milano a fondamento dell'attribuzione del voto al debitore esecutato. Richiamando un indirizzo risalente, si può quindi proporre una diversa interpretazione, diretta a colmare la lacuna in discorso mediante l'applicazione al pignoramento delle norme sul pegno. Ove una simile tesi fosse corretta, a norma dell'art. 2352 c.c.il voto potrebbe spettare in via concorrente al creditore pignoratizio e al socio debitore esecutato. In quest'ottica si è posto il Tribunale di Roma, che in un'isolata pronuncia ha affermato che «in ipotesi di pignoramento delle azioni o quote sociali, sia il socio sia il creditore pignorante possono ritenersi legittimati ad esercitare, in concorso fra loro, l'azione di responsabilità e le azioni cautelari di revoca dell'amministratore (Trib. di Roma 27 aprile 2011). Se i diritti amministrativi, tra i quali va ricompreso l'esercizio dell'azione di revoca cautelare dell'amministratore sancito dall'art. 2476 c.c., possono spettare al creditore procedente, riuscirebbe difficile immaginarne un esercizio disgiunto, spettante cioè caso per caso al socio o al suo creditore, se non a pena di perdere ogni riferimento di sistema ed ogni efficacia nell'esercizio dei diritti non patrimoniali del socio. D'altra parte, il pegno presenta tratti marcatamente comuni al pignoramento. Difatti, a norma dell'art. 502 c.p.c. il creditore pignorante può chiedere l'assegnazione senza che il bene sia stato precedentemente sottoposto a pignoramento. Ed anzi, a norma dell'art. 2797 c.c. la vendita del bene e il soddisfacimento del creditore pignoratizio possono avvenire anche senza coinvolgere il giudice dell'esecuzione, mediante la c.d. esecuzione privata, con la quale è possibile vendere il bene soggetto alla garanzia reale a mezzo di commissionario ex art. 83 disp att. c.c. Ciò sta a significare che il bene dato in pegno è già stato attratto dalla garanzia generica ex art. 2740 c.c. alla garanzia specifica del credito azionato in sede esecutiva senza l'intervento del giudice dell'esecuzione. Pertanto, non c'è alcuna necessità di riaffermare con il pignoramento l'effetto di asservimento della pretesa creditoria, perché esso si è già verificato. L'applicazione analogica della disciplina del pegno al caso di specie risulta configurabile al pari della disciplina del sequestro e, sotto un profilo teleologico, potrebbe risultare più soddisfacente per la tutela del creditore procedente dai rischi di un esercizio di voto oltre i limiti della conservazione della garanzia imposti dall'art. 492 c.p.c. Simmetricamente, il debitore esecutato potrebbe richiedere il risarcimento del danno extracontrattuale nell'evenienza che il voto sia esercitato in violazione di norme imperative e in violazione delle disposizioni sulla custodia, con maggiore possibilità di successo: in tal caso la garanzia di tutela potrebbe essere assicurata proprio dall'aspettativa di riparto connessa all'esecuzione, che ben potrebbe essere oggetto di una controgaranzia per il debitore, il quale potrebbe soddisfare le proprie pretese risarcitorie aggredendo le somme destinate al creditore procedente nell'esecuzione» (Cesare, 2017).

Non si ravvisano posizioni omogenee neanche con riguardo all'esercizio del diritto di consultazione dei libri sociali e documenti. In una recente pronuncia di merito, il Tribunale di Roma (sez. spec. in materia di imprese, 31 marzo 2020), nell'ipotesi di pignoramento della quota, ha riconosciuto il diritto di avere notizie sullo svolgimento degli affari sociali e di consultare libri sociali e documenti al socio debitore in concorso con il creditore pignorante. Il Tribunale di Milano invece, nelle more della nomina di un custode, aveva attribuito detta facoltà al solo debitore. Nell'argomentazioni dell'ordinanza del Tribunale di Roma si sottolinea come in capo al socio debitore, la cui quota sia oggetto di espropriazione, permane il diritto di controllo sancito dal comma 2 dell'art. 2476 c.c. in quanto il suo esercizio non potrebbe, neppure in astratto, ledere le aspettative del creditore, essendo anzi strumentale all'esigenza di preservare l'integrità del patrimonio sociale sottolineando come «in caso di pignoramento delle quote di partecipazione sociale l'esercizio dei diritti amministrativi connessi alla quota trova la propria disciplina nelle disposizioni dettate dall'art. 2352 c.c., come detto richiamato dall'art. 2471-bis c.c., per l'ipotesi di sequestro delle azioni: da ciò discende la legittimazione concorrente tra soci e creditore pignoratizio all'esercizio dei diritti amministrativi connessi alla quota» (in dottrina ha espresso perplessità sulla soluzione della legittimazione concorrente, Bertolotti secondo cui «le perplessità che ne derivano giustificano l'attenzione alla diversa linea interpretativa della cui esistenza la stessa ordinanza capitolina dà conto e che trova espressione in una sent. del 9 marzo 2018 con cui il Tribunale di Milano, sulla scia di una propria consolidata giurisprudenza, ha deciso una fattispecie nella quale, a proposito di una quota di una s.r.l. assoggettata ad esecuzione, si discuteva della spettanza del diritto di voto, diritto che anche in questo caso era rivendicato dal creditore pignorante, il quale, anzi, comparso in assemblea, aveva preteso di esercitarlo. I giudici ambrosiani, preso atto che in proposito l'art. 2471 c.c., nel disciplinare l'espropriazione della partecipazione, nulla dispone a proposito di chi sia titolare dei diritti amministrativi e constatato che il successivo art. 2471-bis c.c., introdotto dalla riforma del diritto societario del 2003, «riguarda le diverse fattispecie del pegno, dell'usufrutto e del sequestro di quote», contesto nel quale soltanto opera il richiamo alle disposizioni dell'art. 2352 c.c., hanno conseguentemente escluso che queste ultime siano applicabili al pignoramento, ritenendo indebito ogni accostamento tra creditore pignoratizio e creditore pignorante, «due posizioni che vanno invece tenute nettamente distinte». Né sarebbe invocabile l'analogia: infatti «...la titolarità del diritto di voto in capo al creditore pignoratizio ed all'usufruttuario discende dalla natura dei diritti di cui sono titolari tali soggetti, cioè diritti reali – rispettivamente di garanzia e di godimento – che conferiscono al primo una situazione di possesso sulla cosa avuta in pegno (art. 2789 c.c.), con il diritto di amministrarla e di goderne – nei limiti di cui agli artt. 2790 e segg. c.c. – ed al secondo addirittura il diritto di goderne (art. 981 e ss. c.c.). Lo stesso vale per il custode della partecipazione sequestrata che, in quanto tale, esercita i diritti amministrativi pertinenti alla partecipazione (artt. 676,677, comma 3, 521,560 c.p.c.)».

Al contrario, il creditore pignorante non è titolare di simili posizioni giuridiche, né – ancora si legge nella sentenza – è ravvisabile l'eadem ratio, che, solo se sussistente, giustificherebbe un'interpretazione estensiva. Dunque, il diritto di voto – queste le conclusioni dei giudici milanesi, estensibili a quello di controllo – fa capo (o, meglio, continua a far capo) al socio esecutato (in questo senso Galgano, Diritto commerciale. Le società, XVII ed., ristampa aggiornata 2013, 217), esclusa la possibilità che si trasferisca al creditore, salva soltanto l'eventualità che questi sia nominato custode dal giudice dell'esecuzione (art. 521, comma 1, c.p.c.). In tale veste egli si troverebbe però nella condizione di non poter perseguire unicamente il proprio interesse al rapido ed integrale recupero del credito, dovendo anche esercitare «...un munus di tipo pubblico, derivante dalla nomina giudiziale, volto alla conservazione del bene anche nell'interesse del debitore»; dunque con tutti i limiti e le cautele che ciò comporta e sotto la vigilanza del giudice, la cui autorizzazione, che è condizione per «usare delle cose pignorate» (art. 521, comma 4, c.p.c.), avrebbe ad oggetto anche il voto in assemblea (in argomento Cottino, Diritto societario, cit., 309)».

Quanto al diritto di recesso, si registrano opzioni disomogenee. Secondo Cass. n. 10144/2002 «(...) un solo argomento sembra, prima facie proponibile, a sostegno della tesi che, nell'ipotesi dell'art. 2352 c.c., la legittimazione al recesso spetti al creditore pignoratizio: potrebbe, infatti, sostenersi che rispetto alle deliberazioni previste dall'art. 2437 c.c., alle quali, come ad ogni altra perché la norma non distingue, è ammesso al voto il creditore pignoratizio, dovrebbe ritenersi che la tutela della garanzia pignoratizia e il potere di operare, attraverso il voto, per la conservazione del valore delle azioni, non possano esaurirsi nella manifestazione del voto di dissenso perché questo non sarebbe sufficiente alle ragioni di tutela del creditore pignoratizio, alle quali l'attribuzione del diritto di voto è strumentale. Ma è argomento soltanto suggestivo, irrilevante e di nessun peso perché in senso contrario militano considerazioni di ordine teorico e sistematico relative sia alla ratio dell'attribuzione del voto sia alla configurazione del recesso e del relativo significato dell'esercizio del diritto, nonché il dato normativo. È vero che la norma dell'art. 2352 c.c. crea una interferenza della garanzia pignoratizia del creditore con le ragioni societarie dell'azionista debitore costituente del pegno, e tuttavia la tutela del creditore non può non essere ricercata secondo quella che viene definita la «prospettiva dominicale», ossia in coerenza con le sue ragioni di garanzia reale, all'interno del rapporto che la costituzione del pegno stabilisce tra esso creditore e il debitore e dunque nella disciplina normativa dello specifico diritto reale di garanzia, piuttosto che nelle norme e negli istituti che riguardano la partecipazione societaria del debitore. Soccorre allora, ai fini della tutela, e quale mezzo all'uopo apprestato dalla stessa disciplina codicistica del pegno, la vendita anticipata della cosa di cui all'art. 2795, cui già la Corte di merito si è riferita, – mezzo di tutela che può essere visto in parallelo con la facoltà di recesso, alla quale viene comunemente assegnata la natura di «presidio di tutela delle minoranze azionarie e delle ragioni di partecipazione del singolo alla società e delle condizioni del proprio investimento «attraverso la possibilità di recuperare il capitale investito» in presenza di quei significativi mutamenti indicati nell'art. 2437 c.c., sicché resterebbe esclusa, proprio sul fondamento di tale parallelismo di tutela attraverso mezzi rispettivamente apprestati al creditore dalla disciplina del pegno e al debitore azionista dalla disciplina societaria, che l'attribuzione del diritto di voto al creditore pignoratizio debba comportare l'attribuzione allo stesso anche del diritto o facoltà di recesso. – È altresì vero che il voto è attribuito al creditore pignoratizio nell'interesse specifico di questo in funzione di una tutela conservativa del valore patrimoniale delle azioni date in pegno, e tuttavia rileva che nella norma dell'art. 2352 c.c. non vi sia deroga alcuna alla disciplina del diritto reale di pegno qual è configurata dalle norme degli artt. 2784 e ss. c.c., sicché l'attribuzione del diritto di voto al creditore non può non coordinarsi con tale disciplina. La norma non esprime, dunque, un trasferimento della posizione societaria, in capo al creditore pignoratizio ma attribuisce a questo, con disposizione peraltro derogabile dalle parti (il che significativamente attenua la forza del termine spetta adoperato dal legislatore), il diritto di voto in funzione semplicemente conservativa della res (del valore delle azioni: in dottrina è stato giustamente osservato che l'oggetto «sostanziale» del pegno di azioni è costituito non dai diritti facenti parte o derivanti dalla partecipazione societaria o dai beni ricompresi nel patrimonio sociale bensì dal valore dei titoli dati in garanzia), donde il principio giurisprudenziale (v. per quest'ultima, la sent. n. 7614/1996 di questa Corte, in tema di usufrutto di quota, ma il principio di diritto è comune al pegno) secondo il quale il creditore esercita si un diritto proprio ma nell'esercizio dello stesso egli deve astenersi da comportamenti che possano arrecare pregiudizio al titolare delle azioni e in particolare da modi di esercizio del diritto di voto che possano compromettere la conservazione del valore economico della partecipazione societaria (le c.d. ragioni societarie essendo salvaguardate in ogni caso dalla validità del voto espresso in assemblea e dalla validità della deliberazione che l'assemblea abbia adottato con il concorso, quale che sia stato, del voto del creditore pignoratizio). L'attribuzione del diritto di voto in funzione, come si è detto, conservativa del valore delle azioni date in pegno, e degli altri diritti sociali minori (richiesta di convocazione dell'assemblea, di informativa nello svolgimento di essa, di impugnazione delle deliberazioni invalide – per quest'ultimo vedi Cass. n. 3422/1977) dei quali pure si ammette l'esercizio da parte del creditore pignoratizio, segna dunque il limite della interferenza dinanzi rilevata. Tali considerazioni di ordine sistematico, ricostruttive della fattispecie in coerenza con il dato normativo, impongono di porre in primo piano quest'ultimo, e segnatamente la norma dell'art. 2790 c.c. circa l'obbligo del creditore pignoratizio di custodire la cosa data in pegno e la sua responsabilità, secondo le regole generali, per la perdita e il deterioramento della cosa stessa. Si profila del tutto evidente l'impossibilità giuridica, sul piano normativo e sistematico, di configurare in capo al creditore pignoratizio di cui all'art. 2352 c.c. un potere di disposizione in ordine alla partecipazione societaria del suo debitore. – Il recesso di cui all'art. 2437 c.c. In nessun modo si dubita – e la Corte di merito lo ha già correttamente rilevato – che il diritto di recesso abbia un contenuto patrimoniale. Una volta esercitato, assume, infatti, quella diversa configurazione di diritto alla liquidazione delle azioni, al rimborso del valore di queste. Ma tale contenuto patrimoniale non esaurisce la natura del diritto di recesso perché questo, quale tipica e del tutto particolare (nell'ambito del vincolo sociale) situazione soggettiva attiva, funzionale alla tutela del socio dissenziente in ordine al deliberato mutamento delle originarie condizioni, si ricollega pur sempre alla partecipazione societaria lato sensu e alla complessità inscindibile della posizione che al socio deriva dalla titolarità dell'azione. Tale diritto di recesso si configura, dunque, come diritto a contenuto dispositivo, il cui aspetto patrimoniale non è limitato al credito che nasce in conseguenza del suo esercizio, ma investe l'intera, complessa, situazione soggettiva derivante dalla partecipazione societaria. L'esercizio del recesso è dunque atto di disposizione e in quanto tale, non può non restare in capo al socio, come atto che naturalmente rientra nelle sue facoltà in ordine alla partecipazione societaria, anche allorché il socio medesimo abbia costituito in pegno le azioni delle quali sia titolare. In tal senso può anche parlarsi di «personalizzazione» (nel senso, appunto, che resti comunque riservata al socio) della facoltà o diritto di recesso. I limiti normativi delle attribuzioni del creditore pignoratizio, quali emergono dalle norme degli artt. 2352,2790 c.c., e il significato e le conseguenze societarie dell'esercizio della facoltà di recesso ex art. 2437 c.c. si pongono dunque di ostacolo a ritenere che la costituzione del diritto di pegno sulle azioni implichi il trasferimento in capo al creditore pignoratizio della disponibilità della partecipazione societaria del suo debitore e, a monte, delle scelte in ordine alla stessa (mantenere o non il vincolo associativo in presenza dei deliberati mutamenti dell'oggetto sociale o del tipo societario etc., in relazione alle ragioni e alle valutazioni relative all'investimento del suo capitale). Concorda sul punto la dottrina, anche quella che la norma dell'art. 2352 c.c. ricostruisce nella prospettiva societaria, piuttosto che nell'ottica della garanzia pignoratizia, e considera che «l'attribuzione al creditore sarebbe in contrasto con il divieto di uso della cosa, non necessario alla sua conservazione (art. 2792 c.c.), norma questa che è derogata dall'art. 2352 soltanto per il diritto di voto, ferma la non estensibilità al diverso atto di disposizione del bene, qual è il recesso» (ciò indipendentemente dalle ragioni che, sul piano strettamente esegetico nonché su quello della ricostruzione logico-sistematica, altra dottrina ricava dall'aver la norma stessa dell'art. 2352 c.c. mantenuto in capo al debitore pignoratizio la titolarità del diritto di opzione, ossia il «diritto di decidere in ordine alle modifiche quantitative» della propria partecipazione societaria)»).

Si condivide l'opzione fatta propria dalla recente dottrina secondo cui anche tale diritto spetta al custode e non già al socio debitore (in termini D'Alonzo che ha acutamente argomentato nel senso che «(...) la bontà di questo ragionamento veniva ricavata nella natura dispositiva, e dunque non strettamente amministrativa, del diritto di recesso (in questo senso, anche dopo la riforma, Zanardone). Proprio la natura dispositiva del recesso, espone tuttavia questo assunto ad una obiezione di fondo, rappresentata dal fatto che l'esercizio del diritto di recesso, quale atto dispositivo concretizzandosi, sostanzialmente, nella perdita della quota, è inopponibile al creditore pignorante, ai sensi dell'art. 1193 c.c. Ne vale replicare che in caso di recesso non vi sarebbe pregiudizio alcuno per la procedura, atteso che alla custodia andrebbe riconosciuto il corrispettivo della liquidazione. La tesi, invero, prova troppo, in quanto così argomentando potrebbe dirsi che il debitore può alienare la cosa pignorata perché comunque il vincolo pignoratizio si trasferirebbe sul prezzo. Senza poi considerare che l'atto dispositivo (ed identicamente il recesso) muterebbero la natura dell'oggetto del pignoramento, trasformando la res in un diritto di credito (da esercitarsi, peraltro, nei confronti di un soggetto diverso dal debitore esecutato). La conclusione, allora, non potrà che essere quella di escludere la possibilità che il socio eserciti il diritto di recesso, dovendosi al contrario riconoscere questa facoltà al custode, laddove esso appaia funzionale alla conservazione della garanzia patrimoniale, e cioè nei casi in cui la società abbia posto in essere operazioni di svuotamento del valore della quota (trasformazione eterogenea della s.r.l. in fondazione associazione, fusione per incorporazione senza concambio, in cui le quote dell'incorporata sono parzialmente soggette a pignoramento, ecc..)».

La stima delle quote

Prima di procedere alla vendita delle quote pignorate, pur nel silenzio del legislatore, appare preferibile ritenere che si debba procedere alla stima delle partecipazioni pignorate. Costituisce infatti espressione di una regola generale la necessità di salvaguardare e presidiare anche l'interesse del debitore a non vedere svenduto il bene pignorato (argomenti testuali in questa direzione possono rintracciarsi nell'art. 586 c.p.c.).

Quanto alle modalità di nomina dell'esperto, giuramento di questi e deposito della relazione di stima, possono mutuarsi i passaggi procedurali in materia di esecuzione immobiliare e descritti dagli artt. 569 comma 1 c.p.c. e 173 -bis disp. att. c.p.c., norme che delineano peraltro un sistema piuttosto agile e snello, teso a favorire il pieno contraddittorio in via prodromica, con uno scambio di eventuali note critiche anteriormente all'udienza fissata per l'autorizzazione della vendita (cfr. Gasperini, cit., 2322, «(...) anche nell'espropriazione di partecipazioni sociali, dunque, il giudice potrà procedere alla nomina dell'esperto stimatore convocandolo davanti a sé per la prestazione del giuramento, assegnandoli un termine per il deposito della relazione con scadenza anteriore all'udienza fissata per la vendita, assegnando altresì alle parti un termine successivo, con scadenza pur sempre anteriore all'udienza, per l'eventuale anticipazione al perito delle eventuali note alla relazione da depositarsi all'udienza stessa. Da parte sua, l'esperto dovrà predisporre la relazione di stima nei tempi stabiliti, dando conto anche delle caratteristiche e dei vincoli gravanti sulle partecipazioni, sulla base sia della documentazione allegata all'istanza di vendita dal creditore procedente, sia dell'ulteriore documentazione che si renda necessaria, e che lo stesso esperto potrà richiedere agli organi amministrativi della società»).

L'esperto nominato potrebbe acquisire elementi conoscitivi con la collaborazione informativa della società e, in mancanza di collaborazione invece, assumendo informazioni presso il registro delle imprese.

La vendita e la delega: cenni

Esaurita la fase della stima della quota pignorata, all'udienza di cui all'art. 535 c.p.c. viene disposta la vendita delle quote. Quanto alle modalità di tale vendita, alcuni autori hanno ritenuto percorribile soltanto il sistema dell'incanto. In particolare, ciò è stato motivato sulla base della considerazione per cui il giudice dell'esecuzione deve ordinare la cancellazione delle formalità pregiudizievoli e anche sulla base di un argomento testuale, l'art. 2471 c.c. che indica nel caso di vendita della quota non liberamente trasferibile la modalità dell'incanto, argomento letterale da cui si fa discendere la considerazione per cui la modalità con incanto sarebbe quella preferibile anche quando la vendita abbia ad oggetto quote liberamente trasferibili.

Tuttavia, nel novellato quadro normativo all'esito del d.l. n. 132/2014 convertito con modificazioni in l. n. 162/2014, è noto come il sistema delle vendite sia ora caratterizzato da una netta preferenza per la vendita senza incanto, considerata modello maggiormente affidabile rispetto all'incanto.

Come noto, nella vendita senza incanto l'aggiudicazione è definitiva non lasciando spazio alla possibilità di ulteriori ed eventuali offerte in aumento. Come ha sostenuto recentemente qualche autore, non vi sono ragioni né di carattere testuale né di carattere sistematico per ritenere che vi sia un ostacolo alla praticabilità della vendita senza incanto delle quote (così D'Alonzo secondo cui «(...) forse tuttavia l'assunto oggi deve essere rimeditato alla luce dell'art. 503 c.p.c., come riscritto dal d.l. n. 132/2014, convertito, con modificazioni con l. n. 162/2014, secondo la quale l'incanto può essere disposto solo quando il giudice ritiene probabile che la vendita con tale modalità abbia luogo ad un prezzo superiore della metà rispetto al valore di stima del bene. Questo principio (ribadito gli articoli 569,591 c.p.c. a proposito della vendita immobiliare) costituisce l'espressione della forte preferenza, accordata dal legislatore, al sistema della vendita senza incanto, in ragione della maggiore affidabilità di questo modello procedimentale rispetto all'incanto. A tale considerazione di carattere generale, deve poi aggiungersi il rilievo che l'espressione incanto utilizzato dall'art. 2471, comma 3 c.c. non sembra essere utilizzata dal legislatore nella sua accezione tecnica, poiché nessun elemento logico giuridico induce a ritenere che la vendita con il sistema dell'incanto debba essere preferita a quella senza incanto, né vi sono altrettante ragioni logico giuridiche che ostacolano la praticabilità della vendita senza incanto delle quote. Non mancano del resto all'interno del codice civile plurime ipotesi nelle quali, benché il legislatore parli di incanto, si ritiene pacificamente utilizzabile anche il senza incanto (si pensi all'art. 376, dove il termine incanto viene utilizzato quale alternativa alla trattativa privata, agli articoli 719 720 a proposito della vendita dei beni ereditari, all'art. 1506 a proposito di riscatto di parte indivisa, all'art. 1515 a proposito della vendita coattiva per inadempimento del compratore, all'art. 2466 a proposito della vendita della quota del socio moroso, all'art. 2646 a proposito della trascrizione delle divisioni, all'art. 2727 a proposito della vendita delle cose date in pegno, all'art. 2862 a proposito degli effetti dell'ipoteca contro il terzo acquirente, agli artt. 2893, 2895 e 2897 a proposito della vendita della cosa ipotecata).

La vendita delle partecipazioni non liberamente trasferibili

Il tema della vendita della quota non liberamente trasferibile cui è sotteso il difficile equilibrio di cui si è detto in premessa tra le ragioni del creditore e l'ostilità della società a fronte del subingresso di un terzo, è stato efficacemente risolto dal legislatore con la previsione di cui all'art. 2471 comma 3 c.c. secondo cui «se la partecipazione non è liberamente trasferibile e il creditore, il debitore e la società non si accordano sulla vendita della quota stessa, la vendita ha luogo all'incanto; ma la vendita è priva di effetto se, entro dieci giorni dall'aggiudicazione, la società presenta un altro acquirente che offra lo stesso prezzo».

Va detto in premessa che la fonte di eventuali vincoli alla libera trasferibilità della quota può discendere solo dallo statuto e non da patti parasociali essendo solo lo statuto opponibile in quanto conoscibile attraverso il registro delle imprese.

Quanto al contenuto delle clausole che possono ascriversi nel novero di quelle che impediscono la libera trasferibilità della quota, si è registrata un'evoluzione interpretativa.

In esordio infatti la giurisprudenza distingueva tra clausole poste a tutela degli interessi della società e clausole poste a tutela degli interessi dei soci uti singuli (così Cass. n. 3482/1991 secondo cui il meccanismo di tutela dell'art. 2471 comma 3 c.c. troverebbe applicazione solo nell'ipotesi di clausola di gradimento e non a fronte di una clausola di prelazione. «Le disposizioni del comma 3 dell'art. 2480 c.c. – che, in forza di quanto stabilito dal successivo comma della stessa norma, operano anche in caso di fallimento del socio e che, nell'ipotesi di quota di partecipazione di questi a società a responsabilità limitata, prevedono da un lato, la vendita all'incanto della quota stessa, solo se il creditore, il debitore e la società non si accordano diversamente, e, dall'altro lato l'inefficacia di tale vendita, qualora entro dieci giorni dall'aggiudicazione la società presenti altro acquirente che offra lo stesso prezzo – presuppongono che le limitazioni alla libera disponibilità della quota esproprianda siano poste nell'interesse della società (come quelle conseguenti alla previsione statutaria della clausola di gradimento, posta a tutela dell'«intuitus personae»), con la conseguenza che risultano inapplicabili in presenza di limitazioni poste nello interesse dei soci, come quelle conseguenti all'operatività di clausole statutarie attributive di diritti di prelazione in favore di taluno dei soci medesimi o di tutti, in proporzione delle rispettive quote»).

La distinzione descritta è stata tuttavia superata dalla Corte di legittimità con successive pronunce (Cass. n. 691/2005 «in tema di espropriazione forzata di quote di società a responsabilità limitata, le disposizioni dell'art. 2480, commi terzo (per il quale «se la quota non è liberamente trasferibile e il creditore, il debitore e la società non si accordano sulla vendita della quota stessa, la vendita ha luogo all'incanto; ma la vendita è priva di effetto se, entro dieci giorni dall'aggiudicazione, la società presenta un altro acquirente che offra lo stesso prezzo») e quarto (che estende le disposizioni del terzo alla vendita delle quote del socio fallito) c.c., si applicano anche allorché la non libera trasferibilità delle quote derivi dall'esistenza di clausola statutaria di prelazione» Cass. n. 15605/2005 ed anche, successivamente Cass. n. 11493/2010) che hanno superato la dicotomia tra clausole dettate nell'interesse della società e clausole dettate nell'interesse dei soci per giungere alla conclusione secondo cui il meccanismo operativo dell'art. 2471 comma 3 e 4 c.c. si applica a tutte le clausole che prevedano una limitazione della libera trasferibilità della quota (così anche Cass. n. 5493/2008 «in tema di espropriazione forzata di quote di società a responsabilità limitata non liberamente trasferibili, qualora, pur in presenza di una clausola statutaria di previsione della necessità del consenso del consiglio di amministrazione per il trasferimento delle quote, la facoltà di designare un altro acquirente in sostituzione dell'aggiudicatario sia stata esercitata dal presidente del consiglio di amministrazione, quale legale rappresentante della società, senza una conforme deliberazione di detto consiglio, la relativa questione non è deducibile con l'opposizione agli atti esecutivi da parte dell'aggiudicatario, neppure se questi sia socio della società (come nella specie), poiché, concernendo una violazione di norme attinenti alla formazione della volontà sociale, non integra una questione afferente alla validità della rappresentanza in giudizio della società ai fini della dichiarazione di designazione e, quindi, all'atto processuale di designazione», nella giurisprudenza di merito sul carattere non ostativo della clausola di prelazione, Trib. Chieti 6 luglio 2018 secondo cui «anche le quote di una società personale la cui circolazione sia limitata dall'attribuzione di un diritto di prelazione in favore dei singoli soci possono essere oggetto di espropriazione forzata da parte dei creditori particolari dei singoli soci anche prima dello scioglimento della società o del singolo rapporto sociale»).

A ben guardare, l'evoluzione interpretativa rispetto alla citata pronuncia del 1991 non è nel senso di smentire del tutto la necessità che si tratti di clausole funzionali a soddisfare l'interesse della società ma, piuttosto, nel senso di ritenere che anche le clausole che sanciscono diritti di prelazione soddisfano un interesse della società, cfr. in motivazione Cass. n. 691/2005 cit. «(...) né, d'altro canto, può affermarsi che le clausole dì prelazione siano poste solo in funzione di un interesse dei soci, essendo invece innegabile che, in quanto dirette ad assicurare l'omogeneità della compagine sociale, tali clausole siano destinate ad operare (anche) nell'interesse comune dei soci e, quindi, di un interesse che trascende quello, individuale, di ciascuno di essi». Il Collegio fa proprie dette ultime considerazioni, che del resto si riallacciano anche ad ulteriori precedenti di questa Corte, in cui è riconosciuto il carattere sociale dell'interesse (organizzativo) sotteso alla clausola statutaria di prelazione (v. Cass. n. 7859/1993, n. 7614/1996, n. 12012/1998)».

Non vi sono invece riscontri giurisprudenziali quanto alla diversa ipotesi di esclusione in radice della possibilità di trasferire la quota sociale. Sul punto appare condivisibile la soluzione secondo cui «(...) appare preferibile la tesi dell'espropriabilità non condividendosi l'idea che un soggetto possa autonomamente e convenzionalmente sottrarre un bene del proprio patrimonio, alle legittime pretese ed aspettative dei suoi creditori, ancorché vi sia adeguata pubblicità del vincolo. L'art. 2740, comma 2, c.c. attribuisce esclusivamente alla legge statutaria l'individuazione delle ipotesi limitative della responsabilità patrimoniale. Ma si deve trattare di una legge che espressamente ed in via principale ponga la limitazione, non potendosi far riferimento surrettiziamente alla pattuizione convenzionale che pure è per implicito prevista dalla legge che autorizza l'autonomia statutaria. In definitiva, l'ambito applicativo dell'art. 2471, comma 3, c.c. deve essere ulteriormente circoscritto (già si è visto che le clausole limitative del trasferimento devono essere opponibili al creditore pignorante) alle clausole parzialmente limitative e non totalmente limitative della libera circolazione delle partecipazioni», così Rossi, cit.).

Come emerge dal dettato dell'art. 2471 comma 3 c.c., la vendita coattiva è subordinata al mancato raggiungimento dell'intesa. Secondo qualche autore (Rossi, cit.) si tratta di una vera e propria condizione di procedibilità. La stessa vendita coattiva tuttavia potrebbe non avere carattere definitivo essendo consentita alla società, la possibilità di presentare un altro acquirente che offra il medesimo prezzo.

La prima modalità operativa che viene in rilievo è quindi la possibilità che le parti raggiungano un accordo sulla vendita (Rossi, 2010, cit., «in realtà, l'accordo è tra il creditore (o più creditori), il debitore (o più debitori comproprietari della quota) e la società, e non coinvolge il potenziale acquirente. Non è, quindi, un accordo volto al trasferimento della quota, ma, verosimilmente, ad evitarlo o a ridurne gli effetti negativi per la società, che vuole mantenere il controllo della sua compagine attraverso il gradimento dei soci entranti. Può svolgersi sia al di fuori della procedura esecutiva, nel senso che le parti arrivano all'udienza di cui all'art. 530 c.p.c. (o all'udienza di cui all'art. 547 c.p.c. per chi ritiene praticabile l'espropriazione presso terzi) con l'accordo concluso, nel qual caso probabilmente il giudice dell'esecuzione si limita a prendere atto dell'accordo e, nel caso in cui sia pervenuta la rinuncia alla procedura, ne dichiarerà l'estinzione, altrimenti provvederà all'aggiudicazione a favore dell'acquirente designato, incamererà il prezzo necessario al successivo riparto, e porterà a termine la procedura esecutiva. Il sindacato del giudice può riguardare solo il presupposto di applicazione della norma e cioè se vi sia effettivamente una clausola di gradimento opponibile al creditore, ma non può spingersi al contenuto dell'accordo a meno che non sia illecito. L'accordo più frequentemente si formerà all'interno della procedura esecutiva, all'udienza di cui all'art. 530 c.p.c., deputata all'interlocuzione delle parti sull'assegnazione, sul tempo e modalità della vendita, ovvero all'udienza dell'art. 547 c.p.c., per le dichiarazioni del terzo. L'accordo può avere ad oggetto le modalità della vendita, il prezzo e soprattutto il nome dell'acquirente. Si tratta, è bene ribadirlo, di una vendita giudiziale, con tutte le conseguenze in ordine alle pronunce accessorie del giudice (cancellazione delle formalità pregiudizievoli, ordine di annotazione dell'acquirente nel libro soci etc.) e con tutti i provvedimenti successivi per la continuazione della procedura (riparto, distribuzione del ricavato etc.)».

Quanto alla necessità che tale accordo sia recepito da un provvedimento del giudice, gli interpreti hanno suggerito soluzioni diverse: secondo alcuni tale vendita concordata, mantenendo il proprio carattere di vendita giudiziale, dovrebbe essere recepita da un provvedimento del giudice da cui solo discenderebbe l'effetto traslativo (si è espressa nel senso della qualificazione dell'accordo alla stregua di atto che esula dall'area dell'autonomia negoziale, Gasperini, cit., 2330, secondo cui «(...) l'eventuale vendita concordata si configura non già come vendita negoziale, soggetta alla disciplina dei contratti di diritto privato, bensì come vendita giudiziaria, sia pure conformata dall'accordo intercorso tra creditore, debitore e società, essendo pur sempre il giudice, con proprio provvedimento, a disporre la vendita delle partecipazioni tenendo conto del contenuto dell'accordo in esame»).

Secondo altri, l'accordo potrebbe essere raggiunto anche al di fuori del processo esecutivo e pertanto solo sottoposto al giudice dell'esecuzione per una ratifica. Ad ogni modo, non sembra si possa prescindere dalla necessità di sottoporre l'accordo al giudice dell'esecuzione sì da consentirgli la declaratoria di estinzione del processo esecutivo.

Come detto, quando non si raggiunga un accordo si farà luogo alla liquidazione coattiva della quota disponendone la vendita all'incanto.

Anche qui tuttavia un ulteriore presidio a tutela dell'interesse della società a non subire il subingresso di terzi è rappresentato dalla possibilità che nel termine di 10 giorni dall'aggiudicazione la società presenti un nuovo acquirente disposto a versare il medesimo prezzo.

Quanto all'individuazione dell'organo sociale legittimato a presentare il nuovo acquirente viene indicato nell'amministratore della società (in dottrina si è tuttavia segnalata l'insufficienza di un meccanismo che assegni tale prerogativa alla società o agli amministratori mettendo piuttosto in evidenza l'opportunità che tali organi si limitino a veicolare la volontà dei singoli soci. Sul punto Gasperini, cit., 134, secondo cui «(...) in definitiva, la società e per essa i suoi amministratori, essendo investiti di un ruolo di coordinamento, sarebbero tenuti ad attenersi alla volontà dei singoli soci (quanto meno nel caso di clausola di prelazione a loro diretto favore). Il procedimento, dunque, dovrebbe svolgersi come segue: i soci dovrebbero comunicare agli amministratori la loro intenzione di esercitare i rispettivi diritti di prelazione e questi ultimi dovrebbero procedere alla formale «presentazione», depositando nel fascicolo dell'esecuzione l'elenco dei soci richiedenti unito alle loro formali dichiarazioni di volontà di acquistare. In definitiva, l'esercizio del diritto di prelazione da parte dei soci previsto statutariamente, verrebbe mediato attraverso l'intervento della società e per essa dei suoi amministratori, ai quali spetterebbero poteri meramente esecutivi, non decisionali»).

Eventuali profili patologici quanto alla formazione della volontà della società ed al potere di rappresentanza dell'amministratore possono essere fatti valere soltanto dalla società (così Cass. n. 315/1980 secondo cui «in tema di espropriazione forzata di quote di società a responsabilità limitata non liberamente trasferibili, qualora la facoltà di designare un altro acquirente in sostituzione dello aggiudicatario, appartenente, in difetto di apposita clausola statutaria, all'assemblea dei soci, sia stata esercitata dallo amministratore senza una conforme delibera assembleare, la legittimazione a far valere l'invalidità dell'atto spetta soltanto alla società stessa trattandosi della violazione di norme attinenti alla formazione della volontà della società, dettate nell'esclusivo interesse della medesima». Più recentemente anche Cass. n. 5493/2008 secondo cui «quando l'art. 2480 c.c., comma 3, (ma non diverse considerazioni potrebbero farsi per l'attuale art. 2471 c.c.) attribuisce alla società, in presenza di clausola statutaria di non libera trasferibilità della quale, il diritto potestativo di risolvere l'aggiudicazione presentando un diverso acquirente e, quindi, un diritto da farsi valere nel processo esecutivo (per il caso di mancanza di accordo sulla vendita della quota), è certamente indubbio che (a parte il controllo sull'esistenza della clausola di limitazione alla trasferibilità della qualora nei termini appena indicati) l'atto di esercizio di tale diritto, cioè la dichiarazione di volersi avvalere della norma e la connessa dipendente indicazione dell'acquirente, in quanto atti che vengono in rilievo direttamente nel processo esecutivo, come tutti gli atti del processo esecutivo sono soggetti (sempre nei limiti di cui si è detto) sia al potere di controllo d'ufficio del giudice dell'esecuzione, sia, sussistendone l'interesse, a quello dei soggetti che sono coinvolti nel processo stesso. Sotto tale secondo profilo lo sono, qualora il controllo preventivo non abbia sortito effetto, con il rimedio dell'art. 617 c.p.c., come accaduto nella specie. L'uno e l'altro controllo, tuttavia, si debbono riferire all'atto stesso di esercizio del diritto potestativo come atto del processo esecutivo e non a quelli che, sul piano sostanziale, in vista della formazione della volontà del soggetto di porre in essere l'atto, possono essere le regole statutariamente previste per tale formazione. Questa conclusione discende dal rilievo che nel processo in genere assume lo stare in giudizio della parte. Per la persona giuridica l'art. 75, comma 3, dispone che essa sta in giudizio per mezzo di chi la rappresenta a norma di legge o dello statuto e, corrispondentemente, quando l'art. 182 c.p.c., comma 2, prevede che il giudice, ove rilevi un difetto di rappresentanza, di assistenza o di autorizzazione possa assegnare un termine per la costituzione della persona alla quale spetta la rappresentanza o l'assistenza o per il rilascio della necessaria autorizzazione a stare in giudizio (ferme le decadenze eventualmente verificatesi), allude ad un'attività di regolarizzazione che concerne lo stare in giudizio della parte e, quindi, nel caso della persona giuridica allo stare in giudizio tramite il legale rappresentante nei termini di cui al comma 3 dell'art. 75. Non certo l'art. 182 c.p.c., allude ad un'attività di regolarizzazione afferente al piano della formazione della volontà sostanziale dell'ente, come vorrebbe il ricorrente. Con riferimento a quel particolare atto processuale che nell'ambito del processo esecutivo volto all'espropriazione coattiva della quota di s.r.l., è previsto dall'art. 2480 c.c., comma 3, l'art. 75, comma 3, e l'art. 182, comma 2, consentono allora il controllo da parte del giudice e, quindi, del giudice dell'esecuzione, della provenienza della dichiarazione di presentazione di un altro acquirente da parte del legale rappresentante della società. E, corrispondentemente, in termini analoghi si configura il potere di rilevazione della violazione dell'art. 75, comma 3, dei soggetti che siano parte del processo esecutivo (e, quindi, dell'aggiudicatario). Ne consegue che di fronte all'inosservanza di tale norma ed al mancato riconoscimento della sua violazione, il rimedio dell'art. 617 c.p.c., può avere per oggetto soltanto la deduzione della mancanza di potere di rappresentanza. Ove, pertanto, la dichiarazione sia fatta da soggetto che abbia la rappresentanza della società, la questione della conformità di tale dichiarazione a quanto prevede la clausola statutaria in punto di formazione della volontà di esercizio del c.d. gradimento, come nella specie la deliberazione di avvalersi di esso da parte di un certo organo della società (quale il consiglio di amministrazione), non è questione che ridonda sulla validità dell'atto processuale di dichiarazione nel processo esecutivo e su cui possa estrinsecarsi il controllo del giudice dell'esecuzione. Essa appartiene alla sfera della formazione della volontà della società sul doversi fare la dichiarazione di presentazione. Si tratta di questione che semmai potrà essere dedotta dai soggetti interessati e segnatamente dai soci con le forme di tutela interne alla compagine sociale e con i mezzi di tutela giurisdizionale previsti contro le deliberazioni ed i comportamenti degli organi sociali illegittimi (nel caso di specie il ricorrente avrebbe potuto, in vista di un'azione di merito diretta ad accertare la mancanza di deliberazione del consiglio di amministrazione, sollecitare l'inibizione in via di tutela innominata d'urgenza del presidente di quel consiglio a procedere alla dichiarazione: il che esclude che il ricorrente non avesse prospettive di tutela al di fuori di quella esercitata). Ma essa non può trovare ingresso nel processo esecutivo né per il tramite del potere di controllo della legittimità degli atti affidato al giudice dell'esecuzione e dei poteri di sollecitazione attribuiti ai soggetti coinvolti nel processo esecutivo e, quindi, se del caso tramite il rimedio dell'opposizione agli atti. E ciò, in guisa non diversa da come in un processo di cognizione in cui sia parte una società persona giuridica il giudice d'ufficio non può procedere e la controparte non può pretendere che il controllo dell'esistenza del potere rappresentativo dell'organo che ha la legale rappresentanza della società si spinga ad accertare se quell'organo, cui effettivamente competa di rappresentare la società abbia agito o resistito sulla base di una decisione presa dall'organo cui spetti, in relazione all'affare controverso, di assumere le decisioni su di esso. Ciò che può essere controllato è solo se in capo all'organo che ha agito o resistito sussista il potere di rappresentare in giudizio l'ente. Se si ritenesse altrimenti, ogni processo nel quale agisca o sia convenuta una persona giuridica (ma non diverso discorso potrebbe farsi per ogni ipotesi di rappresentanza od assistenza) potrebbe vedere innestarsi nella contesa una sorta di giudizio preliminare, volto a stabilire se alla capacità di agire o di resistere in giudizio da parte del soggetto che ha agito o resistito quale legale rappresentante della persona giuridica e che del potere di rappresentanza sia titolare, faccia riscontro la formazione della volontà di agire o resistere in giudizio della persona giuridica nei modi previsti dalla legge o dallo statuto. In questi termini sembra da giustificare la soluzione cui a suo tempo pervenne Cass. n. 3715/1980. Né a diverse conclusioni nella specie potrebbe pervenirsi per il fatto che la posizione di aggiudicatario e, quindi, di soggetto inciso dall'esercizio del diritto potestativo di dichiarazione di presentazione, sia un socio: la posizione che viene in rilievo nel processo esecutivo è quella di aggiudicatario e la circostanza che costui sia socio è del tutto indifferente all'interno di quel processo. Essa andava tutelata in altro modo, cioè facendola valere al di fuori del processo esecutivo nei confronti della società, sia in via preventiva (per eventualmente ottenere, come si è detto, l'inibizione della dichiarazione), sia in via successiva, cioè mediante sollecitazione di una deliberazione, per poi poterla impugnare, sia ancora mediante una successiva azione risarcitoria del socio nei confronti del presidente del consiglio di amministrazione (art. 2395 c.c.; azione che nella specie avrebbe potuto esercitare un aggiudicatario anche terzo), sia, eventualmente (ma lo si rileva del tutto ipoteticamente), attraverso il far valere l'esistenza verso i designati della prelazione come stabilita a favore di tutti i soci e, quindi, anche del qui ricorrente. Il secondo motivo dev'essere, dunque, rigettato, dovendosi ritenere che il Tribunale abbia bene operato sulla base del seguente principio di diritto: «In tema di espropriazione forzata di quote di società a responsabilità limitata non liberamente trasferibili, qualora, pur in presenza di una clausola statutaria di previsione della necessità del consenso del consiglio di amministrazione per il trasferimento delle quote, la facoltà di designare un altro acquirente in sostituzione dell'aggiudicatario sia stata esercitata dal presidente del consiglio di amministrazione, quale legale rappresentante della società, senza una conforme deliberazione del consiglio di amministrazione, la relativa questione non è deducibile da parte dell'aggiudicatario con l'opposizione agli esecutivi, poiché, concernendo una violazione di norme attinenti alla formazione della volontà della società, non integra una questione afferente alla validità della rappresentanza in giudizio della società ai fini della dichiarazione di designazione e, quindi, all'atto processuale di designazione. Né tale regola soffre eccezione nell'ipotesi in cui il soggetto aggiudicatario sia un socio della società»).

È verosimile la necessità di fissare un termine entro cui il terzo presentatore dell'offerta debba versare il saldo prezzo. Nell'ipotesi di inadempimento secondo una prima opzione si dovrebbe far luogo ad una nuova vendita, secondo altra invece si consoliderebbe l'aggiudicazione disposta all'esito della vendita coattiva già espletata anche sulla base di ragioni di economia processuale.

Il trasferimento della quota e l'iscrizione nel registro delle imprese

Intervenuta la vendita della partecipazione sociale insorgono ulteriori due problematiche rispetto alle quali, ancora una volta, il dato normativo è silente: quella dell'individuazione del momento traslativo in capo all'aggiudicatario della quota e quella dell'individuazione del provvedimento utile e funzionale ad iscrivere il trasferimento nel registro delle imprese. Naturalmente, ancora una volta, ci troviamo di fronte ad interrogativi che hanno una notevole ricaduta pratica. Si pensi, quanto all'individuazione del momento traslativo, all'incidenza che la risposta a tale quesito può rivestire sotto il profilo dell'individuazione del soggetto legittimato all'esercizio dei diritti sociali.

Quanto al primo profilo, il contrasto interpretativo nasce per il fatto che il momento traslativo conseguente alla vendita coattiva viene individuato, per le esecuzioni mobiliari, nel momento del pagamento del saldo prezzo e per le esecuzioni immobiliari, al momento del deposito del decreto di trasferimento. Quanto alle partecipazioni societarie, gli interpreti sono giunti alla conclusione di ritenere inapplicabile il disposto dell'art. 586 c.p.c. così reputando sufficiente il pagamento del prezzo ai fini dell'individuazione del momento traslativo della quota (in particolare, l'originalità del decreto di trasferimento connessa alla natura del bene pignorato quale fattore ostativo alla possibilità di mutuare detto provvedimento in ambito di trasferimento di quote all'esito di una vendita coattiva, è stata sottolineata in dottrina mettendo in evidenza come il decreto di trasferimento è un atto tipico dell'esecuzione immobiliare, caratterizzato da un contenuto peculiare che mal si concilia con il pignoramento delle partecipazioni sociali).

Si è tuttavia, condivisibilmente ritenuto utile individuare un provvedimento del giudice dell'esecuzione o del professionista delegato da spendere quale titolo funzionale alla successiva iscrizione del trasferimento della quota in favore dell'aggiudicatario (nessun dubbio sussiste infatti sulla circostanza per cui nonostante l'art. 2471 c.c. faccia espresso riferimento soltanto all'iscrizione del pignoramento della quota nel registro delle imprese, anche il successivo trasferimento forzato deve essere iscritto nel registro delle imprese in linea con quanto previsto per i trasferimenti in sede negoziale aventi ad oggetto le partecipazioni dall'art. 2470 c.c.).

Tale atto, quanto alla vendita con incanto, è rappresentato dal verbale delle operazioni di vendita, e nell'ipotesi di vendita tramite commissionario, dal certificato di cui all'art. 533 c.p.c., e, infine, nell'ipotesi della vendita senza incanto, dal provvedimento con cui il professionista delegato o il giudice dell'esecuzione diano atto dell'avvenuto versamento del saldo prezzo.

L'assegnazione

Il tema dell'assegnazione delle quote di partecipazione risente oggi dell'infelice novellato disposto dell'art. 538 comma 2 c.p.c. Tale norma prevedeva la possibilità che i beni rimasti invenduti potessero essere assegnati al creditore che ne facesse istanza. L'eliminazione di tale testuale possibilità ha condotto taluni interpreti a ritenere che l'assegnazione sia oggi percorribile soltanto quando avente ad oggetto beni in oro e argento, art. 539 c.p.c. o titoli di credito, art. 529 comma 2 c.p.c.

Prima di affrontare lo scenario interpretativo successivo alla novella del 2006 è utile rimarcare che in passato, la giurisprudenza di legittimità occupatasi dell'ammissibilità dell'assegnazione nell'ambito del pignoramento di quote sociali era giunta ad una soluzione positiva (Cass. n. 9577/1997 in Giur. comm., fasc. 5, 1999, 531 con nota di Rossi).

A tali conclusioni si giungeva essenzialmente sulla base della considerazione per cui l'assegnazione riveste la stessa funzione della vendita coattiva nella soddisfazione delle pretese creditorie.

D'altra parte, conseguendo anche all'assegnazione un trasferimento coattivo, si giustifica e spiega l'apprestamento di idonei percorsi processuali a presidio delle ragioni del debitore.

Né, nel vigore del previgente art. 2480 c.c., il riferimento unicamente alla vendita, poteva ritenersi circoscritto a tale forma di liquidazione del patrimonio del debitore, stante, come detto, la portata generale dell'assegnazione (si pronuncia in termini di ammissibilità all'assegnazione a carattere satisfattivo nonché alla c.d. assegnazione – vendita, Cass. n. 9577/1997. In dottrina, ha sostenuto la pari dignità di vendita ed assegnazione come strumenti espropriativi in senso stretto, Rossi, cit., secondo cui «(...) appare piuttosto preminente, in una prospettiva teleologica del processo espropriativo, considerare la vendita e l'assegnazione come strumenti espropriativi in senso stretto, ugualmente diretti alla soddisfazione delle pretese azionate, che si presentano al creditore procedente in concorso elettivo tra loro. A fronte di queste notazioni, carattere non ostativo riveste il dato letterale del comma 3 dell'art. 2480 c.c.: il riferimento alla «vendita all'incanto», oltre ad escludere il ricorso a differenti modalità (a mezzo commissionario ovvero in base ad offerte private), agevolmente si spiega tenendo conto delle scansioni procedurali della esecuzione mobiliare presso terzi, in cui un primo incanto di vendita (rectius, l'infruttuoso esperimento di esso) rappresenta il presupposto indefettibile per la proposizione di istanze di assegnazione». In commento alla pronuncia ed in senso favorevole all'applicazione generalizzata dell'istituto dell'assegnazione, Rossi, cit. secondo cui «(...) in via generale, va osservato come la legislazione vigente disciplini in modo compiuto ed unitario l'istituto dell'assegnazione, estendendo ad esso, per quanto non espressamente disposto, le regole stabilite per la vendita forzata, in virtù del richiamo contenuto nell'art. 2925 c.c. Per effetto di questa equiparazione normativamente sancita, l'assegnazione costituisce uno strumento espropriativo collocato in una posizione di «pari dignità» rispetto alla vendita forzata. Peraltro, le peculiarità dell'assegnazione, che si concreta in un trasferimento coattivo dei beni pignorati ad un creditore, giustificano la predisposizione di meccanismi procedurali finalizzati ad attribuire un valore adeguato alle res staggite, salvaguardando così le ragioni debitorie e gli interessi dei creditori non assegnatari, ed evitando ingiuste locupletazioni per il creditore assegnatario. Ciò premesso, in tema di partecipazioni sociali la cui circolazione non sia subordinata a limiti o vincoli, la illustrata portata generale dell'istituto dell'assegnazione e la generica locuzione «vendita» contenuta nella formulazione del comma 2 dell'art. 2480 c.c. consentono un'interpretazione estensiva della disposizione citata, tale da includere anche la diretta attribuzione del compendio pignorato ai creditori. Presuppone implicitamente risolta la questione in senso affermativo la prima decisione riportata, Cass. n. 9577/1997, in cui si riconosce ammissibile, quale atto esecutivo finale, l'assegnazione, a carattere satisfattivo o nelle forme della c.d. assegnazione-vendita, delle quote staggite ai creditori. Qualche difficoltà ermeneutica si riscontra invece nell'ipotesi di quote non liberamente trasferibili. La opinione negativa si fonda sulla specificità del dettato normativo, ed in particolare sul riferimento alla vendita all'incanto contenuto nell'art. 2480, comma 3, c.c., sul differente tenore testuale rispetto al capoverso precedente e sulla asserita «necessità di non frustrare, mediante un diverso modo di cessione forzata, la facoltà della società, terzo pignorato, di offrire a pari condizioni un acquirente di proprio gradimento». Appare piuttosto preminente, in una prospettiva teleologica del processo espropriativo, considerare la vendita e l'assegnazione come strumenti espropriativi in senso stretto, ugualmente diretti alla soddisfazione delle pretese azionate, che si presentano al creditore procedente in concorso elettivo tra loro. A fronte di queste notazioni, carattere non ostativo riveste il dato letterale del comma 3 dell'art. 2480 c.c.: il riferimento alla «vendita all'incanto», oltre ad escludere il ricorso a differenti modalità (a mezzo commissionario ovvero in base ad offerte private), agevolmente si spiega tenendo conto delle scansioni procedurali della esecuzione mobiliare presso terzi, in cui un primo incanto di vendita (rectius, l'infruttuoso esperimento di esso) rappresenta il presupposto indefettibile per la proposizione di istanze di assegnazione. Va dunque ritenuta ammissibile l'assegnazione di quote non liberamente trasferibili di una s.r.l., da effettuarsi, nell'osservanza dei principi generali in tema di esecuzione mobiliare presso terzi evincibili dal codice di rito, per un valore pari a quello di stima, determinato ai sensi dell'art. 535, comma 2, c.p.c., o, concorrendo più creditori, contro il versamento di una somma di denaro non inferiore alle spese di esecuzione e ai crediti aventi diritto di prelazione anteriore a quello dell'assegnatario. Argomentando dalla equiparazione funzionale tra vendita forzata e assegnazione, analoghe forme di trasferimento coattivo del diritto, accede alla soluzione positiva anche la seconda decisione in esame (Cass. n. 2926/1997), relativa, peraltro, ad un procedimento in cui, a quanto emerge dalla lettura della sentenza, l'assegnazione era stata disposta immediatamente dopo la dichiarazione positiva resa dal terzo»).

Sempre sulla base dell'assimilazione di vendita e assegnazione quali strumenti preordinati con pari dignità a tale risultato anche Cass. n. 2926/1997.

All'indomani della novella del 2006, si sono perciò consolidati due orientamenti: uno secondo cui il nuovo dettato normativo dovrebbe portare a ritenere l'inapplicabilità dell'assegnazione nel caso in cui i beni rimangono invenduti all'esito di un primo incanto, l'altro, secondo cui nonostante l'infelice intervento normativo, sarebbe tutt'oggi percorribile la possibilità e l'ammissibilità dell'istanza di assegnazione dopo il primo incanto andato deserto, costituendo l'assegnazione l'espressione di un principio generale del processo esecutivo e comunque funzionale a garantire una conclusione satisfattiva dello stesso (recentemente, è stato sottolineato come tale conclusione rintraccia un addentellato normativo nell'art. 164-bis disp. att. c.p.c. come riscritto dal d.l. n. 132/2014, D'Alonzo, cit., «in un sistema normativo di tal fatta, dinanzi alla concreta possibilità che la procedura si concluda per il creditore non solo con un nulla di fatto, ma addirittura con l'inutile esborso dei costi che essa ha comportato, l'istituto dell'assegnazione consente invero di recuperare all'esecuzione forzata quella sua capacità di assicurare una, seppure residuale, tutela del diritto di credito, diritto nel quale riposa la sua primordiale ragion d'essere»).

Quanto al panorama giurisprudenziale, in sede di merito si registrano tesi contrastanti: da un lato quella ancorata alla lettera del nuovo dato normativo e dunque contraria all'ammissibilità dell'assegnazione (Trib. di Roma 5 febbraio 2015) e, dall'altro, la tesi dell'ammissibilità dell'istanza di assegnazione nonostante il novellato disposto dell'art. 538 c.p.c. (Trib. di Milano 8 ottobre 2014).

Le argomentazioni della tesi dell'ammissibilità sono interessanti e meritano di essere ripercorse. La pronuncia infatti si inoltra anzitutto in una approfondita disamina delle ragioni sistematiche per cui il pignoramento di partecipazione sociale è solo in parte sovrapponibile al pignoramento mobiliare presentando, rispetto ad esso, degli indubbi profili di originalità (in particolare, si sottolinea come «(...) 1. gli artt. 513 e ss. c.p.c. presuppongono l'esistenza materiale del bene mobile oggetto dell'espropriazione come si ricava dai seguenti articoli: 513 (ricerca delle cose da pignorare), 514, 515 e 516 (tutti materiali i beni assolutamente, relativamente e in particolari circostanze impignorabili), 518 e 519 (forma e tempo del pignoramento), 520 e 521 (in materia di custodia) 523 e 524 (in materia di pignoramenti uniti e successivi); tanto considerato, siccome la disciplina dettata per le espropriazioni mobiliari riguarda le cose dotate di un substrato materiale, solo in via analogica, la relativa disciplina potrebbe essere applicabile alle partecipazioni sociali che, evidentemente, sono prive di un substrato materiale; 2. il pignoramento di quote sociali si esegue in via «documentale», mediante notifica di un atto al debitore e alla società e successiva iscrizione dell'atto di pignoramento nel registro delle imprese: tale forma di pignoramento, come osservato da autorevole dottrina, richiama da vicino la forma (pure documentale) di pignoramento dei beni immobili più che la disciplina del pignoramento dei valori mobiliari che si attua, anche nell'ipotesi di beni iscritti nei pubblici registri, nelle forme di cui all'art. 518 c.p.c. e, quindi, tramite individuazione e descrizione dei beni da pignorare da parte dell'ufficiale giudiziario; quale che sia il significato da attribuire all'iscrizione nel registro delle imprese dell'atto di pignoramento (ma analoghe incertezze esistono in ordine alla natura costitutiva o dichiarativa della trascrizione nelle espropriazioni immobiliari), deve infatti affermarsi che il pignoramento di quote sociali è una fattispecie a formazione progressiva che richiede per il suo perfezionamento tanto la notifica di un atto quanto la sua successiva iscrizione nel registro delle imprese, mentre anche con specifico riferimento ai beni mobili iscritti in pubblici registri, la trascrizione dell'atto nei detti registri non costituisce una formalità necessaria per il compimento del pignoramento (che si attua comunque nelle forme stabilite dall'art. 518 c.p.c.) e assolve all'esclusiva funzione di regolare il conflitto tra il creditore pignorante e successivi acquirenti del bene come confermato dagli artt. 2693 c.c. che richiede la trascrizione del pignoramento (già perfezionato) sui beni mobili solo agli effetti di cui agli artt. 2913 e ss. c.c.; connesso ai profili sopra richiamati e ad ulteriore riprova della spiccata originalità del pignoramento di quote sociali, inoltre, si devono menzionare, poi, proprio i profili attinenti all'opponibilità ai terzi dell'atto di pignoramento di quote sociali: se, infatti, per i beni immobili e i mobili registrati vale la regola sancita dall'art. 2914 n. 1, nell'ipotesi di pignoramento di quote sociali il conflitto tra creditore pignorante e acquirente viene risolto in favore di chi per primo iscrive l'atto, ma solo se in buona fede, come si desume dal combinato disposto degli artt. 2470, comma 3, e 2193, commi 1 e 2 del codice civile; 3. depone, ancora, nel senso dell'assoluta peculiarità della disciplina relativa ai pignoramenti di partecipazioni sociali la considerazione per cui, almeno prima della riforma del 2003, la giurisprudenza della Suprema Corte era pacifica nel ritenere che il pignoramento delle partecipazioni sociali si eseguisse nelle forme del pignoramento presso terzi (cfr. ad es. Cass. n. 859/1957; Cass. n. 1835/1962; Cass. n. 454/1964; Cass. n. 640/1984; Cass. n. 7409/1986; Cass. n. 13019/1992; Cass. n. 2926/1997), con ciò escludendo l'applicabilità della disciplina dettata in materia di espropriazione mobiliare presso il debitore al previgente art. 2480 c.c.; 4. l'analisi del sistema delle esecuzioni per espropriazione forzata nel loro complesso, inoltre, sembrerebbe portare ad una conclusione diversa da quella raggiunta da parte reclamante che dalla natura di valore mobiliare delle partecipazioni sociali vorrebbe trarne la necessità di seguire il modello dettato per l'espropriazione mobiliare diretta per la vendita dei detti beni in sede di esecuzione forzata; come evidenziato da attenta dottrina subito dopo l'entrata in vigore delle novelle del 2005 e 2006, infatti, nel ridisegnato quadro delle espropriazioni forzate, un ruolo di assoluta importanza ha assunto il custode dei beni pignorati).

Premessa quindi la peculiarità del pignoramento avente ad oggetto la partecipazione sociale, con riguardo allo specifico profilo dell'assegnazione, il Tribunale di Milano intraprende la propria riflessione ponendo l'accento sul fatto che l'assegnazione è un istituto a beneficio anche del debitore e sottolinea come l'impianto normativo proprio del processo esecutivo delinei l'istituto dell'assegnazione quale istituto di portata generale e non eccezionale. D'altronde, anche a voler accedere alla tesi secondo cui il nuovo disposto dell'art. 538 c.p.c. avrebbe escluso l'assegnazione nell'ambito del pignoramento mobiliare, trattandosi di norma eccezionale, non potrebbe trovare applicazione in via analogica nella diversa ipotesi del pignoramento della partecipazione sociale ai sensi dell'art. 14 disp. prel. c.c. (conclusioni che inducono perciò il Tribunale di Milano, cit. a ritenere che «(...) di conseguenza nulla osta a che, nelle procedure per espropriazione delle partecipazioni sociali, in applicazione (questa volta necessariamente diretta a norma dell'art. 12 prel. c.c.) delle norme sull'espropriazione in generale, le partecipazioni siano assegnate ai creditori istanti»).

Recentemente, il tema dell'assegnazione della quota pignorata è stato oggetto di una pronuncia della Corte di legittimità (Cass. n. 15596/2019). Nel corso dell'esecuzione forzata avente ad oggetto la quota sociale (prima oggetto di sequestro conservativo, successivamente convertito in pignoramento), dopo plurimi tentativi di vendita la quota rimaneva invenduta. Il creditore pignorante, nel caso di specie la curatela fallimentare, presentava perciò istanza di assegnazione che veniva accolta dal giudice dell'esecuzione.

L'ordinanza del giudice dell'esecuzione veniva tuttavia impugnata con un'opposizione agli atti esecutivi a fronte della quale il giudice dell'esecuzione sospendeva la pregressa ordinanza di assegnazione.

Successivamente, introdotta la fase di merito, l'opposizione agli atti esecutivi si concludeva con il rigetto della domanda sulla base della considerazione per cui il disposto dell'art. 538 c.p.c. non vieterebbe l'assegnazione, in favore del creditore istante, della quota societaria rimasta invenduta. D'altro canto, l'assegnazione, al pari della vendita forzata è funzionale a garantire e rendere effettiva la garanzia patrimoniale ai sensi dell'art. 2740 c.c. Avverso tale pronuncia veniva perciò proposto ricorso per Cassazione. Le conclusioni cui approda la Corte di legittimità trovano fondamento nella funzione propria del processo esecutivo, teso alla soddisfazione del creditore «l'istituto dell'assegnazione forzata non è stato affatto espunto dall'ordinamento per effetto della modifica dell'art. 538 c.p.c., né l'applicazione di esso è limitata alle sole ipotesi dell'espropriazione di titoli di credito, merci quotate, oro o gioielli. Stabilisce l'art. 505 c.p.c. che «il creditore pignorante può chiedere l'assegnazione dei beni pignorati, nei limiti e secondo le regole contenute nei capi seguenti». Che la previsione contenuta in tale norma costituisca un istituto generale, teoricamente suscettibile di applicazione in qualsiasi tipo di esecuzione, è conclusione desumibile da due considerazioni. La prima è la collocazione sistematica della norma appena trascritta. Essa compare nel Capo I, Titolo II, Libro III, del codice di rito, dedicato per l'appunto alla «espropriazione forzata in generale». Una collocazione che non avrebbe avuto senso, se il legislatore avesse davvero voluto, nell'ambito dell'espropriazione mobiliare, perimetrare l'istituto alle sole ipotesi in cui ad essere espropriati siano titoli di credito, oro e gioielli. La seconda considerazione è che un fitto reticolo di norme generali sull'espropriazione forzata richiama l'istituto dell'assegnazione, senza limiti di sorta» (la Corte di legittimità individua pertanto un catalogo di norme che presuppongono il carattere generale dell'assegnazione nell'ambito del processo esecutivo: 1. l'art. 492 c.p.c. sulla forma del pignoramento che prescrive l'avvertimento al debitore sull'inammissibilità dell'opposizione quando proposta dopo la vendita o l'assegnazione; 2. l'art. 495 c.p.c. che, ancora una volta, individua, quale sbarramento temporale per l'utile proposizione dell'istanza di conversione, proprio il momento in cui sia disposta la vendita o l'assegnazione; 3. l'art. 497 c.p.c. che pone sempre vendita ed assegnazione quali limiti temporali di efficacia del pignoramento; 4. l'art. 501 c.p.c. secondo cui l'istanza di assegnazione dei beni pignorati non può essere proposta se non decorsi dieci giorni dal pignoramento, «tranne che per le cose deteriorabili, delle quali può essere disposta l'assegnazione o la vendita immediata»: norma, quest'ultima evidentemente priva di senso, se davvero l'assegnazione fosse consentita solo nell'espropriazione di immobili, titoli di credito, oro ed argento, giacché nessuna di tali cose costituisce una «merce deperibile»; 5. l'art. 502 c.p.c. in materia di assegnazione o vendita del pegno; 6. L'art. 534-bis c.p.c. che rinvia espressamente alla disciplina sull'assegnazione. Così in motivazione: «L'istituto dell'assegnazione forzata non è stato affatto espunto dall'ordinamento per effetto della modifica dell'art. 538 c.p.c., né l'applicazione di esso è limitata alle sole ipotesi dell'espropriazione di titoli di credito, merci quotate, oro o gioielli. Stabilisce l'art. 505 c.p.c. che «il creditore pignorante può chiedere l'assegnazione dei beni pignorati, nei limiti e secondo le regole contenute nei capi seguenti». Che la previsione contenuta in tale norma costituisca un istituto generale, teoricamente suscettibile di applicazione in qualsiasi tipo di esecuzione, è conclusione desumibile da due considerazioni. La prima è la collocazione sistematica della norma appena trascritta. Essa compare nel Capo I, Titolo II, Libro III, del codice di rito, dedicato per l'appunto alla «espropriazioneforzata in generale». Una collocazione che non avrebbe avuto senso, se il legislatore avesse davvero voluto, nell'ambito dell'espropriazione mobiliare, perimetrare l'istituto alle sole ipotesi in cui ad essere espropriati siano titoli di credito, oro e gioielli. La seconda considerazione è che un fitto reticolo di norme generali sull'espropriazione forzata richiama l'istituto dell'assegnazione, senza limiti di sorta. In particolare: a) l'art. 492 c.p.c. («forma del pignoramento») prescrive che il pignoramento «deve contenere l'avvertimento che, a norma dell'art. 615, comma 2, terzo periodo, l'opposizione è inammissibile se è proposta dopo che è stata disposta la vendita o l'assegnazione»; b) l'art. 495 c.p.c. («Conversione del pignoramento») dispone che «prima che sia disposta la vendita o l'assegnazione a norma degli artt. 530, 552 e 569, il debitore può chiedere di sostituire ecc.»; c) l'art. 497 c.p.c. («cessazione dell'efficacia del pignoramento») stabilisce che il pignoramento perda efficacia «quando dal suo compimento sono trascorsi quarantacinque giorni senza che sia stata chiesta l'assegnazione o la vendita»; d) l'art. 501 c.p.c. («termine dilatorio del pignoramento») stabilisce che l'istanza di assegnazione dei beni pignorati non può essere proposta se non decorsi dieci giorni dal pignoramento, «tranne che per le cose deteriorabili, delle quali può essere disposta l'assegnazione o la vendita immediata»: norma, quest'ultima evidentemente priva di senso, se davvero l'assegnazione fosse consentita solo nell'espropriazione di immobili, titoli di credito, oro e argento, giacché nessuna di tali cose costituisce una «merce deperibile»; e) l'art. 502 c.p.c. «termine per l'assegnazione o la vendita del pegno»), stabilisce che nel caso di espropriazione delle cose date in pegno si seguono le regole del codice, ma l'assegnazione «può essere chiesta senza che sia stata preceduta da pignoramento»;). f) l'art. 534-bis c.p.c., nel disciplinare la delega delle operazioni di vendita mobiliare, rinvia espressamente alle disposizioni dell'art. 591-bis c.p.c., dove è stabilito che il professionista delegato alla vendita immobiliare provveda anche sulla istanza di assegnazione di cui all'art. 590 c.p.c.: e la relatio tra queste due norme non avrebbe senso, se davvero l'istanza di assegnazione del bene mobile rimasto invenduto non fosse ammissibile nell'espropriazione mobiliare. Le prime cinque delle sei norme appena ricordate, inoltre, sono inserite nel Capo dedicato «all'espropriazione forzata in generale». Esse, per la loro collocazione e per il loro contenuto, sono incompatibili con l'opinione che vorrebbe, nell'espropriazione mobiliare, limitare l'istituto dell'assegnazione alle sole ipotesi previste dagli artt. 529 e 539 c.p.c. Ciò posto in generale, occorre chiedersi se la conclusione che precede sia infirmata dai tre argomenti spesi dal ricorrente, e cioè: a) il secondo periodo del primo comma dell'art. 505 c.p.c., secondo cui l'assegnazione può essere sì domandata dal creditore, ma solo «nei limiti e secondo le regole contenute nei capi seguenti», non consentirebbe l'assegnazione di quote d'una s.r.I., in quanto non espressamente prevista; b) la modifica dell'art. 538 c.p.c. introdotta dall'art. 10 della I. n. 52/2006, abrogando la previgente previsione secondo cui, in caso di asta infruttuosa, il giudice dell'esecuzione poteva ordinare un nuovo incanto soltanto se nessuno dei creditori avesse chiesto l'assegnazione, dimostrerebbe la volontà del legislatore di non consentire l'assegnazione di quote sociali; c) l'art. 532 c.p.c., nel testo modificato dall'art. 4, comma 1, lett. c), d.l. n. 59/2016, conv., con modif., in l. n. 119/2016, svelerebbe l'intento del legislatore di non consentire l'assegnazione della cosa pignorata nel caso di vendita infruttuosa. Nessuno di tali argomenti può condividersi»).

Ancora, la Cassazione supera in maniera esplicita l'argomento ostativo fondato da alcuni sul tenore del novellato disposto dell'art. 538 c.p.c. stabilendo piuttosto che, il mancato riferimento all'istanza di assegnazione non è significativo della volontà di eliminare la possibilità di accedere a tale istituto ma, piuttosto, di voler ampliare i margini di valutazione del giudice dell'esecuzione in funzione della fruttuosità della vendita coattiva così consentendogli di disporre, piuttosto, un nuovo incanto, anche laddove siano state proposte istanze di assegnazione («(...) la modifica dell'art. 538 c.p.c., in definitiva, non ha soppresso l'istituto dell'assegnazione, ma ha solo reso il giudice libero di disporre un nuovo incanto anche in presenza di istanze di assegnazione, ovviamente motivando sul punto in ragione della maggiore o minore fruttuosità della scelta». La dottrina si è espressa in senso adesivo alla pronuncia in oggetto. Sul punto cfr. Cerrato, 2019, secondo cui «in particolare, in merito alla prima questione, la Cassazione ribadisce che la previsione di cui all'art. 505 c.p.c. ha portata «generale» e non contiene alcun espresso divieto di assegnazione; e nella parte in cui stabilisce che si può far luogo all'assegnazione «nei limiti» e «secondo le regole» successivamente esplicitate, non limita l'assegnazione di beni mobili alle «sole» ipotesi di cui agli artt. 529 e 539 c.p.c. riguardanti rispettivamente (titoli di credito e merci quotate, la prima) e (oro e argento, la seconda), ma si limita semplicemente a stabilire che, se vi sono regole speciali in tema di assegnazione, queste ultime prevalgono sulla regola generale dell'art. 505, e conseguentemente si può far luogo all'assegnazione di quote sociali di s.r.l. rimaste invendute, ciò non essendo espressamente vietato dal prefato disposto. Sulla seconda questione, la novella del 2006, nell'espungere dal testo originario dell'art. 538 c.p.c. il periodo «se delle cose rimaste invendute nessuno dei creditori chiede l'assegnazione», non vuole dire che è venuto meno l'istituto dell'assegnazione nell'espropriazione mobiliare; anzi, alla luce dell'eliminazione anche del dovere del g.e. di «fissare un nuovo incanto se nessuno dei creditori richiedeva l'assegnazione del bene invenduto», la nuova versione dell'art. cit. comporta che il g.e. fisserà «un nuovo incanto ad un prezzo inferiore di un quinto di quello precedente» a prescindere dall'esistenza o meno di istanze di assegnazione avanzate dai creditori. Sulla terza ed ultima questione, l'infruttuosità della vendita non può dare luogo ad una chiusura anticipata della procedura esecutiva alla luce dei nuovi artt. 532, 538 e 540-bisc.p.c.; si profilerebbe, altrimenti, l'ipotesi per cui, nonostante il debitore possegga dei beni ed il creditore sia disponibile ad accettarli con l'assegnazione, il primo rimarrebbe debitore ed il secondo rimarrebbe insoddisfatto, con conseguente violazione dei principi della ragionevole durata e della efficienza ed effettività dell'ordinamento processuale. Infine, per la Corte di legittimità, il processo esecutivo non ha come scopo necessario quello della fruttuosità della vendita o comunque del soddisfacimento del creditore, ma quello della massima fruttuosità possibile; cosa che si desume sia dai principi generali dell'ordinamento sia da previsioni normative espresse, quali l'art. 164-bis disp. att. c.p.c.)».

Dal punto di vista applicativo è stato poi ritenuto che l'assegnazione non possa essere accessibile in alternativa alla vendita ma solo quando la vendita abbia esito negativo (così Casali, cit., secondo cui «va escluso che si possa chiedere subito l'assegnazione in alternativa alla vendita, essendo ciò consentito solo per le cose il cui valore risulti da listino di borsa o di mercato (art. 529 comma 3 c.p.c.). Quando poi la vendita ha esito negativo, stante il novellato art. 532 comma 2 c.p.c. (che prevede in tal caso la chiusura anticipata del processo esecutivo) il creditore deve essere rapido nel presentare l'istanza di assegnazione, prima che l'esecuzione si chiuda. Salvi i tentativi di vendita con ribasso e le eventuali richieste di assegnazione, alla luce dell'art. 535 comma 2 c.p.c. sembra prospettabile infine anche la fissazione di una vendita al miglior offerente senza prezzo minimo, tenendo però presente che questa norma dovrebbe riguardare solo la vendita all'incanto e che l'art. 532 comma 2 c.p.c. – per l'ipotesi di vendita senza incanto – parla di «ribassi», facendo pensare alla sola diminuzione del prezzo. Nondimeno l'opzione della vendita senza prezzo minimo si giustifica sempre: se infatti da un lato la liquidazione deve avvenire al prezzo migliore per soddisfare i creditori, dall'altro è bene che questi possano contare almeno su un ricavato (seppur insoddisfacente) invece che terminare la procedura con il bene invenduto, dopo aver anticipato varie spese. D'altro canto, va ora tenuto conto dell'art. 164-bis disp. att. c.p.c.: quando non è più possibile conseguire un ragionevole soddisfacimento dei creditori – anche considerati i costi per la prosecuzione della procedura, le probabilità di liquidazione del bene e del presumibile valore di realizzo – è disposta la chiusura anticipata del processo esecutivo. Detta chiusura è dunque ancorata ad una valutazione discrezionale del giudice, essendo soggettiva l'identificazione di una soddisfazione creditoria «ragionevole». Se la quota è stata venduta o assegnata, al termine dell'esecuzione (pur in assenza di una specifica disposizione) anche il provvedimento di aggiudicazione va iscritto presso il registro delle imprese, conformemente al regime pubblicitario previsto per il trasferimento negoziale delle partecipazioni (art. 2470 c.c.). Non è chiaro chi debba provvedere all'iscrizione, ma si prospetta una legittimazione concorrente del cancelliere e dell'aggiudicatario. Alla luce dell'art. 586 c.p.c. in tema di esecuzione immobiliare, viene peraltro segnalata la necessità che il giudice disponga la cancellazione dell'iscrizione del pignoramento e di eventuali garanzie reali sulle quote»).

Il pignoramento delle partecipazioni azionarie documentali

L'ipotesi meno problematica nel catalogo delle forme di pignoramento oggetto di questo capitolo è sicuramente quella del pignoramento avente ad oggetto azioni incorporate in un titolo documentale, nonostante il legislatore della riforma del diritto societario non sia intervenuto in modo organico in materia.

In particolare, ha inciso innovativamente solo sull'art. 2352 commi 1 e 6 c.c. laddove è previsto l'esercizio del diritto di voto in caso di sequestro, lasciando perciò all'interprete l'individuazione delle modalità di aggressione esecutiva.

Ciononostante, quanto alle azioni documentali, non vi sono dubbi circa la praticabilità della procedura propria del pignoramento mobiliare. Si tratta di azioni infatti che vengono pignorate alla stregua di beni mobili del debitore di talché il vincolo si realizza attraverso lo spossessamento e la consequenziale annotazione sul titolo (anche la dottrina si è espressa nel senso della loro pignorabilità con la procedura del pignoramento mobiliare. Sul punto, cfr. Arieta Montesano, 888 secondo cui «le azioni di società sembrano pignorabili come cose del debitore nei modi, anch'essi controversi, in cui possono essere date in pegno, ai sensi dell'art. 2352 c.c. È noto, infatti, che, ai sensi dell'art. 1997 c.c., il pegno, il sequestro, pignoramento e ogni altro vincolo sul diritto menzionato in un titolo di credito o sulle merci da esso rappresentate non hanno effetto se non si attuano sul titolo», più recentemente Gasperini, in Arieta De Santis, 2305, secondo cui «(...) per le azioni di s.p.a. il discorso è un po' più semplice quanto meno nell'ipotesi in cui le stesse siano incorporate in un supporto cartaceo. In questo caso, infatti, l'individuazione del modello espropriativo utilizzabile non pone particolari problemi (più problematica è, semmai, la ricerca delle carthulae e quindi, l'individuazione del luogo in cui si trovano i titoli), in quanto la materialità del titolo cartaceo rende pacificamente spendibile il pignoramento mobiliare diretto o presso terzi a seconda che le azioni si trovino presso il debitore o siano detenute da soggetti diversi, fermi restando, naturalmente gli specifici adempimenti previsti dall'art. 3 r.d. n.239/1942 (annotazione sul titolo e nel libro soci)».

L'ufficiale giudiziario pertanto ai sensi dell'art. 492 c.p.c.provvederà a sottrarre la disponibilità materiale del titolo al debitore, di tale adempimento provvederà a redigere processo verbale. Quanto all'ambito oggettivo di tali modalità esecutive la Corte di Cassazione ha ritenuto che il pignoramento mobiliare sia la modalità esecutiva percorribile anche quando il pignoramento abbia ad un oggetto azioni nominative. In tal caso l'opponibilità ai terzi si realizza attraverso una doppia annotazione, sia sul titolo che nel libro dei soci (Cass. n. 6596/1996 secondo cui «(...) Con il primo mezzo la ricorrente, deducendo violazione e falsa applicazione dell'art. 3 r.d. n. 239/1942 e dell'art. 2786 c.c., lamenta che la Corte d'appello, nell'escludere l'efficacia del pegno sui titoli azionari in difetto di annotazione nel libro soci della società emittente, abbia travisato il significato della norma di cui all'art. 3 r.d. n. 239/1942.

Sostiene la ricorrente che la norma in questione deve essere coordinata con l'art. 2786 c.c., secondo cui il pegno si costituisce con la consegna al creditore della cosa o del documento che conferisce «l'esclusiva disponibilità della cosa»: dovendosi evidentemente intendere per esclusiva disponibilità un diritto reale che non ammette disconoscimento, né esercizio di potere sulla cosa da parte di terzi che non ne abbiano il possesso. Tenuto presente il principio generale affermato da tale norma, e considerando che il pegno di titoli azionari ha per oggetto il complessivo rapporto, di partecipazione e di credito, del socio verso la società, la corretta interpretazione del citato art. 3 r.d. n. 239/1942 deve significare, secondo la ricorrente, che l'annotazione nel libro soci condiziona soltanto l'esercizio dei diritti di partecipazione (tra cui il diritto di voto, disciplinato dall'art. 2352 c.c.) da parte del creditore pignoratizio, ma non il diritto di credito verso la società, trasferito con la costituzione del pegno mediante girata e consegna del titolo. La diversa interpretazione sostenuta nella sentenza impugnata determina, ad avviso della ricorrente, un'ingiustificata disparità di trattamento, pur in presenza di uguale posizione sostanziale, tra creditore pignoratizio di titoli di credito e creditore pignoratizio di titoli azionari, il quale ultimo, pur essendo nel possesso delle azioni, non ne avrebbe la giuridica disponibilità, che rimarrebbe, in difetto di annotazione, nelle mani della società emittente. Sotto questo profilo, la ricorrente solleva l'eccezione di illegittimità costituzionale del predetto art. 3 r.d. n. 239/1942, qualora interpretato nel senso sostenuto nella sentenza impugnata, per contrasto con gli artt. 3 e 41 Cost. 1.2. La censura s'incentra sull'interpretazione dell'art. 3 r.d. n. 239/1942 (recante norme riguardanti la nominatività obbligatoria dei titoli azionari). Detta disposizione, sotto la rubrica «vincoli reali sulle azioni», dopo aver stabilito, al primo comma, che i vincoli reali sui titoli azionari si costituiscono mediante annotazione, a cura della società emittente, sul titolo e nel libro dei soci, prevede, al comma 2, che il pegno dei titoli azionari può essere costituito anche mediante consegna del titolo, girato con la clausola «in garanzia» od altra equivalente: aggiungendo peraltro testualmente che «di fronte alla società emittente il pegno non produce effetto che in seguito all'annotazione nel libro dei soci, da eseguirsi dalla società immediatamente.» Ed è appunto sulla mancanza d'efficacia in difetto d'annotazione nel libro soci della società emittente che s'identifica il punto nodale dell'intera controversia.

Secondo l'interpretazione della ricorrente, tale mancanza d'efficacia riguarderebbe soltanto i diritti di partecipazione inerenti al titolo azionario, ma non il diritto reale del creditore pignoratizio, validamente costituito con la girata in garanzia, senza necessità dell'ulteriore formalità dell'annotazione. Va bene messo in evidenza che la questione qui trattata riguarda non l'efficacia inter partes (cioè tra debitore e creditore pignoratizio), ma l'efficacia del pegno nei confronti della società emittente del titolo azionario. Ora, la lettera della legge è chiarissima in proposito, e non consente di introdurre, additivamente, alcuna distinzione tra diritti di partecipazione e diritti di credito, escludendo ogni efficacia, nei confronti della società emittente, in difetto di annotazione. Del resto, l'art. 2024 c.c., dettato in materia di titoli nominativi, stabilisce che «nessun vincolo sul credito produce effetti nei confronti dell'emittente e dei terzi, se non risulta da una corrispondente annotazione sul titolo e nel registro»: viene cioè fissato, in linea generale, il principio della doppia annotazione, sul titolo e nel registro dell'emittente, affinché il vincolo acquisti efficacia nei confronti dell'emittente e dei terzi. Non sembra quindi ravvisabile la lamentata disparità di trattamento tra creditore pignoratizio di titoli di credito nominativi in genere e creditore pignoratizio di titoli azionari, apparendo la disciplina generale, dettata dall'art. 2024 c.c., corrispondente a quella dell'art. 3 r.d. n. 239/1942, in materia di carenza d'efficacia del vincolo – nei confronti dell'emittente – in difetto della doppia annotazione.

Ciò senza contare il disposto dell'art. 2001 c.c., che stabilisce la prevalenza delle leggi speciali rispetto alle disposizioni generali dettate dal codice.

È bensì vero che l'art. 2786 c.c. dispone che «il pegno si costituisce con la consegna al creditore della cosa o del documento che conferisce l'esclusiva disponibilità della cosa», dovendosi con ciò intendere che il possesso del titolo rappresentativo in mano al creditore integra la disponibilità di tutti i diritti inerenti al titolo stesso nei confronti non soltanto del debitore ma anche dei terzi, ma tale norma generale deve cedere alla prevalenza delle norme speciali sui titoli di credito nominativi e, in particolare, sui titoli azionari. Il richiamo, quindi, all'art. 2786 c.c. non è conferente nella specie, dovendo applicarsi la norma speciale dell'art. 3 r.d. n. 239/1942.

Deve dunque affermarsi che, ai sensi della suddetta norma, il pegno di titoli azionari non ha effetto, nei confronti della società emittente, se non in seguito all'annotazione nel libro dei soci: e ciò non soltanto per l'esercizio dei diritti sociali, ma per l'effettiva disponibilità del titolo azionario, comportante l'esercizio del diritto di credito rappresentato dal titolo stesso. La censura risulta – conclusivamente – priva di fondamento, rivelandosi inoltre manifestamente infondata l'eccezione di illegittimità costituzionale sollevata in relazione al citato art. 3 r.d. n. 239/1942»).

È utile una ricostruzione del tessuto normativo in ordine alla costituzione di vincoli sui titoli azionari (non dematerializzati). Vengono in rilievo infatti non solo le norme del codice civile sui titoli di credito in generale, ma anche norme speciali, il r.d. n. 238/1942 nonché le norme del codice di procedura civile.

In particolare, il disposto dell'art. 1997 c.c. secondo cui «il pegno, il sequestro, il pignoramento e ogni altro vincolo sul diritto menzionato in un titolo di credito o sulle merci da esso rappresentate non hanno effetto se non si attuano sul titolo», nonché l'art. 2024 c.c. (che disciplina i titoli nominativi) in base al quale «nessun vincolo sul credito produce effetti nei confronti dell'emittente e dei terzi, se non risulta da una corrispondente annotazione sul titolo e nel registro».

Quanto alla disciplina speciale di cui al r.d. n. 239/1942, viene in rilievo l'art. 3, comma 3 secondo cui «i pignoramenti, sequestri ed altre opposizioni debbono essere eseguiti sul titolo».

La disciplina di detti adempimenti è una disciplina che ha ricadute applicative importanti quanto all'individuazione dei presupposti di opponibilità del pignoramento di azioni.

La dottrina si è espressa nel senso della necessità di un duplice adempimento: l'annotazione sul titolo e nel libro dei soci.

Si tratta peraltro di doppia formalità del tutto conforme alle previsioni normative fin qui citate (cfr. in Trattato di diritto processuale civile, Arieta e De Santis, 869, secondo cui «(...) nell'ipotesi di pignoramento di azioni nominative rappresentate da carthulae, la previsione della necessaria attuazione del vincolo sul titolo impone il compimento, da parte dell'ufficio esecutivo, degli adempimenti procedimentali connessi all'esigenza di aggredire un bene di consistenza materiale quale il titolo azionario, ma non esclude la doverosità delle successive annotazioni alle quali, soltanto, è ricondotta la piena efficacia del vincolo»). Il panorama dottrinale tuttavia non è omogeneo: una prima opzione ritiene infatti che l'annotazione sul titolo e nel registro di cui all'art. 2024 c.c. sarebbe rilevante nei confronti dell'emittente e dei terzi e non ai fini della sua efficacia inter partes (cfr. Cass. n. 6596/1996 e Gasperini, 313).

Altra opzione invece descrive la doppia annotazione quale presupposto di efficacia costitutiva del vincolo (Cass. n. 4766/2007 «(...) con il quarto motivo la ricorrente deduce la violazione degli artt. 1997,2024,2724,2786,2787 c.c. e del r.d. n. 239/1942, art. 3, lamentando che erroneamente la Corte di appello aveva ritenuto necessaria, ai fini della opponibilità ai terzi del pegno di azioni, l'annotazione dello stesso tanto nel libro soci quanto nei certificati azionari; in particolare, la ricorrente deduce che nella fattispecie dovevano trovare applicazione le disposizioni generali in tema di pegno di titoli di credito (artt. 2786 e 2787 c.c.), in virtù delle quali doveva ritenersi sufficiente lo spossessamento accompagnato da scrittura avente data certa. In ogni caso nella specie la trasformazione della società C. da società per azioni a società a responsabilità limitata aveva comportato la distruzione dei titoli, con la conseguenza che la E. aveva diritto di provare per testimoni il suo assunto, essendo peraltro pacifica, per espresso riconoscimento contenuto nell'atto introduttivo del giudizio, l'esistenza del pegno sulle azioni.

Il motivo è infondato nella parte in cui, per l'opponibilità ai terzi del pegno di azioni, assume la sufficienza del solo spossessamento. Come ha esattamente ritenuto la Corte territoriale, uniformandosi alla giurisprudenza di questa Corte (Cass. n. 6596/1996) la distinzione tra terzo portatore ed altri terzi, ai fini della opponibilità del pegno di azioni, non ha alcun fondamento. In particolare, il richiamo all'art. 2786 c.c. non è conferente in materia di titoli azionari, dovendosi applicare, ai sensi dell'art. 2001 c.c., che stabilisce la prevalenza delle leggi speciali rispetto alle disposizioni generali dettate dal codice, la norma speciale del r.d. n. 239/1942, art. 3. Detta disposizione, sotto la rubrica «vincoli reali sulle azioni», stabilisce: a) al comma 1, che i vincoli reali sui titoli azionari si costituiscono mediante annotazione, a cura della società emittente, sul titolo e nel libro dei soci; b) al comma 2, che il pegno dei titoli azionari può essere costituito anche mediante consegna del titolo, girato con la clausola «in garanzia» od altra equivalente, aggiungendo che «di fronte alla società emittente il pegno non produce effetto che in seguito all'annotazione nel libro dei soci, da eseguirsi dalla società immediatamente». Questa disciplina, del resto, è sostanzialmente conforme a quella che l'art. 2024 c.c., detta in materia di titoli nominativi, stabilendo che «nessun vincolo sul credito produce effetti nei confronti dell'emittente e dei terzi, se non risulta da una corrispondente annotazione sul titolo e nel registro». Da quanto detto discende che la costituzione del pegno ed a maggior ragione l'opponibilità ai terzi del pegno di azioni possono conseguire soltanto dalla doppia annotazione ovvero dalla consegna del titolo con la girata in garanzia. Pertanto, poiché quest'ultima modalità non è mai stata dedotta dalla odierna ricorrente, l'opponibilità ai terzi non può prescindere dalla annotazione sui certificati azionari a cura della emittente. In proposito, poi, non vertendosi in tema di fatti, ma di effetti giuridici (ex plurimis Cass. n. 11881/2003) è irrilevante che la ricorrente, pur contestando l'annotazione del pegno sui titoli, abbia ammesso la costituzione del vincolo, la cui efficacia inter partes è comunque estranea al thema decidendum. Il motivo resta, invece, assorbito dall'accoglimento del terzo motivo nella parte in cui lamenta di non avere potuto provare per testimoni l'annotazione del pegno sui titoli.» e partesotti, 308).

La questione è stata recentemente affrontata dalla Corte di legittimità (Cass. n. 1588/2017).

Nel caso di specie era stata proposta una domanda di accertamento del legittimo possesso di titoli azionari nominativi in virtù di una serie continua di girate con condanna della società ad annotare il nominativo del giratario/possessore nel libro dei soci. La fattispecie ha offerto lo spunto per riflettere sull'opponibilità del pignoramento di azioni quando non annotato nel libro dei soci in quanto la ricorrente, proprio in ragione della mancanza di tale adempimento, ne rivendicava l'inopponibilità. La Corte di legittimità ha ribadito la necessità del doppio adempimento (annotazione sul titolo e nel libro dei soci) ai fini dell'opponibilità del pignoramento statuendo che «secondo la giurisprudenza di questa Suprema corte, l'attuazione sul titolo postula inoltre la corrispondente annotazione di cui all'art. 2024 c.c., che integra per i titoli nominativi il disposto generale del predetto art. 1997, regolante tutti i titoli di credito (v. già la lontana Sez. 1 – n. 2024-53, per quanto relativa al vincolo dotale). Il principio, in epoca più recente, è stato esplicitamente ribadito in relazione al pegno di azioni sociali, essendosi osservato che nel pegno, ai sensi dell'art. 2001 c.c., la disciplina speciale dettata dall'art. 3 del r.d. n. 239/1942 prevale su quella prevista in via generale dall'art. 2786 c.c., con la conseguenza che per la costituzione del vincolo e per la sua opponibilità ai terzi non è sufficiente lo spossessamento del titolo accompagnato da una scrittura avente data certa, ma è necessaria la doppia annotazione sul titolo e nel libro dei soci, ovvero la consegna del titolo accompagnata dalla girata in garanzia, senza che assuma alcun rilievo, a tal fine, la distinzione tra il terzo portatore del titolo e altri terzi: v. Sez. l – n. 4766-07; e v. pure Sez. 1, n. 6596-96: «ai sensi dell'art. 3 r.d. n. 239/1942, il pegno di titoli azionari non ha effetto, nei confronti della società emittente, se non in seguito all'annotazione nel libro dei soci: ciò non soltanto per l'esercizio dei diritti sociali, ma per l'effettiva disponibilità del titolo azionario, comportante l'esercizio del diritto di credito rappresentato dal titolo stesso». La conclusione va confermata anche in relazione al pignoramento, sebbene dovendosi integrare con la precisazione che non è di per sé decisiva la lettera del comma 3 dell'art. 3 del r.d. n. 239/1942, onde ritenere necessaria, in aggiunta allo spossessamento, la duplice annotazione sul titolo e nel registro. Questo perché dalla lettera si desume solo la necessità (dello spossessamento ai fini) dell'annotazione sul titolo. In sostanza, la norma speciale induce soltanto a escludere che, per i vincoli reali, ci si possa limitare a una mera annotazione nel libro dei soci. Il che peraltro già sarebbe sufficiente a ricusare il fondamento della conclusione sostenuta dalla corte d'appello di Firenze, essendo stato accertato che il pignoramento era nella specie avvenuto con mera annotazione nel libro dei soci. Viceversa, la necessità della duplice annotazione sul titolo e nel registro, per quanto non direttamente evincibile dall'art. 3 citato, si desume con nettezza proprio dagli artt. 1997 e 2024 c.c., giustappunto in quanto l'art. 1997 c.c. considera unitariamente i vincoli giudiziali e i vincoli convenzionali. Consegue che l'impugnata sentenza è errata nella considerazione previa, secondo la quale vi era stato un efficace pignoramento dei titoli azionari in data anteriore alla serie di girate, opponibile al primo giratario e impeditivo, quanto all'attrice, seconda girataria, dell'acquisto dei diritti incorporati nel titolo. Essendo mancata sia l'apprensione, sia l'annotazione sul titolo, il pignoramento non poteva considerarsi efficacemente costituito, e dunque la stessa duplicazione dei titoli, supponente un vincolo valido ed efficace, non avrebbe potuto essere effettuata. Quanto esposto si riflette sul problema, esso pure dalla corte fiorentina incoerentemente vagliato, della posizione assunta dagli acquirenti in sede di vendita forzata. In difetto dell'apprensione del titolo e delle formalità dell'annotazione sul medesimo, gli acquirenti, per quanto in sede di vendita forzosa, non potevano esser considerati, nei rapporti con la società, come legittimi possessori. La mancanza delle formalità connesse al profilo cartolare fa sì che l'acquirente-aggiudicatario dei titoli permanga, nei rapporti con la società, come mero detentore; per cui egli non è infine legittimato a pretendere il rilascio di certificati sostitutivi».

la dottrina, Ticozzi, cit., ha sottolineato che «dalla mancanza delle formalità connesse al profilo cartolare, la Corte di Cassazione fa discendere un duplice ordine di conseguenze: da un lato, la duplicazione dei titoli in sede di vendita forzosa, supponente un vincolo valido ed efficace, non poteva essere effettuata; dall'altro lato, la sussistenza della legittimazione della ricorrente ad ottenere l'annotazione del proprio nominativo nel libro soci. Aderendo ad un consolidato orientamento della dottrina e della giurisprudenza di legittimità, la Suprema Corte, infatti, ribadisce come il trasferimento di titoli nominativi si attui per effetto del mero consenso delle parti (consenso che, peraltro, non richiede alcuna specifica forma), mentre il profilo dell'annotazione nel registro attiene alla fase esecutiva, certificativa e pubblicitaria del trasferimento, incidendo solamente sulla legittimazione del nuovo socio all'esercizio dei diritti sociali (Cass. n. 17088/2008; Cass. n. 13106/2004; Cass. n. 1117/1998; Cass. n. 9314/1995; in dottrina, Spada, 465; Calvo, 1078). In altri termini, il c.d. «transfert» non costituisce condizione di perfezionamento dell'acquisto o di produzione dell'effetto reale traslativo della proprietà del titolo. Pertanto, accertata la regolarità del trasferimento delle azioni mediante una serie continua di girate, il compimento delle formalità previste dalla legge, ivi compresa l'iscrizione nel libro soci, non è affidato ad un potere discrezionale della società, la quale è tenuta a dar corso ai relativi adempimenti una volta verificata la conformità al diritto del trasferimento dei titoli: principio, peraltro, ribadito in via generale dallo stesso art. 2023 c.c., per il quale «il giratario che si dimostri possessore del titolo in base a una serie continua di girate ha diritto di ottenere l'annotazione del trasferimento nel registro dell'emittente» e, con riferimento alle azioni, dall'art. 2355, c.c. («il giratario che si dimostra possessore in base a una serie continua di girate ha diritto di ottenere l'annotazione del trasferimento nel libro dei soci»).

Nell'ipotesi di pignoramento mobiliare di azioni presso il debitore, non sorgono dubbi interpretativi con riguardo alla custodia. Viene rilievo la previsione di cui all'art. 520 comma 1 c.p.c. e pertanto l'ufficiale giudiziario curerà la custodia fino alla consegna del titolo al cancelliere che a sua volta ne diverrà custode finché il giudice non adotti diversi provvedimenti ai sensi dell'art. 166 disp. att. c.p.c.

Le modalità esecutive aventi ad oggetto azioni cartolari saranno invece quelle del pignoramento presso terzi e dunque disciplinate dagli artt. 543 e seguenti c.p.c., quando i titoli azionari siano detenuti da un terzo. In tal caso si è ritenuto che sia il terzo a doversi attivare per l'annotazione del vincolo sia sul titolo che nel registro dei soci.

La dottrina, con riguardo all'ipotesi in cui i documenti si trovino presso terzi e dunque alla possibilità del pignoramento dei titoli azionari nella forma del pignoramento presso terzi, si è interrogata in ordine all'individuazione del soggetto cui competono le annotazioni previste dalla legge. Il problema si pone in quanto in tali ipotesi non si ha lo spossessamento dei titoli da parte dell'ufficiale giudiziario e pertanto, si reputa sia il terzo pignorato, in quanto custode ai sensi dell'art. 546, comma 1 c.p.c., a dover provvedere alle formalità di annotazione, direttamente o presentando i titoli azionari unitamente all'atto di pignoramento notificato, alla società (così Gasperini, cit. L'autrice ha altresì indagato le diverse strade percorribili nell'ipotesi di omissione da parte della società di tale incombente: «a) qualora la società rivesta la posizione di terzo pignorato, l'eventuale suo rifiuto di procedere alle annotazioni di legge integrerebbe una violazione degli obblighi inerenti alla custodia, sicché il giudice potrebbe disporre una sostituzione con nomina di un nuovo custode, al quale la società dovrebbe consegnare i titoli. A questo punto si avrebbe una situazione coincidente con quella di seguito delineata; b) qualora terzo pignorato sia soggetto diverso dalla società, l'eventuale atteggiamento non collaborativo di questo ai fini delle annotazioni sarebbe superabile, quanto all'annotazione sul titolo, attraverso la presentazione del titolo stesso da parte del custode all'ufficiale giudiziario affinché sia quest'ultimo a procedere all'annotazione del pignoramento. Il rifiuto della società di annotare il vincolo nel libro soci sarebbe invece più arduo da superare, salvo che si ritenga di poter estendere la soluzione giurisprudenziale che nell'ipotesi di rifiuto della s.r.l. di iscrivere al libro soci atti iscrivibili in presenza dei presupposti di legge ha aperto la strada alla tutela d'urgenza ex art. 700 c.p.c.»).

Quanto all'ipotesi in cui le società per azioni non quotate, per previsione statutaria, non abbiano emesso titoli azionari, si reputa che le modalità esecutive debbano essere le stesse utilizzate per aggredire le partecipazioni di società a responsabilità limitata. Come è noto infatti l'art. 2346 comma 1 c.c. prevede che le società per azioni non quotate sui mercati regolamentati possono stabilire di non emettere titoli azionari. L'unico dato normativo sul punto è l'art. 2355 comma 1 c.c. che si limita a stabilire che in caso di mancata emissione di titoli azionari il trasferimento delle azioni ha effetti nei confronti della società dal momento dell'iscrizione nel libro dei soci.

Quanto all'esercizio del diritto di voto viene in rilievo la previsione di cui all'art. 2352 c.c. in base alla quale la legittimazione all'esercizio dei diritti sociali, nel caso di sequestro, spetta al custode.

Il mancato riferimento anche al pignoramento, ha portato ad interrogarsi in ordine all'individuazione del soggetto legittimato all'esercizio di tale diritto: se il custode o piuttosto, nel silenzio del legislatore, il debitore.

Appare preferibile l'opzione secondo cui, non avendo il legislatore distinto tra sequestro giudiziario e sequestro conservativo, ed essendo quest'ultimo prodromico al successivo pignoramento, non vi sono ragioni per differenziare il regime relativo all'esercizio del diritto di voto tra sequestro e pignoramento. Così opinando, anche nel caso di pignoramento, l'esercizio del diritto di voto competerà al custode e non già al debitore.

Il pignoramento di azioni dematerializzate di società quotate

La mancanza del supporto documentale impone, ai fini del pignoramento, la necessaria cooperazione dell'intermediario in quanto l'attuale sistema di gestione accentrata risulta fondato non già sulla figura del deposito quanto su quella del mandato. Dal punto di vista applicativo, il coinvolgimento dell'intermediario lascia propendere per modalità esecutive nelle forme del pignoramento presso terzi. Ciò vuol dire provvedere alla notifica del pignoramento al debitore, titolare degli strumenti finanziari nonché all'intermediario il quale assumerà il ruolo di custode in base al disposto dell'art. 546 comma 1 c.p.c.

Le modalità ricostruttive del processo esecutivo avente ad oggetto azioni dematerializzate non possono prescindere da una ricognizione della legislazione speciale applicabile in quanto gli strumenti finanziari negoziati o destinati alla negoziazione sui mercati regolamentati rientrano nella cornice applicativa degli artt. 79- quatere ss. del d.lgs. n. 58/1998 in base ai quali non possono essere rappresentati da documenti.

All'esito della riforma del diritto societario peraltro le norme del codice civile richiamano questa normativa speciale. Tanto si può evincere dai commi 6 e 7 dell'art. 2354 c.c. secondo cui «sono salve le disposizioni delle leggi speciali in tema di strumenti finanziari negoziati o destinati alla negoziazione nelle sedi di negoziazione. Lo statuto può assoggettare le azioni alla disciplina prevista dalle leggi speciali di cui al precedente comma» nonché dall'art. 2355, comma 5 c.c.

Ancora, l'art. 83-octiesdel d.lgs. n. 58/1998 stabilisce che i vincoli sugli strumenti finanziari dematerializzati si costituiscono unicamente con le registrazioni in apposito conto tenuto dall'intermediario.

Queste premesse in ordine alla cornice normativa consentono di comprendere la preferibilità dell'opzione esecutiva rappresentata dal pignoramento presso terzi essendo imprescindibile la collaborazione dell'intermediario anzitutto allo scopo di individuare la quota (come efficacemente evidenziato in dottrina, «(...) ancorché questi non si configuri più quale depositario delle azioni immesse nel sistema (come avveniva in regime di dematerializzazione c.d. debole), bensì come mandatario del cliente azionista, tuttavia esso costituisce la chiave di funzionamento del sistema, oltreché fattore di garanzia della sua affidabilità e tenuta, assicurando, nell'eventualità di un pignoramento, quella separazione contabile tra strumenti finanziari liberamente trasferibili e strumenti vincolati, realizzata anche attraverso una rete di comunicazioni e/o segnalazioni tra intermediario stesso e società di gestione accentrata«, così Gasperini, cit., 2310).

Il pignoramento di azioni demateralizzate pertanto non conterrà solo l'ingiunzione di cui all'art. 492 c.p.c. ma anche i requisiti contenutistici dell'art. 543 comma 2 c.p.c. Dalla notifica del pignoramento l'intermediario assumerà anche la qualità di custode di tali azioni con i correlativi obblighi ex art. 546 c.p.c., soggetto che sarà chiamato anche a rendere la dichiarazione in ordine a quantità e qualità delle azioni (in giurisprudenza la preferibilità delle modalità esecutive proprie del pignoramento presso terzi è stata affermata da Cass. n. 4653/2007 secondo cui «l'art. 1997 c.c., nel disporre che il pignoramento ed ogni altro vincolo sul diritto menzionato in un titolo di credito o sulle merci da esso rappresentate non hanno effetto se non si attuano sul titolo, trova spiegazione nella circostanza che, se il pignoramento od il vincolo si attuassero con la mera ingiunzione al terzo in possesso del titolo di non pagare al debitore, il terzo – non risultando impedita la circolazione del titolo – si troverebbe esposto a pagare due volte, cioè al creditore procedente assegnatario del credito documentato dal titolo ed suo portatore, legittimato a pretenderne il pagamento secondo la legge di circolazione del titolo. Tuttavia, allorquando il titolo di credito sia in possesso di un terzo in forza di un rapporto che non gli attribuisca la titolarità del credito, ma solo la legittimazione ad esercitare per conto del titolare i diritti nascenti dal titolo, come accade nel caso di deposito di titoli in amministrazione ed in particolare in relazione ai titoli che, in base al d.lgs. n. 213/1998, sono assoggettati alla disciplina della dematerializzazione, il pignoramento si può eseguire presso il terzo, essendo il titolo una cosa del debitore posseduta dal terzo stesso (sulla base di tali principi la Suprema Corte ha cassato la sentenza che aveva rigettato l'opposizione agli atti esecutivi proposta dal creditore avverso le ordinanze del giudice dell'esecuzione, che avevano dichiarato nullo il pignoramento di titoli in deposito ai sensi del detto d.lgs. perché eseguito con le forme dell'espropriazione presso terzi, anziché in quelle dell'espropriazione presso il debitore. A seguito della cassazione la Suprema Corte ha anche deciso nel merito, accogliendo l'opposizione e dichiarando la nullità dell'ordinanza del giudice dell'esecuzione, che aveva dichiarato nullo il pignoramento)».

Bibliografia

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