Codice di Procedura Civile art. 560 - Modo della custodia.1

Rinaldo D'Alonzo

Modo della custodia.1

[I]. Il debitore e il terzo nominato custode debbono rendere il conto a norma dell'articolo 593.

[II]. Ad essi è fatto divieto di dare in locazione l'immobile pignorato se non autorizzati dal giudice dell'esecuzione.

[III]. Il debitore e i familiari che con lui convivono non perdono il possesso dell'immobile e delle sue pertinenze sino alla pronuncia del decreto di trasferimento, salvo quanto previsto dal nono comma.

[IV]. Nell'ipotesi di cui al terzo comma, il custode giudiziario ha il dovere di vigilare affinché il debitore e il nucleo familiare conservino il bene pignorato con la diligenza del buon padre di famiglia e ne mantengano e tutelino l'integrità.

[V]. Il custode giudiziario provvede altresì, previa autorizzazione del giudice dell'esecuzione, alla amministrazione e alla gestione dell'immobile pignorato ed esercita le azioni previste dalla legge e occorrenti per conseguirne la disponibilità.

[VI]. Il debitore deve consentire, in accordo con il custode, che l'immobile sia visitato da potenziali acquirenti, secondo le modalità stabilite con ordinanza del giudice dell'esecuzione.

[VII]. Il giudice dell'esecuzione, con provvedimento opponibile ai sensi dell'articolo 617, ordina la liberazione dell'immobile non abitato dall'esecutato e dal suo nucleo familiare oppure occupato da un soggetto privo di titolo opponibile alla procedura non oltre la pronuncia dell'ordinanza con cui è autorizzata la vendita o sono delegate le relative operazioni.

[VIII]. Salvo quanto previsto dal nono comma, il giudice dell'esecuzione ordina la liberazione dell'immobile occupato dal debitore e dal suo nucleo familiare con provvedimento emesso contestualmente al decreto di trasferimento.

 

[IX]. Il giudice dell'esecuzione, sentite le parti ed il custode, ordina la liberazione dell'immobile pignorato quando è ostacolato il diritto di visita di potenziali acquirenti o comunque impedito lo svolgimento delle attività degli ausiliari del giudice, quando l'immobile non è adeguatamente tutelato o mantenuto in uno stato di buona conservazione, quando l'esecutato viola gli altri obblighi che la legge pone a suo carico.

[X]. L'ordine di liberazione è attuato dal custode secondo le disposizioni del giudice dell'esecuzione, senza l'osservanza delle formalità di cui agli articoli 605 e seguenti, anche successivamente alla pronuncia del decreto di trasferimento, nell'interesse e senza spese a carico dell'aggiudicatario o dell'assegnatario, salvo espresso esonero del custode ad opera di questi ultimi. Per l'attuazione dell'ordine di liberazione il giudice può autorizzare il custode ad avvalersi della forza pubblica e nominare ausiliari ai sensi dell'articolo 68. Quando nell'immobile si trovano beni mobili che non debbono essere consegnati, il custode intima al soggetto tenuto al rilascio di asportarli, assegnandogli un termine non inferiore a trenta giorni, salvi i casi di urgenza. Dell'intimazione si dà atto a verbale ovvero, se il soggetto intimato non è presente, mediante atto notificato a cura del custode. Se l'asporto non è eseguito entro il termine assegnato, i beni mobili sono considerati abbandonati e il custode, salva diversa disposizione del giudice dell'esecuzione, ne cura lo smaltimento o la distruzione».

 

[1] [1] Articolo così sostituito, in sede di conversione, dall'art. 4, comma 2, d.l. 14 dicembre 2018, n. 135, conv., con modif., in l. 11 febbraio 2019, n. 12 e, da ultimo, dall'art. 3, comma 38, lett. b), del d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 149 (ai sensi dell'art. 52 d.lgs. n. 149 /2022, il presente decreto legislativo entra in vigore il giorno successivo a quello della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale)  di cui si riporta il testo prima della sostituzione: «[I]. Il debitore e il terzo nominato custode debbono rendere il conto a norma dell'articolo 593. [II]. Il custode nominato ha il dovere di vigilare affinché il debitore e il nucleo familiare conservino il bene pignorato con la diligenza del buon padre di famiglia e ne mantengano e tutelino l'integrità. [II].Il debitore e i familiari che con lui convivono non perdono il possesso dell'immobile e delle sue pertinenze sino al decreto di trasferimento, salvo quanto previsto dal sesto comma. [IV].Il debitore deve consentire, in accordo con il custode, che l'immobile sia visitato da potenziali acquirenti. [V].Le modalità del diritto di visita sono contemplate e stabilite nell'ordinanza di cui all'articolo 569. [VII] Il giudice ordina, sentiti il custode e il debitore, la liberazione dell'immobile pignorato per lui ed il suo nucleo familiare, qualora sia ostacolato il diritto di visita di potenziali acquirenti, quando l'immobile non sia adeguatamente tutelato e mantenuto in uno stato di buona conservazione, per colpa o dolo del debitore e dei membri del suo nucleo familiare, quando il debitore viola gli altri obblighi che la legge pone a suo carico, o quando l'immobile non e' abitato dal debitore e dal suo nucleo familiare. A richiesta dell'aggiudicatario, l'ordine di liberazione puo' essere attuato dal custode senza l'osservanza delle formalita' di cui agli articoli 605 e seguenti; il giudice puo' autorizzarlo ad avvalersi della forza pubblica e nominare ausiliari ai sensi dell'articolo 68. Quando nell'immobile si trovano beni mobili che non debbono essere consegnati, il custode intima alla parte tenuta al rilascio di asportarli, assegnando ad essa un termine non inferiore a trenta giorni, salvi i casi di urgenza da provarsi con giustificati motivi. Quando vi sono beni mobili di provata o evidente titolarita' di terzi, l'intimazione e' rivolta anche a questi ultimi con le stesse modalita' di cui al periodo precedente. Dell'intimazione e' dato atto nel verbale. Se uno dei soggetti intimati non e' presente, l'intimazione gli e' notificata dal custode. Se l'asporto non e' eseguito entro il termine assegnato, i beni mobili sono considerati abbandonati e il custode, salva diversa disposizione del giudice dell'esecuzione, ne dispone lo smaltimento o la distruzione.  Dopo la notifica o la comunicazione del decreto di trasferimento, il custode, su istanza dell'aggiudicatario o dell'assegnatario, provvede all'attuazione del provvedimento di cui all'articolo 586, secondo comma, decorsi sessanta giorni e non oltre centoventi giorni dalla predetta istanza, con le modalita' definite nei periodi dal secondo al settimo del presente comma. [VIII].Fermo quanto previsto dal sesto comma, quando l'immobile pignorato e' abitato dal debitore e dai suoi familiari il giudice non può mai disporre il rilascio dell'immobile pignorato prima della pronuncia del decreto di trasferimento ai sensi dell'articolo 586.». Per la disciplina transitoria v. art. 35 d.lgs. n. 149/2022 , come da ultimo modificato dall'art. 1, comma 380, lett. a), l. 29 dicembre 2022, n.197,  che prevede che : "1. Le disposizioni del presente decreto, salvo che non sia diversamente disposto, hanno effetto a decorrere dal 28 febbraio 2023 e si applicano ai procedimenti instaurati successivamente a tale data. Ai procedimenti pendenti alla data del 28 febbraio 2023 si applicano le disposizioni anteriormente vigenti.".

Inquadramento

La norma in commento, unitamente a quella contenuta negli artt. 65,66 e 67 c.p.c. reca una disciplina degli obblighi del custode relativamente scarna (Vanz, 1373) sul piano generale dei compiti e delle responsabilità.

Si tratta di una norma più volte attenzionata dal legislatore, soprattutto in relazione al tema, sensibilissimo, riguardante la liberazione dell'immobile pignorato, atteso che in questo ambito si è tentato, con eterogeneità di accenti, di contemperare l'interesse del creditore con le esigenze abitative dell'esecutato, anche se la posizione di quest'ultimo dovrebbe restare, per così dire, sullo sfondo della procedura, in ragione del fatto che l'esecuzione forzata nasce in funzione della tutela del credito a causa dell'inadempimento del debitore, come peraltro non aveva mancato di osservare la stessa giurisprudenza di legittimità, allorquando aveva osservato che l'esercizio del potere discrezionale che il giudice esercita nell'adozione dell'ordine di liberazione dell'immobile pignorato «è espressione dei suoi compiti di gestione del processo ed è funzionale alla realizzazione dello scopo del processo, che è quello della soddisfazione dei crediti del procedente e degli intervenuti mediante la vendita del bene pignorato» (Cass. n. 6836/2015).

Dopo l'entrata in vigore del codice di procedura civile, l'exordium di questo intento di coordinamento è rappresentato dalla l. n. 80/2005 la quale, recependo le «prassi virtuose» (Vaccarella, 289) di alcuni tribunali aveva modificato l'art. 560 c.p.c. introducendovi disposizioni che: definivano in quali limiti il debitore poteva essere nominato custode, anche in funzione di assicurare la visita del bene da parte dei potenziali acquirenti e di consentire all'aggiudicatario l'acquisto di un bene libero da persone, in modo tale avere immediatamente la disponibilità dell'immobile; disciplinavano il regime dei provvedimenti relativi alla custodia; chiarivano i compiti del custode.

L'obiettivo, all'evidenza, era quello di incentivare gli acquisti in sede esecutiva provando ad assicurare le medesime garanzie delle vendite volontarie in punto di consegna del bene compravenduto; il tutto avveniva per il tramite del riconoscimento della centralità del ruolo del custode, figura che da soggetto marginale del processo esecutivo diveniva perno della gestione, conservazione e amministrazione dell'immobile pignorato.

Il medesimo obiettivo si individuava nell'art. 4, comma 1, lett. d), nn. 01), 1) e 2), d.l. n. 59/2016, conv. con modif., dalla l. n. 119/2016 il quale portava nel perimetro della esecuzione immobiliare il procedimento di liberazione dell'immobile, prevedendo che l'ordine di liberazione fosse attuato direttamente dal custode secondo le disposizioni impartite dal giudice dell'espropriazione immobiliare, risolvendo altresì le problematiche riguardanti i beni mobili presenti nell'immobile (Bove, par. 3; Cirulli, 59; Lai, 311; Tedoldi, 1344; Vittoria, 1198; Fanticini, 962).

Per effetto di queste modifiche, pertanto, la liberazione dell'immobile (che doveva essere disposta, al più tardi, ad aggiudicazione intervenuta), non avveniva per il tramite di una autonoma procedura esecutiva per rilascio ex art. 605 e ss. c.p.c. Questo eliminava la necessità della previa notifica del titolo esecutivo e del precetto, e quindi, a monte non richiedeva che l'ordine di liberazione fosse munito della spedizione in formula esecutiva; neppure era richiesto che il custode si munisse della difesa tecnica. Inoltre non era necessario coinvolgere l'ufficiale giudiziario, né occorreva notificare all'occupante il preavviso di rilascio di cui all'art. 608 c.p.c. Infine, l'attuazione dell'ordine di liberazione prescindeva dall'adozione del decreto di trasferimento e continuava, salvo diversa richiesta dell'aggiudicatario anche dopo la pronuncia dello stesso.

La novella, interveniva anche nella disciplina delle spese di liberazione, precisando che essa dovesse avvenire senza oneri per l'aggiudicatario, il che significava che le spese di liberazione erano a carico della procedura.

La travagliata vita dell'art. 560 c.p.c. è stata poi interessata dall'art. 4, comma 2, d.l. n. 135/2018, conv. dalla l. n. 12/2019 il quale nel riscrivere completamente l'art. 560, dopo aver ribadito che il debitore e il terzo nominato custode debbono rendere il conto, ha, per la prima volta, introdotto un regime differenziale in favore del debitore e dei familiari che con lui convivono, prescrivendo che costoro non perdono il possesso dell'immobile sino al decreto di trasferimento, imponendo al contempo al custode nominato dal giudice di vigilare affinché il debitore e il nucleo familiare conservino il bene pignorato con la diligenza del buon padre di famiglia, prescrivendo comunque che sia consentito il diritto di visita dei potenziali acquirenti secondo le modalità stabilite nell'ordinanza di vendita.

Fronte di questa posizione di vantaggio, l'intervento del 2018 ha comunque disposto che il giudice ordina la liberazione dell'immobile pignorato qualora sia ostacolato il diritto di visita di potenziali acquirenti, quando l'immobile non sia adeguatamente tutelato e mantenuto o quando il debitore viola gli altri obblighi che la legge pone a suo carico, precisando comunque che, se il debitore che abita l'immobile non viola le prescrizioni poste a suo carico, il rilascio dell'immobile pignorato non possa essere disposto prima della pronuncia del decreto di trasferimento.

Infine, prima dell'intervento della riforma Cartabia, l'art. 560 era stato attenzionato dall'art. 18-quater d.l. n. 162/2019, conv. con modif. in l. n. 8/2020, il quale è intervenuto sul comma 6 della disposizione, a mente della quale «Il giudice ordina, sentiti il custode e il debitore, la liberazione dell'immobile pignorato per lui ed il suo nucleo familiare, qualora sia ostacolato il diritto di visita di potenziali acquirenti, quando l'immobile non sia adeguatamente tutelato e mantenuto in uno stato di buona conservazione, per colpa o dolo del debitore e dei membri del suo nucleo familiare, quando il debitore viola gli altri obblighi che la legge pone a suo carico, o quando l'immobile non è abitato dal debitore e dal suo nucleo familiare», aggiungendovi i seguenti periodi: «A richiesta dell'aggiudicatario, l'ordine di liberazione può essere attuato dal custode senza l'osservanza delle formalità di cui agli artt. 605 e ss.; il giudice può autorizzarlo ad avvalersi della forza pubblica e nominare ausiliari ai sensi dell'art. 68. Quando nell'immobile si trovano beni mobili che non debbono essere consegnati, il custode intima alla parte tenuta al rilascio di asportarli, assegnando ad essa un termine non inferiore a trenta giorni, salvi i casi di urgenza da provarsi con giustificati motivi. Quando vi sono beni mobili di provata o evidente titolarità di terzi, l'intimazione è rivolta anche a questi ultimi con le stesse modalità di cui al periodo precedente. Dell'intimazione è dato atto nel verbale. Se uno dei soggetti intimati non è presente, l'intimazione gli è notificata dal custode. Se l'asporto non è eseguito entro il termine assegnato, i beni mobili sono considerati abbandonati e il custode, salva diversa disposizione del giudice dell'esecuzione, ne dispone lo smaltimento o la distruzione. Dopo la notifica o la comunicazione del decreto di trasferimento, il custode, su istanza dell'aggiudicatario o dell'assegnatario, provvede all'attuazione del provvedimento di cui all'art. 586, comma 2, decorsi sessanta giorni e non oltre centoventi giorni dalla predetta istanza, con le modalità definite nei periodi dal secondo al settimo del presente comma».

Amministrazione e gestione dell'immobile pignorato

All'indomani della novella del 2005, e prima delle modifiche apportate dal d.l. n. 135/2018, l'art. 560 prevedeva (ed oggi, dopo la riforma Cartabia, prevede), che il custode provvede, previa autorizzazione del giudice dell'esecuzione, all'amministrazione e alla gestione dell'immobile pignorato.

In proposito, si riteneva generalmente che questa disposizione, unitamente all'art. 65, comma 1, c.p.c., affidasse al custode la conservazione e l'amministrazione del compendio pignorato, compito per il quale il custode avrebbe dovuto adoperarsi con la diligenza del buon padre di famiglia, a norma dell'art. 67, comma 2, c.p.c. Si specificava poi che la diligenza richiesta al custode nell'esplicazione della sua attività, è inquadrabile nell'art. 1176, comma 2, c.c. ossia in quella rapportabile alla natura dell'attività professionale espletata (Fanticini, 23; Cardino, 224).

Se queste considerazioni erano pacifiche, meno scontato è se l'esercizio delle funzioni custodiali imponga o meno la previa autorizzazione da parte del giudice dell'esecuzione. Il tema è quello di definire i limiti dell'autonomia del custode ponendosi l'interrogativo di verificare se è possibile individuare dei così detti «poteri minimi» che lo stesso sarebbe legittimato a spendere anche in assenza dell'autorizzazione giudiziale (Cardino, 279 ss.). E così, mentre taluni ritenevano che gli unici atti esercitabili dal custode fossero quelli che si esaurivano nell'esercizio di mere attività di conservazione del compendio pignorato, senza distinguere tra atti di ordinaria ed atti di straordinaria amministrazione (Astuni, 321; Fanticini, 606) altri osservavano che il discrimine andasse compiuto tra attività di ordinaria amministrazione, discrezionalmente esercitabile dal custode (tranne che non si trattasse di locazioni infranovennali, che venivano considerate atti di ordinaria amministrazione ma che necessitavano comunque di autorizzazione a norma dell'art. 560, comma 2, c.p.c.), ed atti di straordinaria amministrazione, necessitanti dell'autorizzazione giudiziale (Cardino, 284 ss.).

Visto da altra prospettiva, si tratta di stabilire se profili di responsabilità che colorano l'ufficio di custode importino, quale precipitato necessario, l'esistenza di poteri gestori minimi che prescindono dall'autorizzazione del giudice dell'esecuzione, o se piuttosto il governo della procedura che l'art. 487 affida al magistrato postuli comunque, ed al netto della modifica sopra descritta, la previa autorizzazione giudiziale. Quest'ultima opzione esegetica si lascia preferire attesa la sua consonanza rispetto all'assetto complessivo della procedura esecutiva, la quale è pur sempre diretta dal giudice dell'esecuzione, essendo peraltro quella che meglio pone l'esecuzione al riparo da attività che potrebbero indirizzarne il divenire al di fuori del controllo del giudice e del contraddittorio tra le parti.

La stipula dei contratti di locazione

L'analisi condotta al paragrafo precedente si disvela in tutta la sua pragmaticità allorquando ci si interroghi sulla legittimazione del custode a stipulare contratti di locazione che abbiano ad oggetto il bene pignorato.

Nella sua veste originaria, l'art. 560, comma 2, c.p.c., vietava al debitore ed al terzo nominato custode di dare in locazione l'immobile pignorato senza la previa autorizzazione dal giudice dell'esecuzione, con la precisazione, proveniente dalla dottrina, che il nulla osta del giudice dell'esecuzione era necessaria in generale per tutti i contratti di godimento e agli altri negozi costitutivi di diritti che potessero pregiudicare gli interessi dei creditori e dell'aggiudicatario (Perna, 510).

La ratio della norma veniva pacificamente ravvisata nell'intento del legislatore di evitare che, attraverso un atto di libera autonomia negoziale qual è la locazione, venissero pregiudicati gli interessi del creditore procedente (Cfr. Izzo, 108. In giurisprudenza Cass. n. 8695/2015) atteso che la locazione può importare sul bene un vincolo non compatibile con la temporaneità dello stato di custodia e di amministrazione (Vellani, 53).

Difficile dire, sul piano della efficiente gestione della procedura esecutiva, se la possibilità di «mettere a reddito» un immobile pignorato sia da salutare con favore o se essa, al contrario, costituisca un disincentivo alla formulazione delle offerte, e perciò vada evitata. In Cass. III, n. 924/2013 si legge ad esempio che «È indubbio che l'occupazione del bene rende estremamente difficile la vendita forzosa e, comunque, determina una rilevante riduzione del valore dello stesso bene...».

Di certo il legislatore non ha espresso un giudizio di disvalore netto rispetto alle locazioni stipulate dopo il pignoramento, ammettendole anzi espressamente, sebbene attraverso il filtro della previa autorizzazione giudiziale. È dunque da condividersi l'opinione che sottolinea la necessità di compiere una valutazione caso per caso, volta ad accertare se la liquidità che affluisce alla procedura per effetto del contratto, in uno alla eventuale migliore conservazione del cespite che è anche possibile trarne, compensino la naturale diffidenza di quanti sono disincentivati dal formulare offerte di acquisto per un immobile che risulta occupato, e di cui temono di non avere immediatamente la disponibilità dopo il versamento del saldo e la pronuncia del decreto di trasferimento (Perna, 511).

Secondo la prevalente opinione, in difetto di autorizzazione il contratto non era nullo, bensì soltanto inopponibile alla procedura (Cfr. Arieta, De Sanctis cit., 1183 ss.; Andrioli,227; Soldi, cit.; in giurisprudenza, Cass. n. 6020/1980; Cass. n. 1175/1983; Cass. n. 8267/1994; Cass. n. 7422/1999; Cass. n. 16375/2009; Cass. n. 8695/2015; Cass. n. 29491/2019). Detta inopponibilità, comunque, non si traduceva nel fatto di riservare al locatore – proprietario le azioni contrattuali che derivano dal contratto, la cui legittimazione spetta in ogni caso al custode (Cass. n. 16375/2009; Cass. n.13216/2016; Cass. n. 23320/2018), quante volte esse costituiscano declinazione dei poteri gestori del compendio pignorato istituzionalmente facenti capo a quest'ultimo, come ad esempio l'azione volta ad acquisire alla procedura i canoni di locazione maturati e non versati.

La regola della mera inopponibilità alla procedura della locazione non autorizzata costituisce il precipitato del fatto che il pignoramento non incide sulla capacità di agire del debitore esecutato e non muta la condizione giuridica del bene pignorato, tanto che financo la vendita del bene staggito non è affetto da invalidità ma solo da inefficacia relativa, subordinata all'esistenza e alla permanenza del vincolo derivante dal pignoramento (Cass. n. 3255/1972). L'efficacia dell'alienazione trova infatti limite nel pregiudizio alle ragioni di salvaguardia della garanzia spettante al creditore pignoratizio e all'aggiudicatario (Cass. n. 2412/1969; Cass. n. 3255/1972).

Parimenti inefficace, in applicazione dei principi generali, va altresì ritenuta la locazione stipulata dal custode senza la contemplatio domini. Invero, per poter impegnare la procedura, è necessario che il custode ne spenda il nome, agendo «nella qualità di custode giudiziario», poiché diversamente egli vincolerebbe unicamente sé stesso, a norma dell'art. 1705, comma 1, c.c. (Cass. n. 13587/2011, ha applicato il principio in relazione alla necessità che il proprietario del compendio pignorato, custode dello stesso, eserciti le azioni derivanti dal contratto di locazione in tale sua qualità, pena l'inammissibilità della domanda, affermando che il proprietario locatore di un immobile pignorato, che ne sia stato nominato custode, è legittimato a promuovere le azioni scaturenti dal contratto di locazione avente ad oggetto l'immobile stesso solo nella sua qualità di custode e non in quella di proprietario locatore, essendo il bene a lui sottratto per tutelare le ragioni del terzo creditore. Ne consegue che, se nell'atto introduttivo del giudizio il proprietario lavoratore non abbia speso la suddetta qualità, la domanda va dichiarata inammissibile).

La l. n. 12/2019 pur avendo mantenuto fermo il divieto di stipulare locazioni in assenza di autorizzazione del giudice dell'esecuzione, ne aveva ridotto la portata, poiché la preclusione era posta solo a carico del debitore e non più anche a delimitazione dei compiti di amministrazione e gestione gravanti sul custode nominato dal giudice.

Questa novità aveva offerto nuovi spunti di riflessione al dibattito, affatto nuovo, sui limiti dell'autonomia del custode e sulla individuazione di quei così detti «poteri minimi» che lo stesso sarebbe legittimato ad esercitare anche in difetto dell'autorizzazione

Secondo alcuni l'eliminazione della previa autorizzazione del giudice per le (sole) locazioni stipulate dal custode da lui nominato determinerebbe una implementazione dei poteri gestionali di quest'ultimo, potendo egli decidere autonomamente sia se concedere o meno in locazione l'immobile, sia – in caso di decisione positiva – in quali termini stipulare il contratto, senza l'intervento autorizzativo del giudice dell'esecuzione; di contro, conseguentemente, verrebbe meno il relativo onere di controllo in capo al giudice dell'esecuzione (Angelone, 506; Giorgetti, 506).

L'opinione non era parsa condivisibile. Invero, nella consapevolezza della distonicità del tenore letterale della disposizione rispetto alle esigenze di governo giudiziale della gestione dell'immobile, soprattutto rispetto ad atti (come appunto la locazione) suscettibili di condizionare il divenire della procedura, si era «probabile che sul punto intervenga il correttivo della prassi giurisprudenziale» (Giorgetti, 506).

Ed in effetti non può obliterarsi il dato per cui il custode è ausiliario del giudice, come previsto dall'art. 65 c.p.c., sotto la cui direzione l'esecuzione si svolge (art. 484 c.p.c.); ergo, posto questo impianto, è da escludersi che il custode possa stipulare un contratto di locazione in solipsistica autonomia, poiché ciò varrebbe ad espungere dall'autorizzazione giudiziale uno dei più importanti atti gestori in cui si sostanzia la funzione custodiale, talmente importante da aver da sempre costituito, nell'architettura dell'art. 560 c.p.c., l'oggetto di una specifica previsione che il legislatore ha sentito il bisogno di introdurre nonostante che la stessa fosse ricavabile dagli argomenti generali cui sopra si è fatto rapido cenno.

Inoltre, portando alle estreme conseguenze il nuovo testo della norma, dovrebbe giungersi alla conclusione per cui il custode, senza la necessità di autorizzazione giudiziale, potrebbe concludere anche locazioni ultranovennali, che l'art. 1572, comma 1, c.c. si premura di qualificare come atti di straordinaria amministrazione, senza considerare che è stata prospettata in dottrina anche la tesi che se un contratto ultranovennale è atto di straordinaria amministrazione, del pari potrebbe esserlo, all'esito di una valutazione da compiersi caso per caso, anche il contratto di durata inferiore (Mirabelli, 189; analogamente, in giurisprudenza, Cass. n. 402/1982; contra Cass. n. 10779/1993).

Ma, soprattutto, la dispensa dalla previa autorizzazione del giudice determinerebbe inaccettabili cortocircuiti di sistema. Invero, se la si ipotizzasse, si avrebbe che il custode, potendo in autonomia decidere di stipulare contratti di locazione, potrebbe anche concordare con il conduttore il relativo canone, il che è incoerente rispetto ad un modello processuale che richiede la fissazione del prezzo di vendita da parte del giudice dell'esecuzione, per di più sulla scorta di una perizia di stima. Inoltre, se un creditore si volesse dolere di una locazione che a suo avviso non avrebbe dovuto stipularsi, così ricorrendo al giudice dell'esecuzione, ci si troverebbe comunque a dover fare i conti con la posizione del terzo conduttore, il quale avrebbe argomenti per dedurre di aver legittimamente confidato sull'autonomia negoziale del custode, e pretendere così il mantenimento del contratto (D'Alonzo, 50).

La riforma Cartabia, nel riscrivere l'art. 560 c.p.c. ha rimesso, per così dire, le cose al loro posto. E così, dopo aver ribadito che sia il debitore che il custode giudiziario debbono rendere il conto a norma dell'art. 593 si riafferma, superandosi l'incertezza che derivava dal testo riscritto con la l. n. 12/2019, che il divieto di stipulare locazioni in assenza di autorizzazione del giudice dell'esecuzione, riguarda non solo il debitore, ma anche il custode.

La durata delle locazioni stipulate dal custode

Il tema della durata della locazione stipulata dal custode su autorizzazione giudiziale ha costituito, nella elaborazione giurisprudenziale, il banco di prova della dinamica delle relazioni esistenti tra procedura esecutiva e disciplina (negoziale e legale) del contratto di locazione, dinamica la cui analisi si è imposta ancor più incisivamente man mano che la legislazione vincolistica delle locazioni si è affermata nel panorama normativo.

In particolare, è noto che l'art. 27 della l. n. 392/1978 ha previsto per il contratto di locazione ad uso diverso dall'abitativo una durata minima, sanzionando con una comminatoria di nullità le clausole contrattuali tendenti al limitare la durata legale del contratto (anche per le locazioni abitative artt. 2,3,4 e 5, della l. n. 431/1998 prevedono una durata minima inderogabile).

È dunque chiaro che occorreva stabilire se questa disciplina operasse imperativamente anche per le locazioni stipulate, previa autorizzazione giudiziale, dal custode. La scelta non era di poco momento, poiché essa riverberava i propri effetti non tanto (e non solo) sulla disciplina del rapporto tra l'ufficio custodiale ed il conduttore, quanto piuttosto sulla opponibilità o meno del contratto all'aggiudicatario, in consonanza o in deroga alla previsione di cui all'art. 2923 c.c.

L'orizzonte degli eventi non è sfuggito alle S.U., che con la sent. n. 5459/1994 (più tardi ripresa da Cass. n. 20341/2010) hanno affrontato questo tema partendo dall'affermazione per cui la risposta all'interrogativo doveva muovere dall'analisi del nesso esistente tra l'art. 2923 e c.c. e l'art. 560, comma 2, c.p.c.

Premette la Corte che le due previsioni normative si pongono in termini di reciproca esclusione, in quanto la prima riguarda le locazioni risalenti a data certa anteriore al pignoramento (o alla sentenza dichiarativa di fallimento), mentre la seconda è relativa, per definizione, alle locazioni poste in essere dopo l'instaurazione del processo esecutivo individuale o concorsuale, precisando che sebbene l'art. 2923 c.c. si riferisca alle locazioni aventi data certa anteriore al pignoramento, per dirle opponibili all'acquirente in executivis, esso contiene in sé anche l'opposta proposizione normativa, secondo cui le locazioni posteriori al pignoramento (o comunque non aventi data certa anteriore) non sono opponibili a tale soggetto.

Questo postulato, secondo i giudici di legittimità non è derogato dall'art. 560 c.p.c., nel senso che quando la locazione sia autorizzata dal giudice dell'esecuzione essa non è per ciò solo opponibile all'acquirente, ma rimane soggetta alla disciplina dell'art. 2923, poiché la funzione dell'art. 560 è quella di disciplinare, sul piano esclusivamente processuale, le modalità di esercizio della custodia del bene.

Afferma la pronuncia che «non si vede, infatti, come un semplice intervento autorizzatorio, esplicato nel processo e in funzione del processo, da parte di un giudice il cui compito consiste essenzialmente nel garantire il buon andamento della procedura, potrebbe avere l'effetto di sovvertire il regime sostanziale espresso dall'art. 2923, vale a dire l'alternativa, da esso posta, di opponibilità o inopponibilità della locazione a seconda che essa abbia, o non, data certa anteriore al pignoramento». Stabilito dunque che la locazione stipulata dal custode ai sensi dell'art. 560, comma 2, c.p.c.si inquadra nel processo e non travalica i limiti temporali propri della custodia, venendo così a cessare con la vendita forzata, il rapporto con la disciplina vincolistica si pone in termini di reciproca esclusione, sicché il tema di stabilire se sia valida una clausola di risoluzione della locazione per effetto della vendita forzata inserita nel contratto stipulato dal custode non ha ragione di porsi in quanto «tale contratto è naturaliter limitato entro l'orizzonte temporale della custodia». Nella locazione stipulate dal custode, in altri termini, «manca l'oggetto stesso su cui la disciplina imperativa della durata potrebbe operare, perché a monte di ciò sta il dato sistematico per il quale la locazione, posta in essere a tali fini, si dissolve con la chiusura della fase di liquidazione del bene».

Ferma la durata di siffatti contratti, nei termini appena precisati, sul piano della opportunità è bene che le locazioni stipulate dal custode contengano una serie di clausole volte ad impermeabilizzare al meglio gli interessi della procedura.

Secondo la dottrina (Perna, 512) infine, le clausole proprie di una locazione stipulata dal custode dovrebbero essere: 1. il versamento dei canoni mensili mediante bonifico sul conto corrente bancario intestato alla procedura esecutiva; la previsione a carico del conduttore di spese e oneri condominiali; il divieto di subaffitto; l'espressa previsione che il conduttore dovrà consentire l'accesso all'unità immobiliare locata al custode giudiziario e, in generale, agli organi della procedura esecutiva nonché ai loro incaricati, a semplice richiesta degli stessi, previo preavviso (e ciò soprattutto al fine di consentire la visita dell'immobile da parte dei potenziali acquirenti); la clausola di esonero da parte del conduttore nei confronti del locatore da ogni responsabilità per i danni diretti, o indiretti, che potessero derivargli da fatto dei dipendenti del locatore medesimo, nonché, per interruzioni incolpevoli dei servizi, nonché l'obbligo di restitutio in pristino del bene a carico esclusivo del conduttore; l'insussistenza in capo al conduttore di qualsiasi diritto di prelazione, tanto in caso di vendita dell'immobile quanto in caso di nuova locazione temporanea alla scadenza del contratto; l'obbligo in capo al conduttore di stipulare idonea assicurazione per i danni all'immobile, nonché di curare e sostenere (in via esclusiva o in ragione di metà dell'imposta, a seconda delle prassi in vigore nei vari tribunali) le spese di registrazione del contratto.

La gestione delle locazioni opponibili alla procedura. Rinnovo e disdetta

La presenza di un contratto di locazione avente ad oggetto l'immobile pignorato (sulle condizioni di opponibilità della locazione alla procedura v. sub. art. 555) determina in capo al custode una serie di oneri sostanziali e processuali.

Un primo aspetto attiene al rinnovo del contratto ed all'esercizio del diritto di recesso in costanza di procedura esecutiva.

Il tema è ricorrente in giurisprudenza, la quale si è fatta altresì carico di specificare come operi la speciale disciplina vincolistica, distinguendo a questo proposito il primo rinnovo da quelli successivi.

In particolare, secondo Cass. n. 11830/2013, sia nelle locazioni ad uso diverso dall'abitazione disciplinate della l. n. 392/1978, sia nelle locazioni abitative di cui alla l. n. 431/1998, la rinnovazione tacita del contratto alla prima scadenza, (per il mancato esercizio, da parte del locatore, della facoltà di diniego di rinnovazione) costituisce un effetto automatico derivante direttamente dalla legge e non dalla spendita di un'autonoma determinazione volitiva. Ne consegue che, in caso di pignoramento dell'immobile, tale rinnovazione non necessita dell'autorizzazione del giudice dell'esecuzione, prevista dal comma 2 dell'art. 560 c.p.c.

Invero, a giudizio della Suprema Corte il contesto normativo «conduce a considerare la rinnovazione tacita del contratto, alla prima scadenza quale fattispecie speciale ed autonoma rispetto alla rinnovazione tacita del contratto di cui all'art. 1597 c.c., il quale fa riferimento alla fine della locazione per lo spirare del termine di cui al precedente art. 1596 c.c. Il che comporta che la rinnovazione – nel caso in cui il locatore non si trovi nelle condizioni di cui dell'art. 29, comma 2, o, comunque, pur ricorrendo, non le comunichi al conduttore – si configura come mero effetto automatico in assenza di disdetta. Quindi, il secondo periodo di rapporto locatizio, sulla base della disciplina prevista dagli artt. 28 e 29 della l. n. 392/1978 – così come nel sistema che riguarda le locazioni abitative, a norma degli artt. 2 e 3, l. n. 431/1998 – non presuppone, in alcun modo, un successivo contratto. Esso deriva, non da un implicito accordo tra i contraenti, ma dal semplice fatto negativo sopravvenuto della mancanza della disdetta. Ed il contenuto contrattuale, che disciplina il nuovo periodo di rapporto, non presenta alcun specifico elemento di novità».

Il discorso cambia per i rinnovi successivi al primo, in relazione ai quali si è osservato che essi costituiscono «una libera manifestazione di volontà negoziale. Pertanto, in caso di pignoramento dell'immobile locato eseguito in data antecedente alla scadenza del termine per l'esercizio della menzionata facoltà da parte del locatore, la rinnovazione della locazione necessita dell'autorizzazione del giudice dell'esecuzione prevista dall'art. 560, comma 2, c.p.c.» (Cass. n. 11168/2015; Cass. n. 19522/2019. Negli stessi termini Roppo, 649).

Ci si deve a questo punto domandare se, intervenuta l'aggiudicazione e versato il saldo prezzo, possa ipotizzarsi la possibilità che la disdetta del contratto di locazione sia intimata dall'aggiudicatario.

La fattispecie che in concreto può presentarsi è la seguente.

Pignorato un bene oggetto di contratto di locazione opponibile alla procedura (la questione, come si vedrà, non si pone per le locazioni stipulate dal custode poiché esse vengono meno con la pronuncia del decreto di trasferimento), il termine (legale o convenzionale) fissato per la disdetta, non ancora intimata dal custode, viene a scadere in una data successiva all'aggiudicazione, ma a ridosso della medesima.

Potrebbe dunque accadere che se il decreto di trasferimento viene emesso in tempo utile, l'aggiudicatario potrà esercitare il diritto di recesso quale nuova parte del rapporto locatizio; in caso contrario egli si troverà nella impossibilità, per causa a lui non imputabile, di avvalersi di questa facoltà.

Di qui l'interrogativo che ruota intorno alla possibilità che anche l'aggiudicatario possa esercitare il diritto di recesso.

L'assunto è stato sostenuto da una giurisprudenza di merito (Trib. Milano 13 maggio 1994, in Archivio delle locazioni e condominio, 1995, 159), e giustificarsi in ragione della intangibilità della posizione dell'aggiudicatario che trae forza dall'art. 187-bis disp. att. c.p.c.

L'idea non può essere condivisa.

In primo luogo, va detto che secondo una costante giurisprudenziale l'effetto traslativo si produce con il decreto di trasferimento. Tra le tante può citarsi Cass. III, n. 3447/1985, secondo cui «nel processo esecutivo per espropriazione forzata immobiliare, la ordinanza di aggiudicazione, resa in esito alla vendita con incanto, non determina il trasferimento del diritto di proprietà sul bene pignorato in favore dell'aggiudicatario, rendendosi a tal fine necessaria l'emissione del decreto contemplato dall'art. 586 c.p.c.». In particolare, «ordinanza di aggiudicazione e decreto di trasferimento costituiscono una fattispecie legale complessa della vendita forzata immobiliare, stante il collegamento funzionale tra i due atti, che sono il primo presupposto del secondo, al quale soltanto – e non già al versamento del prezzo dopo l'aggiudicazione – consegue l'effetto costitutivo del trasferimento del diritto sul bene espropriato» (così Cass. n. 2463/1980). Negli stessi termini Cass. n. 8236/1993, aveva affermato che «la norma di cui al comma 1 dell'art. 495 c.p.c., ai sensi della quale la conversione del pignoramento può essere chiesta dal debitore in qualsiasi momento anteriore alla vendita del bene pignorato, non esclude la tempestività di istanza in tal senso proposta dopo l'aggiudicazione del bene, ma quando ancora non sia trascorso il termine di dieci giorni di cui all'art. 584, per le offerte in aumento di sesto, ovvero, nel caso di presentazione di offerte siffatte, fino a quando non sia espletata la gara appositamente prevista, in quanto la sola aggiudicazione non determina, di per sé, la consolidazione del diritto di trasferimento del bene; prima dei detti momenti, la conversione può ancora utilmente assolvere la sua funzione di sottrarre la liquidazione del bene stesso all'alea di risultati dell'incanto economicamente inadeguati».

Più recentemente può farsi riferimento a Cass. n. 8205/2013, secondo la quale anche dopo l'aggiudicazione, e fino alla pronuncia del decreto di trasferimento, può essere promossa l'opposizione di terzo all'esecuzione.

Questo assunto non è incrinato dalla tutela accordata dall'art. 187-bis disp. att. c.p.c. citato, poiché un conto è affermare che l'aggiudicatario ha il diritto ad ottenere il trasferimento del bene (diritto condizionato alla assenza delle circostanze in presenza delle quale l'aggiudicazione può essere revocata a norma dell'art. 586 c.p.c.) altro è dire che l'effetto traslativo retroagisce al momento dell'aggiudicazione neppure ove si prospetti che si tratti di trasferimento sottoposto a condizione sospensiva.

L'interesse dell'aggiudicatario va allora tutelato riconoscendogli il diritto fare richiesta al custode di esercitare il diritto di recesso, richiesta che il custode sarà obbligato a soddisfare ove non ravvisi l'esistenza di un contrario interesse della procedura.

La restituzione della cauzione

Può accadere che il contratto di locazione opponibile alla procedura venga a scadere nel corso della stessa o successivamente al trasferimento del bene in capo all'aggiudicatario.

Sorge allora il problema di verificare se custode o acquirente siano tenuti alla restituzione della cauzione eventualmente versata al locatore esecutato dal conduttore.

La soluzione di questo interrogativo deve muovere da un preliminare accenno alla natura ed alla disciplina del deposito cauzionale.

Secondo l'art. 1608 c.c., «l'inquilino può essere licenziato se non fornisce la cosa dei mobili sufficienti o non presta altre garanzie idonee ad assicurare il pagamento della pigione».

Come si vede, nell'impianto codicistico l'obbligazione di dotare la cosa dei mobili sufficienti, divenuta ormai una ipotesi di scuola, è alternativa a quella di prestare idonea garanzia, la quale consiste nel versamento di quello che la prassi contrattuale chiama «deposito cauzionale», vale a dire una somma di danaro rilasciata dal conduttore a garanzia del puntuale pagamento dei canoni e di ogni altra obbligazione il suo carico, fino al termine del rapporto e della riconsegna dell'immobile.

La disciplina vincolistica introdotta dalla l. n. 392/1978 ha reso obbligatorio il versamento della cauzione con l'art. 11, fissandone il limite massimo nella misura di tre mensilità di canone, ed aggiungendo che essa è produttiva di interessi legali.

La combinata lettura di queste due norme induce a ritenere che l'obbligo di versamento del deposito cauzionale sussiste indipendentemente dalla espressa previsione contenuta nel contratto.

Dottrina (Gabrielli, Padovini, 433), e giurisprudenza (Cass. n. 9287/1987) sono concordi nel ritenere che il deposito cauzionale ha natura di pegno irregolare, in relazione alla sua funzione di garanzia ed alla fungibilità dei beni che ne formano oggetto (il denaro). Da questa natura deriva non solo la sua accessorietà rispetto alle obbligazioni che intende garantire ma anche il diritto di seguito; il che significa che il trasferimento dell'immobile comporta automaticamente il trasferimento del deposito cauzionale in favore dell'acquirente, poiché questi subentra nei diritti e nelle obbligazioni derivanti dal contratto di locazione (art. 1602 c.c.) e, così, anche nell'obbligazione accessoria di restituire il deposito cauzionale versato dall'inquilino.

Normalmente dunque il venditore-locatore trasferisce, per così dire, non solo il rapporto locativo, ma anche il possesso del pegno, ovvero della cauzione; normalmente, cioè, il venditore non può trattenere per sé il pegno (cioè la cauzione), se ciò non sia stato concordato esplicitamente con il compratore.

Da quanto sin qui detto, che trova conferma nella giurisprudenza della cassazione (Cass. n. 23164/2013), si deve trarre il precipitato per cui obbligato a restituire la cauzione non è tanto la parte contrattuale subentrata all'originario conduttore, quanto piuttosto il soggetto che materialmente ne ha la disponibilità, con la conseguenza che il custode nominato dal giudice sarà tenuto alla restituzione della cauzione quante volte egli l'abbia ricevuta da parte del debitore esecutato (cosa per la verità assolutamente improbabile e peraltro neppure dovuta in quanto il custode non subentra nella titolarità del contratto della locazione) oppure l'aggiudicatario al quale l'importo della cauzione sia stato eventualmente trasferito in uno al contratto.

In tutti gli altri casi, la cauzione dovrà essere rimborsata dall'originario locatore.

L'esercizio del diritto di prelazione da parte del conduttore

Resta da chiedersi se, data per acclarata la opponibilità di un contratto di locazione alla procedura in forza delle previsioni di cui all'art. 2923 c.c., il conduttore possa esercitare il diritto di prelazione variamente previsto da specifiche disposizioni di legge.

In generale è noto che il trasferimento della proprietà di beni immobili oggetto di contratti di locazione sconta, nella disciplina di settore, la previsione di una serie di norme che incidono sull'autonomia negoziale del venditore in nome della esigenza di garantire al conduttore la permanenza nel godimento dell'immobile. Queste limitazioni si sostanziano (tra l'altro) nella imposizione di limiti alla libertà di contrarre, sub specie di limiti alla scelta del contraente.

Tra di esse merita di essere considerata, ai fini di che qui interessano, la prelazione, ponendosi il tema di verificare se essa operi anche in seno alle procedure esecutive, e dunque subordini l'acquisto in capo all'aggiudicatario al mancato esercizio del diritto di prelazione da parte dell'avente diritto.

Quello della prelazione legale previsto in occasione dei trasferimenti immobiliari costituisce un ampio genus, che comprende al suo interno una vasta gamma di ipotesi normative, attraverso le quali il legislatore piega una vicenda di autonomia privata al perseguimento dell'utilità sociale in linea con le previsioni di cui agli artt. 41,42 e 47 della Costituzione, in ragione della originaria destinazione del bene impressa con il contratto di locazione, come avviene nelle così dette «prelazioni urbane» (Gabrielli, Padovini, 433; Rossi), oppure in ragione della posizione ricoperta da alcuni soggetti rispetto al bene oggetto di trasferimento, volta a fruirne l'accesso o a conservare la destinazione del bene (cosa che avviene, ad esempio, nella prelazione agraria o nella prelazione pervista dall'art. 61 del d.lgs. n. 42/2004, meglio noto come Codice dei beni culturali).

Le prelazioni legali, pertanto, da un lato costituiscono applicazione di precetti costituzionali, e dall'altro incidono significativamente sul regime circolatorio di quei beni, e dunque sull'autonomia negoziale, motivo per cui si tende a interpretarle restrittivamente escludendo il ricorso all'analogia (Cass. n. 6867/2003; Cass. n. 13886/2007)

La prelazione di cui all'art. 38 l. n. 392/1978

Tanto premesso, un primo caso è quello di cui all'art. 38 l. n. 392/1978.

Il dato normativo prevede che se il locatore intenda trasferire a titolo oneroso l'immobile locato, deve farne comunicazione al conduttore con atto notificato a mezzo di ufficiale giudiziario. In questa comunicazione il locatore dovrà avere cura di indicare il corrispettivo e le altre condizioni della compravendita, invitando il conduttore ad esercitare o meno il diritto di prelazione nel termine di sessanta giorni dalla ricezione della comunicazione. Anche l'esercizio del diritto di prelazione si esegue mediante con atto notificato al proprietario, cui deve seguire il versamento del prezzo entro nei trenta giorni decorrenti dal sessantesimo giorno successivo a quello dell'avvenuta notificazione della comunicazione da parte del proprietario.

Il successivo art. 39 disciplina le conseguenze dell'inadempimento del locatore, prevedendo che, ove non abbia ricevuto la comunicazione, l'avente diritto alla prelazione può, entro sei mesi dalla trascrizione del contratto, riscattare l'immobile dall'acquirente e da ogni altro successivo avente causa.

In giurisprudenza è ricorsiva l'affermazione per cui la ratio della prelazione è duplice: essa da un lato mira alla conservazione nelle imprese del contatto diretto con il pubblico degli utenti e dei consumatori (Cass. n. 27514/2014; Cass. n. 1363/2009; Cass. n. 5009/1996; Cass. n. 1699/1993; Cass. n. 1261/1990); dall'altro, si prefigura di tutelare l'interesse del conduttore-imprenditore a permanere nell'immobile oggetto di locazione (così la relazione ministeriale di accompagnamento dell'11 maggio 1979).

All'indomani della entrata in vigore dalla c.d. «legge sull'equo canone», taluni consideravano la nuova disciplina della locazione l'espressione di un vero e proprio microsistema, i cui caratteri di specialità rispetto alla disciplina dell'esecuzione forzata siccome disciplinata dal codice civile imponevano che le norme contrastanti con quell'innovativo corpo normativo dovevano considerarsi tacitamente abrogate, come ad esempio l'art. 2923 (Trifone, 529).

Una opposta opinione rilevava invece che fossero proprio le peculiarità del processo esecutivo ad escludere da quello specifico contesto l'applicazione della normativa speciale (Cass. n. 1615/1989).

I nodi sul tappeto hanno imposto all'elaborazione giurisprudenziale la difficile ricerca di una soluzione di compromesso, in un lavorìo di verifica di compatibilità dei singoli istituti previsti dalla normativa vincolistica con la disciplina e gli interessi sottesi all'esecuzione forzata.

E così, venendo al tema della prelazione, la giurisprudenza è decisamente orientata nel senso di escluderla.

Le pronunce più risalenti si sono occupate della vendita del bene locato in sede concorsuale, ed hanno esclusa la prelazione facendo leva sul tenore letterale dell'art. 38, che presupporrebbe la natura negoziale della vendita (Così Cass. n. 295/1981; Cass. n. 3298/1984; Cass. n. 913/1988; Cass. n. 2900/1990).

Anche Cass. n. 5264/1982, (che però era chiamata ad uno scrutinio in tema di prelazione agraria) individua quale presupposto di operatività dell'art. 38 la volontarietà dell'alienazione.

L'argomento è ripreso da Cass. n. 339/1994, secondo cui «Detto articolo... prevede la prelazione «nel caso in cui il locatore intenda trasferire a titolo oneroso l'immobile locato», ponendo in rilievo l'elemento volontaristico dell'ipotizzata alienazione; per cui esula dalla fattispecie una alienazione non volontaria».

Cass. n. 11225/1996 , nell'approfondire ulteriormente la materia, dopo aver ribadito che l'art. 38 «presuppone la volontarietà e l'onerosità dell'alienazione» ha aggiunto che «la norma in esame non impone, del resto, alcun obbligo di dare comunicazione del trasferimento a carico del creditore procedente o del giudice dell'esecuzione», e che «a nulla rileva, in proposito, l'inesistenza di una norma analoga a quella dettata, in materia di prelazione agraria, dall'art. 8 c. 2 della l. n. 590/1965 che esclude espressamente la prelazione in caso di esecuzione forzata, una volta che la medesima conseguenza discende dalla formulazione dell'art. 38 della l. n. 392/1978. L'esclusione espressa della prelazione agraria a seguito della vendita forzata (come in caso di permuta, liquidazione coatta, fallimento o espropriazione per pubblica utilità) era imposta, del resto, dalla diversa formulazione dell'art. 8 comma 1, che la riconosce, più genericamente, «in caso di trasferimento a titolo oneroso» (o di concessione in enfiteusi)».

Si è uniformata a questo indirizzo Cass. n. 5069/2012, la quale ha ribadito che il connotato della volontarietà, oltre che dell'onerosità dell'alienazione, quale presupposto essenziale per l'insorgere del diritto, emerge in maniera inconfutabile dalla formulazione letterale della norma.

Nella stessa direzione Cass. n. 7931/2012, la quale aggiunge che il riconoscimento della prelazione urbana in occasione della vendita coattiva deve essere escluso «altrimenti derivandone pregiudizio alle ragioni di speditezza delle alienazioni nel prevalente interesse pubblicistico, cui deve cedere l'interesse privato del conduttore».

In senso parzialmente difforme rispetto agli approdi sin qui richiamati deve registrarsi Cass. n. 1808/2013, la quale, sebbene chiamata a pronunciarsi in un caso di prelazione volontaria riconosciuta dal fallimento, e nel quale si dibatteva della possibilità che il diritto di prelazione potesse essere esercitato anche all'esito della fase dell'aumento di sesto, ha osservato che «L'esercizio in concreto del diritto di prelazione va coordinato con la struttura e le finalità (ricavare il maggior utile possibile nell'interesse dei creditori concorsuali) delle vendite fallimentari, senza porsi ad ostacolo o ad intralcio nello svolgimento delle medesime, come si evince dalla elaborazione giurisprudenziale di questa Corte, che ha collocato l'esercizio del diritto di prelazione «nella fase in cui il prezzo sia divenuto definitivo, all'esito del subprocedimento di vendita, con l'aggiudicazione definitiva» (in termini, Cass. n. 1176/1999) [Che però si era occupata del caso, del tutto diverso rispetto a quello di cui all'art. 38, del diritto di prelazione espressamente riconosciuto a talune categorie di imprese dichiarate fallite dall'art. 3, comma 4, l. n. 223/1991 (dall'art. 2, l. n. 92/2012, come sostituito dall'art. 46-bis, comma 1, lett. h), d.l. n. 83/2012, conv., con modif., dalla l. n. 134/2012), in un caso in cui il giudice di merito lo aveva escluso ritenendo che questo diritto competesse solo a chi fosse titolare del contratto di affitto prima dell'avvio del procedimento di vendita]. Da ciò discende che l'affittuario è ammesso ad esercitare il suo diritto di prelazione dopo che sia stata superata la fase dell'aggiudicazione, senza intralcio, può dirsi, sulle fasi della vendita (determinazione dal prezzo, modalità di partecipazione all'incanto, oneri di cauzione e di deposito, formazione del prezzo di aggiudicazione nella libera gara dei partecipanti all'incanto, eventuale riapertura dalla gara in presenza di un'offerta in aumento), e sulla base del prezzo raggiunto in via definitiva (v. Cass. n. 8861/1994; Cass. n. 2576/2004)».

Questo precedente, ed i richiami ivi compiuti, non sono affatto idonei a rimeditare il convincimento espresso dalla giurisprudenza maggioritaria, poiché si tratta di enunciati formulati in contesti differenti e peculiari, al solo fine di individuare il momento in cui il diritto di prelazione convenzionale (o previsto da leggi che espressamente lo riconoscevano anche in ambito concorsuale) poteva essere compiutamente esercitato dal conduttore. Essi, inoltre, non superano il dato testuale dell'art. 38, specificatamente circoscritto alle alienazioni volontarie.

Allo stesso modo, la tesi che in questa sede si intende prediligere non sembra essere incrinata dalle considerazioni svolte dal Cass. S.U., n. 14083/2004.

In questa sentenza la Corte osserva da un lato che «i dati normativi non consentono ... di trarre conclusioni univoche in ordine alla oggettiva incompatibilità dell'esercizio del diritto di prelazione con la vendita coattiva ... occorrendo piuttosto fare riferimento all'interesse specifico oggetto di concreto regolamento, considerato meritevole, secondo l'ordinamento, di tutela», e che dunque non esistono ragioni di principio che impongano di escludere la prelazione dalla vendita forzata; dall'altro, puntualizza che «è da escludere che la prelazione incida, di per sé, negativamente sugli interessi dei creditori, perché essa comporta il solo onere della denunciatio e, in ogni caso... si colloca in un momento successivo alla individuazione dell'acquirente e alla definitiva determinazione del prezzo. Cade così anche l'argomento ... dell'esigenza della maggiore remunerazione possibile per i creditori, che osterebbe alla configurabilità della prelazione nella liquidazione demandata al liquidatore».

Va tuttavia sottolineato che la Corte giunge a queste conclusioni dopo aver richiamato l'indirizzo giurisprudenziale che esclude l'operatività del diritto di prelazione di cui all'art. 38 l. n. 392/1978 nelle vendite esecutive e fallimentari, premettendo che «la soluzione della questione non può prescindere dall'esame della fattispecie concreta», ed aggiungendo che «l'indagine deve, quindi, muovere dalla natura del diritto di prelazione esercitato nella specie dal prelazionario, considerando che la varietà di forme e di disciplina che l'istituto può assumere (nella prelazione legale e in quella convenzionale, ed anche all'interno di esse) in concreto, non consente di stabilire in via generale criteri interpretativi uniformi, validi per tutte le ipotesi».

Dunque, sia la specificità del caso affrontato, sia le premesse motivazionali svolte dalla Corte, sia la specifica veste che l'istituto assume nella legge sull'equo canone (veste che, secondo le S.U., come si è appena detto, deve essere indagata di volta in volta, e che la incasellano nell'ambito delle vendite negoziali) confermano la impossibilità di applicare la prelazione di cui all'art. 38 l. n. 392/1978 alle vendite esecutive individuali.

Un ulteriore dato normativo di sostegno alla tesi che esclude l'operatività della prelazione in occasione della vendita esecutiva susseguente a pignoramento dell'immobile locato si può trarre infine dalla lettura dell'ultimo comma dell'art. 38, il quale nell'elencare le ipotesi in cui la prelazione non opera (vendita in favore dei coeredi e vendita in favore del coniuge o dei parenti entro il secondo grado) non vi ricomprende l'ipotesi del pignoramento.

La prelazione di cui all'art. 3, comma 1, lett. g), l. n. 431/1998

Altra ipotesi di prelazione urbana è quella contemplata dall'art. 3, comma 1, lett. g), l. n. 431/1998.

La disposizione prevede al comma 1 che il locatore, alla prima scadenza contrattuale, può negare il rinnovo della locazione quando, tra le altre ipotesi, intenda vendere l'immobile a terzi e non abbia la proprietà di altri immobili ad uso abitativo oltre a quello eventualmente adibito a propria abitazione. In questi casi la medesima disposizione riconosce al conduttore il diritto di prelazione sull'immobile.

Come si vede, la prelazione abitativa ha un ambito di applicazione molto più ristretto rispetto a quella commerciale, e di cui si è detto nel paragrafo che precede. Infatti, mentre il diritto di prelazione riconosciuto ex art. 38 cit. compete in ogni ipotesi di alienazione dell'immobile, nella prelazione abitativa essa entra in gioco solo quando sussistono cumulativamente le seguenti condizioni: ricorra la prima scadenza contrattuale; il locatore intenda far cessare il vincolo locatizio per vendere ad un terzo l'immobile libero; non abbia la titolarità di altra casa abitativa.

La tesi favorevole a riconoscere la possibilità di esercizio del diritto di prelazione anche in occasione del trasferimento coattivo del bene locato ad uso abitativo è stata giustificata come contraltare della facoltà, che dovrebbe essere riconosciuta anche al custode, di avvalersi della facoltà di negare il rinnovo alla prima scadenza contrattuale (Vaccarella, cit. 488; Fanticini, 622)

A questa tesi si è condivisibilmente obiettato (Astuni) che nella norma in esame la prelazione costituisce una forma di compensazione del diritto potestativo di recesso, che non è possibile riconoscere al custode per l'evidente riferibilità della norma ai soli trasferimenti volontari (così anche Trib. Reggio Emilia 12 maggio 2008), con la conseguenza che va esclusa anche l'attribuzione al conduttore del diritto di prelazione.

È tuttavia evidente che ove si volesse riconoscere al custode la facoltà di intimare la disdetta di cui alla citata norma, come da taluni sostenuto, la prelazione dovrebbe essere riconosciuta.

Alle considerazioni appena espresse è forse possibile aggiungere due ulteriori dati.

Il primo, di carattere interpretativo, attiene al fatto che le norme in tema di prelazione, in ragione del vincolo alla proprietà privata che imprimono, sono di stretta interpretazione, e dunque come tali non si prestano ad applicazioni al di fuori del perimetro tracciato dal legislatore.

Il secondo, di carattere sistematico, riposa nella considerazione che la negazione del diritto di prelazione nelle ipotesi di vendita coattiva non oblitera del tutto il diritto del prelazionario-conduttore ad acquistare, ben potendo egli partecipare al procedimento di vendita ed eseguire eventuali rilanci in sede di gara.

Dunque, a differenza di quanto accade nella vendita negoziale, ove il mancato riconoscimento del diritto di prelazione esporrebbe il conduttore alle determinazioni volitive del locatore, il quale sarebbe libero di scegliere a chi vendere, nella vendita coattiva il conduttore non corre questo rischio, soffrendo esclusivamente il fatto di doversi confrontare con ulteriori potenziali offerenti.

Si tratta peraltro di una dinamica che nei fatti non è nemmeno del tutto estranea al mondo delle normali compravendite: si noti infatti a questo proposito che, anche nelle ordinarie transazioni commerciali, la presenza di un conduttore con diritto di prelazione apre la competizione tra i soggetti potenzialmente interessati, per quanto informale, dacché il potenziale acquirente è consapevole del fatto che, in presenza del prelazionario, se vuole rendersi acquirente dovrà farlo ad un prezzo superiore rispetto a quello che questi è disposto a spendere. Certamente nella vendita coattiva non basta al conduttore offrire lo stesso importo indicato dal miglior offerente, dovendo egli eseguire necessariamente un rilancio, ma questo ulteriore sacrificio che a lui viene chiesto è probabilmente giustificato in funzione della esigenza di migliore tutela delle ragioni del ceto creditorio.

La prelazione agraria

La prelazione agraria costituisce un particolare istituto del diritto agrario, disciplinato prima dall'art. 8 l. n. 590/1965 e successivamente anche dall'art. 7 della l. n. 817/1971.

La fattispecie, introdotta nel 1965, riconosce ad affittuari coltivatori diretti che coltivino il fondo da almeno due anni il diritto di acquisirne la proprietà in caso di trasferimento o concessione in enfiteusi. Non è certo questa la sede per scandagliare funditus la disciplina di questo istituto; basti qui ricordare che la ratio ispiratrice dell'istituto viene normalmente individuate nella esigenza di facilitare la trasformazione dell'impresa coltivatrice su fondo altrui in impresa costituita su fondo proprio, in modo da superare la dicotomia tra proprietario del fondo e soggetto coltivatore dello stesso.

La norma introdotta nel 1971 attribuisce invece al coltivatore diretto proprietario di uno o più terreni confinanti il diritto di acquistare in via di prelazione il fondo finitimo offerto in vendita, a condizione che su di esso non sia insediato un mezzadro, un colono, un affittuario, un compartecipante ovvero un enfiteuta coltivatore diretto. Qui la finalità è quella di favorire l'accorpamento del fondo venduto con quello vicino già coltivato, e così condurre all'espansione delle aziende dei coltivatori diretti (Ronza, 727).

Come affermato dalla giurisprudenza (Cass. n. 6715/2001), la prelazione agraria è un istituto di diritto pubblico poiché persegue l'interesse della collettività alla coltivazione dei fondi rustici, le cui basi costituzionali affondano nell'art. 42, che pone in risalto la funzione sociale della proprietà privata, nell'art 44, che individua gli obiettivi del razionale sfruttamento del suolo e dell'instaurazione di equi rapporti sociali, enunciando la necessità di aiutare la piccola e media proprietà, e nell'art. 47, il quale stabilisce che la Repubblica incoraggia l'accesso alla proprietà diretta coltivatrice, così auspicando una disciplina che prevede condizioni di privilegio per i coltivatori diretti nell'acquisto dei terreni agricoli.

Orbene, con riferimento alla prelazione agraria Cass. n. 5264/1982, ha affermato che «Qualora un fondo rustico venga alienato – in relazione alla liquidazione di un'eredità beneficiata – attraverso pubblici incanti, una siffatta procedura non può essere equiparata a quelle ipotesi di «vendita forzata, liquidazione coatta amministrativa, fallimento» che non consentono il diritto di prelazione previsto a favore dell'affittuario coltivatore diretto dall'art. 8 della l. n. 590/1965 non trattandosi, come in dette ipotesi, di procedura imposta bensì essendo possibile un inserimento del meccanismo della prelazione nella suddetta procedura, potendosi configurare un'aggiudicazione in asta pubblica condizionata al mancato esercizio della prelazione agraria da parte dell'avente diritto».

L'esclusione della operatività della prelazione agraria in caso di vendita esecutiva (individuale o concorsuale) trova qui puntuale base normativa, atteso che l'art. 8, comma 2, l. n. 590/1965 afferma espressamente che la prelazione non è consentita nei casi di permuta, vendita forzata, liquidazione coatta, fallimento, espropriazione per pubblica utilità e quando i terreni in base a piani regolatori, anche se non ancora approvati, siano destinati ad utilizzazione edilizia, industriale o turistica.

L'intimazione di sfratto per morosità o per finita locazione

È necessario infine analizzare quali strumenti possano essere utilizzati nei confronti del conduttore che, pur vantando un titolo opponibile alla procedura, si renda moroso o rifiuti di riconsegnare l'immobile alla scadenza del contratto.

L'orientamento prevalente esclude che in questi casi si possa agire con l'ordine di liberazione pronunciato dal giudice dell'esecuzione ai sensi dell'art. 560, comma 3, c.p.c. in quanto, essendo il titolo opponibile alla procedura, non sono utilizzabili gli strumenti endoprocessuali (cfr. Merlin, 125 ss.; Montanaro, 283 ss.; Arieta, De Santis, 1191 ss. Contra Cirulli n. 119, il quale nel riferirsi all'art. 560 nel testo ridisegnato dal d.l. n. 59/2016 ne prospetta un'interpretazione estensiva, facendovi rientrare anche il conduttore in virtù di contratto di locazione opponibile ai creditori, il quale si sia reso inadempiente all'obbligo di pagamento del canone o di restituzione dell'immobile alla scadenza: in tal caso il custode sarebbe esentato dall'intimazione dello sfratto per morosità o per finita locazione, potendo chiedere l'ordine di liberazione).

Ergo dovrà essere percorsa la via della intimazione di sfratto per morosità o per finita locazione (Cass. n. 26238/2007; Trib. Reggio Emilia, Sez. Agr., n. 1644/2012; Trib. Reggio Emilia, Sez. Agr., ord. 8 novembre 2011). Peraltro, a conferma di questo assunto, si noti che l'art. 3 d.m. n. 80/2009, (recante «regolamento in materia di determinazione dei compensi spettanti ai custodi dei beni pignorati») prevede compensi ad hoc dovuti al custode per specifiche attività, tra cui la convalida della licenza o dello sfratto per finita locazione o per morosità. Ed allora, se in presenza di morosità o in occasione della scadenza della locazione potesse adottarsi ed attuarsi l'ordine di liberazione la previsione ora richiamata non avrebbe senso in quanto il custode non avrebbe mai bisogno di essere autorizzato ad intraprendere un procedimento di sfratto.

Un apparente dubbio potrebbe porsi rispetto ad un contratto risolto in forza di una clausola risolutiva espressa, poiché essa determina l'estinzione ex lege del vincolo sinallagmatico a norma dell'art. 1456, comma 2, c.c. (Cass. n. 11864/2015; Cass. n. 25743/2013; Cass. n. 23625/2004).

In realtà, le perplessità si dissipano ove si osservi che, trattandosi di locazione opponibile, l'unico strumento processuale utilizzabile sarà quello della intimazione di sfratto, poiché il discrimine non può essere individuato nella natura, dichiarativa o costitutiva, della sentenza che accerta la cessazione del rapporto contrattuale, ma va comunque ricercato nell'unico criterio discretivo posto dal legislatore con l'art. 2923 c.c., rappresentato, in linea generale, dalla anteriorità o meno della nascita del rapporto locatizio rispetto al pignoramento (D'Alonzo, 46).

Diverso sarebbe il caso in cui il rapporto fosse già venuto meno alla data del pignoramento, poiché in questa evenienza un rapporto contrattuale ormai estintosi sarebbe per sua natura inopponibile, e dunque la pronuncia dell'ordine di liberazione si giustificherebbe in ragione della inesistenza, alla data del pignoramento, di un titolo opponibile.

Morosità e scadenza del contratto intervenute a cavallo tra aggiudicazione e decreto di trasferimento

Si deve affrontare altresì il caso, non infrequente nella prassi, in cui la morosità, e quindi i presupposti di una intimazione di sfratto, maturino dopo l'aggiudicazione del bene, e prima della pronuncia del decreto di trasferimento, occorrendo chiedersi, in questa situazione, se il custode sia tenuto, anche nell'interesse dell'aggiudicatario, ad intimare lo sfratto.

La risposta deve essere negativa. Invero, ad aggiudicazione ormai intervenuta, non è più necessario liberare un immobile che l'aggiudicatario conosce non essere libero, e pertanto non ha un interesse giuridicamente qualificato alla consegna materiale dello stesso, potendo piuttosto legittimamente valutare se intimare sfratto per morosità (Secondo Cass. n. 12883/2012, l'acquirente di un immobile locato a terzi, in quanto cessionario ex lege del contratto di locazione e di tutti i diritti e le facoltà da esso scaturenti, è pienamente legittimato ad intimare al conduttore lo sfratto, a nulla rilevando né che la morosità fosse maturata prima della vendita dell'immobile, né che prima di tale momento la locazione fosse cessata per scadenza del termine) o agire semplicemente per il pagamento dei canoni che dovessero rimanere insoluti dopo il decreto di trasferimento.

Interesse della procedura è piuttosto quello ad ottenere il pagamento dei canoni di locazioni quali frutti civili, e quindi l'unica azione giudiziale che dovrà essere valutata è quella necessaria ad acquisire alla procedura esecutiva i canoni maturati e non riscossi.

A diversa conclusione deve pervenirsi nel caso di locazione il cui termine finale venga a scadere prima dell'aggiudicazione.

In questa situazione, infatti, sarà onere della procedura intimare lo sfratto per finita locazione, al fine di adempiere alla obbligazione di consegna dell'immobile, occorrendo tutelare il diritto dell'aggiudicatario ad avere la disponibilità del cespite libero da persone e cose quante volte non gli siano opponibili (perché stipulate prima del pignoramento perché estintesi prima del decreto di trasferimento) precedenti locazioni.

Sfratto per morosità e pignoramento di quota

Può accadere che il custode sia chiamato a confrontarsi con un contratto di locazione opponibile in occasione del pignoramento che colpisca la quota indivisa, e dunque si interroghi in ordine paniere delle iniziative disponibili per far fronte alla morosità del conduttore.

La cornice normativa di riferimento in questa fattispecie è rappresentata dalla disciplina codicistica della comunione.

Ai sensi dell'art. 1103 c.c., ciascun comproprietario della cosa comune può disporre del suo diritto e cedere ad altri il godimento della cosa nei limiti della sua quota. Ogni comproprietario, dunque, può concludere negozi giuridici che abbiano ad oggetto la quota di sua appartenenza, purché questi negozi non incidano sull'uso della cosa comune da parte degli altri comproprietari (art. 1102 c.c.).

L'amministrazione della cosa comune è poi regolata dall'art. 1105 e ss. c.c., a mente del quale tutti i partecipanti hanno diritto di concorrere nell'amministrazione della cosa in comproprietà, e le decisioni che concernono l'ordinaria amministrazione della stessa vengono prese a maggioranza dei comproprietari, calcolate secondo il valore delle rispettive quote, con deliberazioni che sono valide se tutti i partecipanti sono stati preventivamente informati sull'oggetto della deliberazione. L'ultimo comma del citato articolo dispone poi che se le decisioni necessarie all'amministrazione della cosa comune non vengono assunte (oppure non si forma o non è formabile una maggioranza, come ad esempio accade quando due comproprietari sono titolari, ciascuno, del 50% dell'intero) o non vengono eseguite, ogni partecipante può promuovere un ricorso all'autorità giudiziaria che decide in luogo della maggioranza dei comproprietari, e se ritenuto può nominare un amministratore affinché le decisioni assunte siano concretamente attuate.

Infine, va ancora considerato l'art. 1106 c.c., il quale prevede che la maggioranza dei comproprietari può anche approvare un regolamento che disciplini l'uso della cosa comune e la sua ordinaria amministrazione, delegandola eventualmente ad uno o più comproprietari ovvero ad un terzo estraneo.

Così ricostruito il quadro normativo di riferimento, per assumere le determinazioni del caso occorrerà in primo luogo verificare se il contratto di locazione abbia avuto ad oggetto l'intero o la singola quota; in tale ultimo caso il custode potrà agire ai fini della riscossione dei canoni e per la intimazione di uno sfratto per morosità.

Se invece il contratto abbia avuto ad oggetto l'intero, dovrà procedersi ad una sua interpretazione e verificare se ciascun comproprietario abbia concesso in locazione la propria quota (cosa che legittimerà il custode ad agire come se la locazione avesse avuto ad oggetto la singola quota) ovvero (cosa più probabile) se il contratto abbia avuto ad oggetto la locazione dell'intero, senza distinzione alcuna.

In quest'ultimo caso il comportamento da serbare deve partire dalla considerazione per cui la locazione della cosa comune si qualifica, secondo la giurisprudenza, come atto di ordinaria amministrazione. Si è detto, infatti, che «Con riguardo ad un procedimento di sfratto per finita locazione relativo ad un immobile in comproprietà, ciascun comproprietario – quale titolare del diritto di concorrere alla gestione ordinaria del bene, con il solo limite del rispetto della volontà della maggioranza – è legittimato ad agire in giudizio, nella presunzione del consenso degli altri alla proposizione dell'azione, salva la possibilità per i comproprietari che rappresentino una quota maggioritaria di opporsi all'azione medesima. Nel caso in cui siano i comproprietari rappresentanti una quota maggioritaria ad agire in giudizio, un eventuale loro interesse personale al rilascio dell'immobile (nella specie, ai fini dell'utilizzazione di esso in proprio) non vale a trasformare la domanda giudiziale in un atto eccedente l'ordinaria amministrazione, atteso che il suddetto interesse non «qualifica» l'atto di gestione, inerendo alla successiva utilizzazione del bene, peraltro rimessa alla determinazione anche degli altri comproprietari e comunque non realizzabile senza un corrispondente vantaggio di tutti» (Cass. n. 4005/1995).

Ed allora il custode dovrà ottenere dal giudice dell'esecuzione l'autorizzazione ad agire per la risoluzione del contratto, previa acquisizione del consenso della maggioranza dei comproprietari.

Ottenuta detta autorizzazione, il custode dovrà interloquire con i comproprietari, comunicando loro l'intenzione di agire per la risoluzione del contratto, concedendo loro un congruo termine per esplicitare il proprio dissenso, avvertendoli che in difetto il loro silenzio sarà considerato tacito assenso.

Ove la maggioranza dei condomini dovesse ritenere di non recidere il sinallagma, non resterà che chiedere, eventualmente anche per il tramite di un ricorso all'autorità giudiziaria ex art. 1105, ultimo comma, c.c., che si agisca giudizialmente per ottenere la condanna del conduttore al pagamento della quota parte dei canoni non versati o per intimare uno sfratto per morosità.

Gli obblighi tributari del custode connessi alla locazione

Sul piano tributario il contratto di locazione è fonte costitutiva di una serie di obbligazioni.

In primo luogo, vengono in rilievo gli adempimenti relativi alla registrazione del contratto ed al versamento della relativa imposta.

Ai fini dell'imposta di registro occorre distinguere tra contratti di locazione stipulati dal custode e contratti di locazione stipulati, prima del pignoramento, dall'esecutato.

In relazione ai primi il custode, in quanto parte del rapporto contrattuale, è certamente tenuto ad adempiere agli obblighi tributari concernenti l'imposta di registro in forza della previsione di cui all'art. 57 d.P.R. n. 131/1986.

A questo proposito va ricordato che l'art. 5, parte I della tariffa dell'imposta di registro assoggetta all'obbligo di registrazione, da eseguirsi nel termine di 30 giorni dalla stipula, tutti i contratti di locazione ed affitto di beni immobili che abbiano una durata superiore ai 30 giorni (anche se il relativo canone è soggetto ad IVA), ed al relativo adempimento sono tenuti, in solido, locatore e conduttore (nelle locazioni disciplinate dalla l. n. 431/1998, invece, all'obbligo della registrazione del contratto è tenuto il solo locatore.). Ai fini del pagamento dell'imposta è opportuno che il custode si procuri la relativa provvista in occasione della sottoscrizione del contratto; in alternativa, egli potrà procedere utilizzando il fondo spese eventualmente versato dal creditore a norma dell'art. 8 d.P.R. n. 115/2002, o altre disponibilità della procedura riferibili alla medesima massa (sicché, ad esempio, ai fini della registrazione non potrà utilizzare i proventi dalla vendita di un lotto diverso, sul quale alcuni creditori vantino diritti di prelazione non spettanti sul bene oggetto del contratto).

Nessun adempimento deve invece essere compiuto in relazione ai contratti non stipulati dal custode, poiché ad essi, come si è visto, il custode non subentra. In questo caso andrà assolta la sola imposta di bollo (nella misura di 2 Euro) in occasione della emissione di quietanze di importo superiore ad Euro 77,47.

A proposito degli altri aspetti effetti fiscali, l'Agenzia delle Entrate con la risoluzione 158/E del dell'11 novembre 2005 (pronunciata a seguito di una istanza di interpello concernente proprio gli obblighi tributari del custode giudiziario nel caso di incasso di canoni derivanti dalla locazione di immobili pignorati) ha premesso che nel caso di pignoramento non si determina alcuna modificazione soggettiva nella titolarità del diritto di proprietà sui beni, ed il custode agisce in sostituzione dell'esecutato. In particolare, secondo l'Agenzia, la custodia giudiziaria è strettamente connessa, sul piano funzionale, all'atto di pignoramento, realizzando sul versante fattuale il vincolo di indisponibilità che esso determina. Essa, pertanto, non determina alcuna modifica della titolarità dei beni e dei frutti che ne sono oggetto, e quindi il custode non assume la proprietà degli stessi, ma si limita alla loro gestione.

Da queste premessa si ricaverebbe allora che soggetto passivo dell'obbligazione tributaria è pur sempre il debitore esecutato, sia ai fini IVA (a proposito della quale l'Agenzia ha ritenuto che in capo all'esecutato permane l'obbligo di liquidazione, versamento e dichiarazione del tributo, mentre obbligato a emettere fattura, in sostituzione del contribuente, sia il custode – poiché l'emissione della fattura è strettamente funzionale all'apprensione dei canoni locatizi – cui il custode deve trasmettere, oltre all'importo del tributo incassato, copia della fattura, a meno che l'esecutato non si renda irreperibile, nel qual casa sarà il custode giudiziario a versare l'IVA direttamente all'Erario), sia ai fini IRPEF.

A fronte della netta posizione espressa dall'Agenza delle entrate, nella giurisprudenza di legittimità si registrano orientamenti non consonanti.

In materia di IRPEF, la tesi patrocinata dall'amministrazione finanziaria è stata sostenuta da Cass. V, n. 20764/2006, secondo la quale in tema di imposte sui redditi, il reddito fondiario derivante dalla locazione di un immobile sottoposto a pignoramento concorre alla formazione del reddito del debitore esecutato, indipendentemente dalla percezione dei canoni, a norma dell'art. 23 del d.P.R. n. 917/1986, in quanto, se, in base all'art. 2912 c.c., il pignoramento comprende i frutti della cosa pignorata, sicché i suoi effetti si estendono, nel caso di pignoramento immobiliare, ai canoni di locazione maturati successivamente al perfezionamento del vincolo, nondimeno i canoni stessi appartengono, come l'immobile, fino alla vendita coattiva, al debitore esecutato, cui sarà restituito l'eventuale residuo del ricavato della vendita e delle rendite maturate.

Differente principio è stato invece espresso da Cass. n. 4943/2006, ove si è ritenuto che in tema di IRPEF «... in caso di sequestro conservativo di immobili, il debitore nominato custode non può considerarsi titolare di alcun reddito proveniente dagli stessi, poiché i frutti civili sono sottratti alla sua disponibilità, ai sensi dell'art. 559 c.p.c., richiamato dal successivo art. 679, e l'obbligo legale di rendiconto prescritto dall'art. 560 impone l'esclusione di tali frutti dalla base imponibile, ai sensi dell'art. 3, comma 1, del d.P.R. n. 597/1973, a tenore del quale l'imposta si applica sul reddito complessivo netto formato da tutti i redditi del soggetto passivo, compresi i redditi altrui dei quali egli ha la libera disponibilità o l'amministrazione senza obbligo della resa dei conti».

Tale ultimo assunto è stato in seguito ripreso da Cass. n. 23620/2011, la quale ha ribadito che in tema di Irpef, l'intestatario di un immobile sottoposto a sequestro giudiziario [ma le argomentazioni spese valgono tal quali a proposito del pignoramento] non può considerarsi titolare di alcun reddito proveniente dall'immobile in questione, poiché i canoni, ed in generale tutti gli altri frutti civili, sono nella disponibilità del custode, ai sensi dell'art. 560 c.p.c., richiamato dal successivo art. 676, e l'obbligo legale di rendiconto, prescritto a carico del custode dall'art. 593 c.p.c., impone l'esclusione di tali frutti dalla base imponibile dell'intestatario medesimo, ai sensi dell'art. 3, comma 1, d.P.R. n. 917/1986 a tenore del quale «l'imposta si applica sul reddito complessivo netto del soggetto, formato... da tutti i redditi posseduti». (In applicazione del principio, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata che aveva annullato un avviso di accertamento in relazione all'omessa contabilizzazione da parte del proprietario di canoni locativi, riscossi dal custode dell'immobile sottoposto a sequestro giudiziario).

Secondo questi arresti, cioè, i canoni di locazione non costituiscono reddito imponibile ai fini IRPEF, poiché ai sensi degli artt. 1 e 3 d.P.R. n. 917/1986 il presupposto impositivo è il «possesso» di un reddito, il che secondo la sentenze da ultimo citate non avviene in occasione del sequestro (ma chiaramente lo stesso vale per il pignoramento) poiché la disponibilità dei canoni di locazione è in capo al custode, ausiliario del giudice investito di un munus pubblico in funzione del superiore interesse della giustizia.

Le conclusioni cui è giunta la giurisprudenza meritano di essere condivise (né si pongono in contrasto con quanto affermato, in materia di IMU, da Cass. n. 5736/2013, poiché quella è una imposta indiretta che prescinde dal possesso di un reddito ma presuppone, sic et sempliciter, la titolarità del bene), soprattutto con riferimento alle locazioni stipulate direttamente dal custode, dopo il pignoramento, su autorizzazione del giudice, poiché rispetto ad esse non si pone neppure il problema del possibile rinvio all'art. 26, comma 1, secondo periodo, TUIR, (a norma del quale i redditi derivanti da contratti di locazione di immobili ad uso abitativo, se non percepiti, non concorrono a formare il reddito, purché la mancata percezione sia comprovata dall'intimazione di sfratto per morosità o dall'ingiunzione di pagamento) in quanto il debitore non è stato, né sarà mai, parte del contratto, e quindi i canoni non potranno essere per lui considerati reddito imponibile neanche sulla scorta della citata ultima disposizione.

Certamente, resta da chiedersi se i canoni di locazione, che sono pur sempre in proprietà del debitore (tanto è vero che a norma dell'art. 632, comma 2, c.p.c. gli viene restituito se la procedura esecutiva si estingue dopo la vendita stessa) diventino reddito imponibile, al più tardi, al momento della distribuzione del ricavato. In proposito è da ritenersi che la risposta debba essere affermativa, poiché un corrispettivo non può seguire un trattamento differenziato a seconda del fatto che sia materialmente versato o che sia destinato al pagamento di un debito del percettore; invero, l'attribuzione della somma ricavata dal procedimento liquidatorio al creditore produce, sul piano giuridico e fattuale, un effetto identico a quello prodotto da un adempimento spontaneo (tanto è vero che, ai fini IVA, il trasferimento subisce il medesimo trattamento). Ad argomentare diversamente si dovrebbe invero ritenere che non costituiscono «reddito» tutti quei proventi che il soggetto non incassa materialmente per destinarli, (ad esempio attraverso una indicazione di pagamento o una cessione di credito futuro) al pagamento dei propri debiti. In tal guisa, ad esempio, andrebbe escluso che costituisca reddito il corrispettivo derivante dalla locazione che l'imprenditore non incassa perché pignorato presso il conduttore, e così indirizzato ad estinguere un suo debito per effetto dell'ordinanza di assegnazione pronunciata dal giudice dell'esecuzione.

La custodia dell'immobile abitato dal debitore e dal suo nucleo familiare. Premessa

L'art. 4, comma 2, d.l. n. 135/2018, conv. dalla l. n. 12/2019, nel riscrivere l'art. 560 c.p.c. ha previsto un regime di favore per il debitore che abiti l'immobile pignorato, regime che la Riforma Cartabia ha sostanzialmente mantenuto, con qualche aggiustamento. Il cuore di questa disciplina si rinviene nei commi 3 ed 8 della disposizione, laddove è previsto che il debitore e i familiari che con lui convivono non perdono il possesso dell'immobile e delle sue pertinenze sino al decreto di trasferimento»; «quando l'immobile pignorato è abitato dal debitore e dai suoi familiari il giudice non può mai disporre il rilascio dell'immobile pignorato prima della pronuncia del decreto di trasferimento».

Secondo taluni da queste prescrizioni dovrebbe ricavarsi a contrario che la liberazione dell'immobile sarebbe obbligatoria quante volte l'immobile non sia abitato dal debitore e dal suo nucleo familiare (così Fanticini, 22 e 25).

La tesi è rimasta isolata, mentre ha ricevuto maggiore credito l'idea per cui il legislatore abbia voluto semplicemente introdurre un divieto alla liberazione in caso di immobile abitato, senza tuttavia prescrivere, a contrario, un obbligo di procedere alla liberazione negli altri casi (Vittoria, 247; Crivelli, 782; Russo, 697): la norma infatti contiene un elenco delle ipotesi in cui il giudice deve ordinare la liberazione, e che sono essenzialmente connessi alla violazione degli obblighi gravanti sul debitore ed alla circostanza per cui l'immobile non è abitato dal debitore, senza aggiungere che al loro ricorrere l'ordine di liberazione debba essere pronunciato.

La distinzione non è mero esercizio esegetica, poiché l'adesione all'una piuttosto che all'altra prospettiva implica delle conseguenze pratiche. Invero, aderendo alla prima impostazione si dovrebbe patrocinare la tesi per cui l'adozione dell'ordine di liberazione «quando» il bene non è abitato dal debitore sarebbe obbligatoria e non consentirebbe al giudice di valutare, ad esempio, di autorizzare l'occupazione dell'immobile da parte di un terzo che, pur titolare di un diritto non opponibile alla procedura, si dichiari disponibile a corrispondere una congrua indennità di occupazione, oppure fornisca sufficienti garanzie di conservazione dell'immobile rispetto ad ulteriori occupazioni abusive o a condizioni di abbandono.

La nozione di abitazione

Il regime parzialmente derogatorio immaginato per il debitore che abiti l'immobile impone, a monte di intendersi sulla individuazione degli immobili che rientrano nella disciplina del divieto di liberazione. Le opinioni che si affastellano sul punto sono variegate. Taluni ritengono che la norma interessi gli immobili destinati ad uso abitativo, per identificare i quali si dovrebbe avere riguardo esclusivamente alle risultanze catastali, mentre sarebbe giuridicamente irrilevante il concreto utilizzo del bene fatto dall'esecutato (Fanticini, cit.).

Dubbi sono sollevati invece da coloro che distinguono tra la situazione di un immobile la cui destinazione sia radicalmente diversa da quella abitativa, che determinerebbe l'insussistenza del diritto dell'esecutato ad abitarlo, da quella in cui si è in presenza di abusi sanabili, nel qual caso l'ostacolo ad abitare sarebbe solo di carattere formale (Crivelli, 760).

Una ulteriore prospettiva immagina di ritenere che, accanto all'elemento formale, occorra considerare la situazione di fatto in ragione dell'obiettivo perseguito dall'impianto complessivo dell'art. 560, che è quello di accordare tutela al debitore, in quanto tale, che abiti l'immobile, non già a determinate categorie di cespiti. La conseguenza che se ne dovrebbe trarre è allor quale per cui, a prescindere dalla destinazione catastale, un immobile che sia qualificabile come abitazione (ed a tal fine le indicazioni che rinvengono dalla perizia di stima sono fondamentali) e che di fatto sia abitato dal debitore (e dal suo nucleo familiare) non possa essere oggetto dell'ordine di liberazione (Russo, 700; D'Alonzo, Formulario, 138), indipendentemente dalla eventuale abusività, sanabile o insanabile, dello stesso.

È certamente vero, potrebbe replicarsi, che in tal guisa si legittimerebbero abusi, ma è facile replicare che se l'abuso edilizio necrotizza il diritto del debitore a continuare ad abitare l'immobile, se ne dovrebbe ricavare che l'ordine di liberazione va adottato anche quando il debitore abita, ad esempio, un immobile di categoria «A» in cui però sono stati commessi illeciti edilizi. Inoltre, questa affermazione collide con il principio per cui la qualificazione catastale identifica una situazione di fatto a prescindere dalla regolarità urbanistico edilizia della stessa, per cui se accatasto un immobile nella categoria «D», nulla impedisce all'Agenzia del Territorio di eseguire un accertamento e di assegnare al cespite una classificazione catastale diversa da quella dichiarata (D'Alonzo, Formulario, 138).

I presupposti soggettivi

Affinché sia preclusa la liberazione il novellato art. 560 richiede che l'immobile sia abitato dal debitore e dal suo nucleo familiare. Per famiglia deve intendersi la «famiglia anagrafica», definita dall'art. 4, comma 1, d.P.R. n. 223/1989 come un insieme di persone legate da vincoli di matrimonio, unione civile, parentela, affinità, adozione, tutela o da vincoli affettivi, coabitanti ed aventi dimora abituale nello stesso comune, così come risultanti dai registri anagrafici di cui al d.P.R. n. 223/1989.

La norma tace del tutto in ordine alla posizione del terzo esecutato ex art. 602, ma l'omogeneità di disciplina tra la posizione del debitore e quella del terzo esecutato si ottiene per il tramite dell'art. 604, comma 1, c.p.c., a mente del quale nell'esecuzione contro il terzo proprietario si applicano a questi «tutte le disposizioni relative al debitore, tranne il divieto di cui all'art. 579 comma 1» (D'Alonzo, Formulario, 138).

I molteplici richiami alla famiglia che convive con il debitore e che con lui abita l'immobile hanno indotto plurime riflessioni.

In primis, la norma deve è stata estesa sia alle convivenze more uxorio che alle unioni civili (disciplinate dalla l. n. 76/2016).

È invece discusso se essa operi con riferimento al debitore che abiti l'immobile da solo, e cioè senza nucleo familiare. Secondo alcuni in questo caso il divieto di adottare l'ordine di liberazione verrebbe meno, posto che reiteratamente il legislatore utilizza la congiunzione «e», per cui non vi sono margini per una interpretazione diversa da quella che individui la ratio legis nella tutela della famiglia (Fanticini, 10).

Opposta opinione viene sostenuta da coloro i quali ritengono che una siffatta ricostruzione renderebbe la previsione irragionevole (Angelone, 31; Finocchiaro, 511; Crivelli, 787) aggiungendosi da parte di taluni che la permanenza all'interno dell'abitazione debba essere garantita anche quando sopraggiunge, nel corso dell'esecuzione, un provvedimento di assegnazione della casa coniugale al coniuge del debitore, con contestuale allontanamento di questi (Russo, 703).

La Riforma Cartabia sembra aver risolto il problema. In particolare, sul presupposto per cui l'interesse privatistico del debitore all'abitazione ha natura di vero e proprio diritto fondamentale, come tale idoneo a comprimere (seppur in maniera temporanea) il pieno esercizio della tutela esecutiva poiché concorre a formare «i requisiti essenziali caratterizzanti la socialità cui si conforma lo Stato democratico voluto dalla Costituzione» (così C. cost. n. 128/2021) nella relazione illustrativa si legge che la riforma ha scelto di attribuire il beneficio in parola anche al debitore single.

In ogni caso, sarà comunque necessario acquisire il certificato di residenza anagrafica del debitore, residenza definita dall'art. 43, comma 2, c.c. come il «luogo in cui la persona ha la dimora abituale» (la quale a sua volta si caratterizza per l'elemento oggettivo della permanenza e per l'elemento soggettivo dell'intenzione di abitarvi stabilmente, rivelata dalle consuetudini di vita e dallo svolgimento delle normali relazioni sociali, Cass. n. 25726/2011) ed il certificato del suo stato di famiglia ex art. 33 d.P.R. n. 223/1989, la valenza dei quali è comunque presuntiva (Fanticini, 9; Russo, 702), al fine di verificare se il requisito in discorso preesista alla notifica del pignoramento.

Gli obblighi del debitore e dei familiari che abitano l'immobile

Il legislatore del 2019, nel prescrivere che il debitore e i familiari che con lui convivono non perdono il possesso dell'immobile e delle sue pertinenze (precisazione superflua perché la pertinenza segue, per regola generale, le vicende giuridiche cui soggiace la cosa principale) sino al decreto di trasferimento si era premurato di imporre all'esecutato vere e proprie obbligazioni ex lege. Si prescriveva infatti che: 1. l'esecutato è tenuto a rendere il conto a norma dell'art. 593 c.p.c. (comma 1); 2. il debitore e pure i membri del suo nucleo familiare sono obbligati a conservare diligentemente il bene pignorato e a mantenere e tutelare la sua integrità (commi 2 e 6); 3. l'esecutato deve consentire le visite all'immobile dei potenziali acquirenti, senza che sia ostacolato (da chicchessia) il diritto di visita degli interessati (commi 4 e 6); 4. al debitore è preclusa la concessione in locazione del bene senza l'autorizzazione del giudice dell'esecuzione (comma 7); 5. l'esecutato è tenuto al rispetto di tutti «gli altri obblighi che la legge pone a suo carico» (comma 6).

All'obbligo di conservazione il debitore e i membri del suo nucleo familiare devono provvedere in proprio, e dunque con proprie risorse (la cui mancanza non vale quale esimente non potendo costituire, la carenza di liquidità, giusta causa di inadempimento ex art. 1218 c.c.). Inoltre, essendo funzionale a preservare, nell'interesse della procedura, il valore economico dell'immobile come esistente al momento del pignoramento e a garantire «la piena corrispondenza tra la cosa sulla quale è caduta la manifestazione di volontà dell'aggiudicatario e quella venduta» (Cass. n. 1730/1995) esso impone l'adozione di tutti gli accorgimenti (una tantum o continuativi) volti ad evitare alterazioni peggiorative delle condizioni dell'immobile (nonché di pertinenze ed accessori), salvo il normale deterioramento per l'uso. L'obbligo di conservazione, sul piano soggettivo, deve essere adempiuto con la diligenza del buon padre di famiglia (comma 2), sanzionabile (con l'anticipata pronuncia dell'ordine di liberazione) per violazioni dolose o colpose (comma 6).

Tali obblighi sono stati ulteriormente perimetrati dalla Riforma Cartabia.

Invero, si ribadisce che costui deve: assicurare l'esercizio del diritto di visita conformemente alle disposizioni del giudice dell'esecuzione; tutelare e mantenere adeguatamente l'immobile in uno stato di buona conservazione; osservare gli altri obblighi che la legge pone a suo carico, la norma chiarisce (ma si tratta di approdo cui la prassi era già arrivata per via esegetica); non ostacolare le attività degli “ausiliari” del giudice, tra i quali va certamente annoverato anche l'esperto stimatore. In definitiva, si cristallizza non solo un obbligo di non frapporre ostacoli al fluido divenire della procedura sin dalle sue battute iniziali, ma anche un dovere di collaborazione attiva. Correlativamente, secondo le indicazioni che provenivano dalle migliori prassi, si positivizza il dovere per il custode giudiziario «di vigilare affinché il debitore e il nucleo familiare conservino il bene pignorato con la diligenza del buon padre di famiglia e ne mantengano e tutelino l'integrità».

L'esercizio del diritto di visita

Fondamentale è altresì che il debitore garantisca ai potenziali offerenti l'esercizio del diritto di visita. Così l'art. 560, comma 4, c.p.c., a norma del quale «il debitore deve consentire, in accordo con il custode, che l'immobile sia visitato da potenziali acquirenti» e far sì che non «sia ostacolato il diritto di visita di potenziali acquirenti» (art. 560, comma 6, c.p.c.). La norma pone il problema di quale sia l'oggetto di questo accordo, e dal combinato disposto delle disposizioni in parola sembra potersi costruire la regula iuris per cui le modalità del diritto di visita devono essere stabilite dal giudice dell'esecuzione che dunque ne fisserà il quomodo, (Fanticini, 15; Angelone, 522; Russo, 982), prevedendo ad esempio: che debbano essere evitati contratti tra gli offerenti; il numero massimo di persone che contemporaneamente potranno accedere all'immobile (ad esempio l'interessato ed un suo tecnico di fiducia); la durata massima di ogni visita (ad esempio 30 o 60 minuti a seconda del bene); il numero massimo di visite che potranno essere eseguite ogni giorno o ogni settimana; le modalità di prenotazione della visita, anche attraverso il ricorso al portale, non più obbligatoria; le modalità attraverso le quali il debitore ed il custode debbono concordare giorni ed orari di accesso (il giudice, ad esempio, potrà prevedere che custode e debitore dovranno individuare preventivamente un giorno della settimana, che potranno diventare 2 nell'ultima settimana, ed un congrua fascia orario in cui potranno essere eseguite le visite, in modo tale che il custode non sia costretto di volta in volta a contattare il debitore).

Spetterà poi al custode ed all'esecutato concordare la concreta fissazione delle visite dei potenziali acquirenti secondo un codice di comportamento ispirato alla buona fede oggettiva, funzionale a garantire che il pieno esercizio del diritto di visita determini il minor sacrificio possibile per le esigenze abitative del debitore. Resta fermo che, nel bilanciamento di esigenze potenzialmente contrapposte, gli interessi particolari del debitore saranno recessivi rispetto a quelli pubblicistici della vendita giudiziale.

La liberazione dell'immobile pignorato. Premessa

Uno degli aspetti più controversi e sensibili del variegato tema della custodia dell'immobile pignorato attiene certamente alla disciplina dell'ordine di liberazione, ed i plurimi interventi normativi che l'hanno attenzionata ne costituiscono plastica testimonianza.

Invero, la disciplina dell'ordine di liberazione è stata modificata, nell'ordine: dall'art. 2, comma 3, lett. e), d.l. n. 35/2005, conv. con modif., con l. n. 80/2005 come modificato dall'art. 1, l. n. 263/2005; dall'art. 4, comma 1, lett. d), nn. 01), 1) e 2), d.l. n. 59/2016, conv. con modif., dalla l. n. 119/2016; dall'art. 4, comma 2, d.l. n. 135/2018, conv. con modif., dalla l. n. 12/2019; infine, dall'art. 18-quater, comma 1, della l. n. 8/2020, conv. con modif., del d.l. n. 162/2019.

Prima della novella del 2005 l'art. 560 c.p.c., non conteneva riferimento esplicito all'istituto dell'ordine di liberazione, limitandosi a prevedere che «con l'autorizzazione del giudice il debitore può continuare ad abitare nell'immobile pignorato, occupando i locali strettamente necessari a lui e alla sua famiglia», e solo la prassi si era premurata di costruire l'ordine di liberazione quale provvedimento non annoverabile nel catalogo dei titoli esecutivi, a mezzo del quale il custode acquisiva la disponibilità dell'immobile al fine di collocarlo sul mercato (Trib. Salerno n. 1247/2005; Longo, 387) recuperando risalenti arresti della giurisprudenza di legittimità (Cass. n. 744/1949), secondo cui l'attuazione di liberazione dava luogo ad una procedura di rilascio, trattandosi di strumento auto esecutivo funzionale ad attuare la volontà del giudice che, nell'esercizio del potere dovere di direzione della procedura, aveva adottato i provvedimenti necessari per l'ulteriore corso della medesima, e ne affidava l'attuazione al custode eventualmente mediante l'ausilio della forza pubblica a norma dell'art. 68 c.p.c.

Con la riforma del 2005 (entrata in vigore il primo marzo 2006) il legislatore, oltre a generalizzare, nell'art. 559 c.p.c. la regola della sostituzione del custode giudiziale al debitore positivizzava l'istituto dell'ordine di liberazione, qualificandolo come titolo esecutivo, affidandone l'esecuzione al custode, anche dopo la pronuncia del decreto di trasferimento, e salvo diversa determinazione volitiva dell'aggiudicatario, e specificando che esso avrebbe dovuto essere adottato, al più tardi, al momento dell'aggiudicazione (Fanticini, 962).

L'intervento del 2016, dal canto suo, aveva ulteriormente specificato la disciplina dell'ordine di liberazione, il quale cessava di essere titolo esecutivo e quindi non doveva essere più «eseguito» ma «attuato» dal custode secondo le disposizioni del giudice dell'esecuzione immobiliare, a cura della procedura. Più precisamente, con la riscrittura dei commi terzo e quarto dell'art. 560 si era previsto che l'ordine di liberazione fosse «attuato dal custode secondo le disposizioni del giudice dell'esecuzione immobiliare, senza l'osservanza delle formalità di cui agli artt. 605 e ss.», aggiungendo che «per l'attuazione dell'ordine il giudice può avvalersi della forza pubblica e nominare ausiliari ai sensi dell'art. 68». Stabiliva, inoltre, che esso fosse «impugnabile per opposizione ai sensi dell'art. 617» i cui termini decorrevano, «per il terzo che vanta la titolarità di un diritto di godimento opponibile alla procedura ... dal giorno in cui si è perfezionata nei [suoi] confronti ... la notificazione del provvedimento».

Detta innovazione, evidentemente ispirata da una esigenza di efficientamento della procedura esecutiva, volta com'era a ricondurre l'attuazione dell'ordine di liberazione nel recinto dell'esecuzione immobiliare per sottoporla al controllo del giudice di questa e per liberarla dai vincoli processuali e dai costi dell'esecuzione per rilascio, aveva sollevato le critiche, a tratti aspre, di parte della dottrina, che stigmatizzava il sacrificio imposto al terzo titolare di un diritto opponibile alla procedura, che pur estraneo ad essa vendeva imbrigliata la propria tutela giurisdizionale all'interno degli angusti spazi di cui all'art. 617 c.p.c. (cfr. Tedoldi, 1329 ss.; Zingales, 675 ss.).

Secondo una meno rigorosa impostazione, il rischio paventato in realtà non ricorreva, in quanto il rimedio di cui all'art. 617 c.p.c. era strumento utilizzabile soltanto dai titolari di diritti personali di godimento (ritenuti) opponibili alla procedura, laddove invece il titolare di un diritto reale di godimento, il quale sostenesse di essere il suo diritto opponibile ai creditori perché trascritto (o usucapito) prima della trascrizione del pignoramento, non limitandosi a contestare il solo ordine di liberazione ma il diritto del creditore di sottoporre a espropriazione anche il suo diritto reale avrebbe avuto a disposizione il rimendo della opposizione di terzo ex art. 619 c.p.c. (così Olivieri).

Di diverso avviso altra dottrina (Fanticini, 962) la quale aveva invece ritenuto che all'interno del rimedio oppositivo di cui all'art. 617 c.p.c. dovevano ritenersi convogliate tutte le tutele dell'acquirente, e che la mancata proposizione dell'opposizione – expressis verbis attribuita anche al terzo – comportava una sorta di «acquiescenza» all'ordine, con conseguente preclusione – insita nel divieto di venire contra factum proprium – a riproporre le questioni non sollevate dall'interessato rimasto inerte.

Il sistema delineato dall'art. 560 c.p.c. era comunque chiaro: il terzo il quale si ritenesse titolare di un diritto (secondo alcuni personale e non già reale) opponibile alla procedura era legittimato a promuovere opposizione agli atti esecutivi nel termine di 20 giorni decorrenti dall'avvenuto perfezionamento della notifica dell'ordine di liberazione nei suoi confronti.

La modifica dell'art. 560 ad opera dall'art. 4, comma 2, d.l. n. 135/2018, conv. con modif., con l. n. 12/2019, avendo cancellato con un tratto di penna il procedimento attuativo semplificato scritto nel 2016, aveva riproposto il problema delle modalità di attuazione/esecuzione dell'ordine di liberazione, poiché a differenza di quanto avvenuto sino a quel momento, in quest'ultimo intervento manipolativo il legislatore non aveva affrontato l'argomento, facendo riaffiorare i dubbi interpretativi che si erano posti prima della riformulazione dell'ormai lontano 2006.

Due gli scenari ipotizzabili.

Il primo era quello di considerare l'ordine di liberazione titolo esecutivo per rilascio ai sensi dell'art. 474 c.p.c., da eseguire dunque con le forme prescritte dagli artt. 605 ss. c.p.c. (Angelone, 521), in ragione del fatto che il legislatore del 2019 aveva espunto dall'ordito normativo il procedimento semplificato introdotto nel 2016.

A questa opzione ricostruttiva si era tuttavia obiettato: il fatto che, a differenza della versione del 2006, l'art. 560 non individuava più il soggetto che avrebbe dovuto fungere da creditore, e che dunque sul piano processuale avrebbe dovuto essere titolare della legittimazione ad agire (a meno che, si potrebbe replicare, non si voglia individuare nello stesso custode il soggetto legittimato); il principio della tassatività dei titoli esecutivi giudiziali (Così Vaccarella, 47; Capponi, 10) ricavabile dall'art. 474, comma 2, n. 1) c.p.c. il quale annovera tra i titoli idonei a fondare un'esecuzione forzata «gli altri atti ai quali la legge attribuisce espressamente efficacia esecutiva», con ciò richiedendo un'esplicita volontà legislativa in tal senso (Fanticini, 1659); il pregiudizio che una esecuzione per rilascio avrebbe determinato sul piano della ragionevole durata del processo, pregiudizio che aveva contribuito a suggerire il cambio di rotta segnato con la riforma del 2016 (Fanticini, 1659).

Altri avevano osservato che la impossibilità di qualificare l'ordine di liberazione come titolo esecutivo deriverebbe inoltre dal fatto che la sua pronuncia segue ad un accertamento sommario che si svolge in modo del tutto deformalizzato, privo di attitudine decisoria (e quindi di capacità di costituire cosa giudicata) che possa consentirgli di produrre effetti al di fuori della procedura medesima [Cass. n. 15623/2010 dispone che il provvedimento con il quale il giudice dell'esecuzione, ai sensi dell'art. 560, comma 3, c.p.c. (come sostituito dall'art. 2, comma 3, lett. e) n. 21 d.l. n. 35/2005, conv. con modif., nella l. n. 80/2005 come sostituito dall'art. 1, comma 3, lett. i), l. n. 263/2005), ordina la liberazione dell'immobile pignorato non è suscettibile di ricorso per cassazione ai sensi dell'art. 111, comma 7, Cost., trattandosi di provvedimento per il quale non ricorrono i requisiti della decisorietà e della definitività, pur rimanendo possibile, per il terzo avente titolo alla prosecuzione della legittima detenzione dell'immobile (come il conduttore iure locationis), formulare opposizione all'esecuzione avverso il provvedimento stesso, che costituisce titolo esecutivo per il rilascio da eseguirsi a cura del custode]; quindi, la natura di titolo esecutivo andava esclusa indipendentemente dal fatto che la riforma del 2019 avesse eliminato quella parte dell'art. 560 c.p.c. in cui veniva precisato che l'ordine di liberazione era «attuato» non già «eseguito» senza l'osservanza delle formalità di cui agli artt. 605 e ss. c.p.c., anche in ragione del fatto che quelle disposizioni non erano presenti neppure prima della riforma del 2005, e ciononostante non si riteneva che l'ordine di liberazione dovesse trovare attuazione nelle forme di cui agli artt. 605 e ss. c.p.c. (Crivelli,798).

Esclusa, per tutte le ragion sin qui richiamate, la possibilità di concepire un ordine di liberazione da eseguirsi per il tramite di una autonoma esecuzione per rilascio, non restava che immaginarlo come un provvedimento ordinatorio, da adottare nella forma dell'ordinanza della cui attuazione si occupa il giudice dell'esecuzione immobiliare, avvalendosi dei suoi poteri di direzione ex art. 484 c.p.c., per il tramite del custode, eventualmente mediante l'ausilio della forza pubblica, nelle forme di cui all'art. 669-duodecies c.p.c. (Fanticini, 781; Russo 689).

Le novità del 2020

Queste condivisibili conclusioni devono oggi misurarsi con l'ennesimo intervento normativo che ha avuto di mira l'art. 560 c.p.c.

L'art. 18-quater comma 1 della l. n. 8/2020, conv. con modif., del d.l. n. 162/2019 ha aggiunto all'art. 560, comma 6, i seguenti periodi: «A richiesta dell'aggiudicatario, l'ordine di liberazione può essere attuato dal custode senza l'osservanza delle formalità di cui agli artt. 605 e ss.; il giudice può autorizzarlo ad avvalersi della forza pubblica e nominare ausiliari ai sensi dell'art. 68. Quando nell'immobile si trovano beni mobili che non debbono essere consegnati, il custode intima alla parte tenuta al rilascio di asportarli, assegnando ad essa un termine non inferiore a trenta giorni, salvi i casi di urgenza da provarsi con giustificati motivi. Quando vi sono beni mobili di provata o evidente titolarità di terzi, l'intimazione è rivolta anche a questi ultimi con le stesse modalità di cui al periodo precedente. Dell'intimazione è dato atto nel verbale. Se uno dei soggetti intimati non è presente, l'intimazione gli è notificata dal custode. Se l'asporto non è eseguito entro il termine assegnato, i beni mobili sono considerati abbandonati e il custode, salva diversa disposizione del giudice dell'esecuzione, ne dispone lo smaltimento o la distruzione. Dopo la notifica o la comunicazione del decreto di trasferimento, il custode, su istanza dell'aggiudicatario o dell'assegnatario, provvede all'attuazione del provvedimento di cui all'art. 586, comma 2, decorsi sessanta giorni e non oltre centoventi giorni dalla predetta istanza, con le modalità definite nei periodi dal secondo al settimo del presente comma».

Inoltre, il comma 2 del medesimo art. 18-quater ha previsto che in deroga a quanto previsto dal comma 4 dell'art. 4 del d.l. n. 135/2018, conv. con modif., dalla l. n. 12/2019 (il quale prevedeva che: «le disposizioni introdotte con il presente articolo non si applicano alle esecuzioni iniziate anteriormente alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto») le disposizioni introdotte dal comma 2 del predetto articolo 4 si applicano anche alle procedure di espropriazione immobiliare pendenti alla data di entrata in vigore della citata l. n. 12/2019 nelle quali non sia stato pronunciato provvedimento di aggiudicazione del bene.

La novità sul cui significato occorre interrogarsi in questa sede è rappresentata dalla anfibologica previsione per cui «A richiesta dell'aggiudicatario, l'ordine di liberazione può essere attuato dal custode senza l'osservanza delle formalità di cui agli artt. 605 e ss.». Innanzitutto, v'è da chiedersi come mai la disposizione sia stata inserita all'interno del comma 6 dell'art. 560, ove si contemplano ipotesi di liberazione anticipata (per violazione dei doveri gravanti sul debitore e sui suoi familiari conviventi) e ciononostante si allude ad una istanza dell'aggiudicatario.

Una lettura sistematica delle diverse componenti di cui questo composito mosaico normativo portava a ritenere che essa andasse interpretata come riconoscitiva di uno specifico diritto in capo all'aggiudicatario: quello di chiedere ed ottenere che la procedura si occupi dell'attuazione della liberazione dell'immobile, e ciò in perfetta sintonia con gli esiti cui poteva giungersi anche in applicazione della disciplina generale della vendita, (laddove non incompatibili con la natura coattiva del trasferimento) ed in particolare degli artt. 1476 e 1477 c.c. Infatti, la Corte di Cassazione, in plurimi arresti, ha più volte ribadito che nella vendita forzata, pur non essendo ravvisabile un incontro di consensi, tra l'offerente ed il giudice, produttivo dell'effetto transattivo, essendo l'atto di autonomia privata incompatibile con l'esercizio della funzione giurisdizionale, l'offerta di acquisto del partecipante alla gara costituisce il presupposto negoziale dell'atto giurisdizionale di vendita; con la conseguente applicabilità delle norme del contratto di vendita non incompatibili con la natura dell'espropriazione forzata, quale l'art. 1477 c.c.. concernente l'obbligo di consegna della cosa da parte del venditore. Ne deriva che, in relazione allo «ius ad rem» (pur condizionato al versamento del prezzo), che l'aggiudicatario acquista all'esito dell'iter» esecutivo, è configurabile un obbligo di diligenza e di buona fede dei soggetti tenuti alla custodia e conservazione del bene aggiudicato, così da assicurare la corrispondenza tra quanto ha formato l'oggetto della volontà dell'aggiudicatario e quanto venduto. Pertanto, qualora l'aggiudicatario lamenti che l'immobile aggiudicato sia stato danneggiato prima del deposito del decreto di trasferimento, il giudice è tenuto a valutare la censura dell'aggiudicatario medesimo, diretta a prospettare la responsabilità del custode (nella specie, della curatela fallimentare che aveva proceduto alla vendita forzata), in base ai principi generali sull'adempimento delle obbligazioni (art. 1218 c.c.), per inadeguata custodia del bene posto in vendita, fino al trasferimento dello stesso (Cass. n. 1730/1995; Cass. n. 14765/2014).

Andava perciò esclusa la possibilità di estrapolare dalla norma la regola di diritto per cui le modalità attraverso cui la procedura esecutiva giungeva alla liberazione dell'immobile mutassero a seconda della circostanza per cui quella liberazione fosse chiesta dall'aggiudicatario (nel qual caso il custode si orientava nel perimetro della esecuzione immobiliare, provvedendo egli istesso alla liberazione) oppure fosse disposta dal giudice (circostanza nella quale, secondo la tesi qui ripudiata, il custode avrebbe dovuto agire ex art. 605 e ss. c.p.c.).

Invero, una interpretazione di tal fatta da un lato avrebbe esposto la procedura a fondati sospetti di legittimità costituzionale, poiché situazioni identiche sarebbero state trattate in modo assolutamente differente; inoltre, sempre sul versante costituzionale, questo distinguo avrebbe reso il sistema meno ossequioso dei principi della ragionevole durata e del contenimento dei costi del processo (In argomento, Fanticini).

La norma pertanto reintroduceva nel corpo dell'art. 560 la previsione (già presente prima delle modifiche del 2019) per cui l'ordine di liberazione è attuabile, nell'interesse dell'aggiudicatario, anche dopo la pronuncia del decreto di trasferimento, con la differenza, tuttavia, che mentre il testo scritto nel 2016 disponeva che l'attuazione dell'ordine di liberazione rientrasse nei compiti istituzionali del custode, cui egli doveva provvedere a meno che l'aggiudicatario non lo dispensasse l'art. 560, comma 4, prevedeva infatti che l'ordine di liberazione «è attuato dal custode ... anche successivamente alla pronuncia del decreto di trasferimento nell'interesse dell'aggiudicatario o dell'assegnatario se questi non lo esentano») per effetto della nuova disposizione affinché il custode si attivi è necessario un atto di impulso da parte dell'aggiudicatario (D'Alonzo, 29; Soldi, 2561; Salvati, 17).

La norma non indica entro quale termine l'aggiudicatario debba formulare l'istanza in parola, ma al vuoto normativo può tuttavia agevolmente sopperirsi in applicazione delle regole generali di cui agli artt. 175 e 484 c.p.c., e dunque potrà essere il giudice a indicare, nell'ordinanza di vendita, il termine (ordinatorio, a norma dell'art. 152 c.p.c.) entro il quale il diritto potestativo potrà essere esercitato, che comunque non potrà essere successivo alla pronuncia del decreto di trasferimento (Marchese, 26; Russo, 989) senza che a tal fine sia necessario che l'aggiudicatario sia assistito di una difensore (Russo, 988).

Attuazione dell'ordine di liberazione emesso prima dell'aggiudicazione ed istanza dell'aggiudicatario

Occorreva infine stabilire se l'attuazione dell'ordine di liberazione fosse subordinato alla espressa richiesta dell'aggiudicatario anche laddove emesso prima dell'aggiudicazione (con contestuale ordine rivolto al custode di provvedere alla sua attuazione).

Sul punto non si registravano unanimità di vedute. Taluni osservavano che, intervenuta l'aggiudicazione, in assenza di un atto di impulso dell'aggiudicatario l'attuazione dell'ordine di liberazione non avrebbe potuto proseguire, in quanto si trattava di svolgere attività onerose da effettuarsi in assenza dell'interesse del destinatario finale della liberazione (Soldi, 2561; Russo, 989). Altri osservava che, anche dopo l'aggiudicazione, il custode non sarebbe stato esentato dal provvedere in mancanza di istanza dell'aggiudicatario; egli invero era obbligato ad ottemperare alle disposizioni impartitegli dal giudice dell'esecuzione poiché in questo si sostanziava l'adempimento dei suoi doveri d'ufficio, sicché la reale portata precettiva della nuova disposizione andava individuata nell'esplicito riconoscimento, anche in capo all'aggiudicatario, di uno specifico potere di impulso processuale (D'Alonzo, 30), potendosi ulteriormente aggiungere la considerazione per cui l'aggiudicatario avrebbe potuto formulare offerta di acquisto proprio confidando sul fatto che era in corso l'attuazione dell'ordine di liberazione, e dunque andava tutelata la sua aspettativa all'acquisto di un bene libero.

A proposito del modus procedendi, le novità del 2020 ritornavano alla positiva esperienza del d.l n. 59/2016. Nessuno dunque dubitava del fatto che, anche alla luce dell'ennesimo intervento sull'art. 560 c.p.c., l'ordine di liberazione si attuasse in via breve, a cura del custode, nell'ambito dell'esecuzione immobiliare e sotto la direzione del giudice di questa, secondo i meccanismi procedimentali congegnati dal legislatore nel 2016, prescindendo dal rinvio agli artt. 605 e ss. c.p.c.

Ordine di liberazione e riforma Cartabia

Una ultima sistemazione normativa all'ordine di liberazione si deve alla Riforma Cartabia. Il d.lgs n. 149/2022 era stato incaricato dalla legge delega di «prevedere che il giudice dell'esecuzione ordina la liberazione dell'immobile pignorato non abitato dall'esecutato e dal suo nucleo familiare ovvero occupato da soggetto privo di titolo opponibile alla procedura, al più tardi nel momento in cui pronuncia l'ordinanza con cui è autorizzata la vendita o sono delegate le relative operazioni e che ordina la liberazione dell'immobile abitato dall'esecutato convivente col nucleo familiare al momento in cui pronuncia il decreto di trasferimento, ferma restando comunque la possibilità di disporre anticipatamente la liberazione nei casi di impedimento alle attività degli ausiliari del giudice, di ostacolo del diritto di visita di potenziali acquirenti, di omessa manutenzione del cespite in uno stato di buona conservazione o di violazione degli altri obblighi che la legge pone a carico dell'esecutato o degli occupanti». Il legislatore delegante prescriveva poi che il custode avrebbe dovuto ad attuare il provvedimento di liberazione del cespite, secondo le disposizioni del giudice dell'esecuzione immobiliare, senza l'osservanza delle formalità di cui agli artt. 605 ss. c.p.c., anche successivamente alla pronuncia del decreto di trasferimento, nell'interesse dell'aggiudicatario o dell'assegnatario, se questi non lo avessero esentato.

Sulla scorta di queste direttive, il nuovo art. 560 c.p.c., dopo aver ribadito in esergo che debitore e custode giudiziario debbono rendere il conto a norma dell'art. 593, riafferma in primis, con forza, che il divieto di stipulare locazioni in assenza di autorizzazione del giudice dell'esecuzione, riguarda non solo il debitore, ma anche il custode.

La riforma, prendendo atto della funzionalità dell'anticipata liberazione dell'immobile a rendere appetibile la vendita (la cui centralità nel procedimento liquidatorio è stata ribadita, da ultimo, da Cass. n. 9877/2022, dove si è affermato che «l'ordine di liberazione è funzionale agli scopi del processo di espropriazione forzata e, in particolare, all'esigenza pubblicistica di garantire la gara per la liquidazione del bene pignorato alle migliori condizioni possibili, notoriamente connesse, sul mercato dei potenziali acquirenti, allo stato di immediata, piena e incondizionata disponibilità dell'immobile») riafferma che solo quando l'immobile è abitato dal debitore e dal suo nucleo familiare la liberazione può essere differita al si pronuncia il decreto di trasferimento.

Pure ribadito, così come auspicato in dottrina, che la pronuncia del decreto di trasferimento non è ostativa alla liberazione dell'immobile a cura e spese della procedura in attuazione di un ordine di liberazione che, quando l'immobile è abitato dal debitore e dalla sua famiglia, deve essere adottato contestualmente al decreto di trasferimento; ciò, implicitamente, conferma che anche nelle vendite giudiziarie è configurabile una obbligazione di consegna dell'immobile venduto, a norma dell'art. 1476 c.c.

Anche sul piano eminentemente operativo, il novellato art. 560 riafferma la doverosità della liberazione, che prescinde dalla richiesta dell'aggiudicatario, legittimato tuttavia a rinunciarvi e la sua indipendenza dalla pronuncia del decreto di trasferimento, che dunque comporta la necrosi delle funzioni custodiali, il che nella sostanza costituisce un implicito riconoscimento della operatività, anche in seno alla vendita esecutiva, della previsione di cui al citato art. 1476 c.c. che impone al venditore un obbligo di consegna del bene. Inoltre, trattandosi di obbligazione a carico del venditore è evidente che essa dovrà essere adempiuta senza oneri per l'aggiudicatario. Del pari, è ribadito che all'attuazione dell'ordine di liberazione provvederà il custode, in seno alla procedura esecutiva immobiliare eventualmente avvalendosi della forza pubblica o di altri ausiliari, previa autorizzazione del giudice dell'esecuzione.

Un ulteriore contributo di chiarezza viene offerto in punto di individuazione dei doveri cui è tenuto l'esecutato che abiti l'immobile. Invero, si ribadisce che egli deve: assicurare l'esercizio del diritto di visita conformemente alle disposizioni del giudice dell'esecuzione; tutelare e mantenere adeguatamente l'immobile in uno stato di buona conservazione; osservare gli altri obblighi che la legge pone a suo carico. La norma chiarisce inoltre (ma si tratta di conclusione cui la prassi era già arrivata per via esegetica) che il debitore non deve ostacolare le attività degli «ausiliari» del giudice, tra i quali va certamente annoverato anche l'esperto stimatore.

Di contro, recependosi le indicazioni provenienti da molti uffici giudiziari, si sancisce per il custode giudiziario l'obbligo di «di vigilare affinché il debitore e il nucleo familiare conservino il bene pignorato con la diligenza del buon padre di famiglia e ne mantengano e tutelino l'integrità».

Gli strumenti di tutela dell'occupante rispetto all'ordine di liberazione. L'opposizione agli atti esecutivi

Detto dunque che l'ordine di liberazione, anche all'esito delle modifiche dell'art. 560 successive al 2016, è attuato dal custode sotto la direzione del giudice dell'esecuzione immobiliare e non si «esegue» nelle forme dell'art. 605 e ss. c.p.c., occorre chiedersi quali sono gli strumenti di tutela di cui dispone il conduttore per reagire ad esso.

Si è visto sopra che la novella del 2016 si era fatta carico del problema, da un lato prevedendo a tutela dell'occupante (e dunque anche del conduttore) che l'ordine di liberazione gli fosse notificato, e dall'atro introducendo un onere di impugnativa ex art. 617, c.p.c. con termine decorrente dalla notifica predetta.

La resezione di questi accorgimenti dalle versioni successive della norma è stata colmata in dottrina affermandosi che comunque il rimedio praticabile non può che essere quello della opposizione agli atti esecutivi, quale forma generale di tutela contro i provvedimenti con cui il giudice dell'esecuzione governa la procedura (Crivelli, 798; Fanticini).

Meno consonanti sono invece le opinioni espresse a proposito degli effetti della mancata proposizione del rimedio.

Già si è in precedenza ricordato come, mentre taluna dottrina aveva ritenuto, all'indomani della riforma del 2016, che all'interno del rimedio oppositivo di cui all'art. 617 c.p.c. dovevano ritenersi convogliate tutte le tutele dell'acquirente, e che la mancata proposizione dell'opposizione

– expressis verbis attribuita anche al terzo – comportava una sorta di «acquiescenza» all'ordine, con conseguente preclusione – insita nel divieto di venire contra factum proprium – a riproporre le questioni non sollevate dall'interessato rimasto inerte86, altri ritenevano che l'utilizzo del rimedio di cui all'art. 617 c.p.c. andasse circoscritto alla sola tutela diritti personali di godimento (ritenuti) opponibili alla procedura, riconoscendo invece al titolare di un diritto reale di godimento lo strumento di cui all'art. 619 c.p.c. (Fanticini, 962).

In una direzione ancora diversa pare muoversi l'opinione secondo cui, pur ammettendosi, anche alla luce della novella del 2020, l'opponibilità dell'ordine di liberazione ai sensi dell'art. 617 c.p.c., il suo mancato esperimento sarebbe inidoneo a pregiudicare i diritti opponibili dei terzi, poiché nel regime successivo alla riforma del 2016 non vi sarebbero più elementi che autorizzano a ritenere che l'ordine di liberazione vincoli il terzo che non abbia proposto nei termini l'opposizione agli atti esecutivi, a differenza di quanto accade al debitore, che è parte del processo esecutivo (Olivieri).

Secondo questa ricostruzione il dato si coglierebbe con chiarezza all'esito dello scrutinio della differenza tra l'ordine di liberazione ed il provvedimento reso dal G.E. ai sensi dell'art. 549 c.p.c. in sede di accertamento del credito nell'ambito di un pignoramento prezzo terzi, poiché mentre l'ordine di liberazione giunge all'esito di un'attività valutativa e di accertamento latu sensu intesa, non dissimile a quella che il giudice dell'esecuzione compie prima di adottare uno qualunque dei suoi provvedimenti, l'ordinanza che accerta il credito ed ingiunge al terzo pignorato il pagamento rampolla in seno ad un subprocedimento che ha una sua disciplina compiuta, per quanto a cognizione sommaria, la quale prevede, aggiungo, rigorosi meccanismi di radicamento del contraddittorio con il terzo pignorato, che cominciano con una sua vocatio in ius, dai contenuti scanditi proprio a tutela del terzo medesimo.

Così ricostruite le posizioni emerse dal dibattito che si è sviluppato intorno all'argomento, la soluzione va probabilmente cercata partendo dall'assunto per cui il conduttore, anche quando viene eventualmente convocato per essere sentito dal giudice dell'esecuzione a norma dell'art. 485 c.p.c. (cosa che peraltro non è detto che avvenga in quanto, per le ragioni più disparate, l'esistenza di un contratto di locazione potrebbe emergere anche successivamente alla pronuncia dell'ordine di liberazione) non diviene parte del processo esecutivo (ed a maggior ragione non lo è quando non è stato convocato) sicché, venuta meno la opportuna previsione normativa contenuta nell'art. 560 c.p.c. all'indomani delle modifiche intervenute nel 2016, occorre domandarsi se la tutela dei suoi diritti possa essere ciononostante contenuta nel perimetro dell'art. 617 c.p.c.

Per rispondere a questo interrogativo non pare superfluo ricordare che, se sovente riecheggia in dottrina il condivisibile assunto per cui l'opposizione agli atti esecutivi è rimedio praticabile non solo dalle parti ma anche da terzi destinatari di singoli atti della procedura esecutiva (Oriani, 273; Mandrioli, Carratta, 220) e se analogo principio trovasi scandito in giurisprudenza, va tuttavia osservato che la casistica in cui l'affermazione è maturata riguardava soggetti che, in qualche misura, avevano formalmente partecipato al procedimento esecutivo divenendo titolari, rispetto alla procedura, di specifici interessi, non di mero fatto, pregiudicati dalla violazione delle regole processuali: l'aggiudicatario definitivo (Cass. n. 586/1963; Cass. n. 291/1985 e Cass. III, n. 17861/2011), l'aggiudicatario provvisorio (Cass. n. 11615/1992), l'offerente in aumento di sesto in procedura fallimentare (Cass. n. 9474/1993) l'offerente non aggiudicatario (Cass. n. 6186/2009), tanto che in talune sentenze la legittimazione è stata riconosciuta ai «partecipanti al procedimento esecutivo» (Cass. n. 8370/1990, con riferimento alla legittimazione del terzo pignorato).

Di contro, sempre in giurisprudenza, è stato affermato che il terzo, diverso dal terzo pignorato, il quale perciò non sia parte del processo esecutivo per espropriazione presso terzi, ma assuma di essere titolare o contitolare del credito pignorato, non è legittimato a proporre opposizione agli atti esecutivi per fare valere l'invalidità o l'irregolarità di singoli atti del processo, compreso l'atto conclusivo costituito dall'ordinanza di assegnazione, così come è esclusa la legittimazione attiva a proporre l'opposizione agli atti esecutivi in capo al terzo che pretenda di avere la proprietà o altro diritto reale sui beni pignorati e che perciò sia legittimato a proporre opposizione di terzo all'espropriazione mobiliare o immobiliare (Cass. n. 14639/2014; Cass. n. 2868/2020. Così anche Cass. n. 14003/2004; Cass. n. 15400/2010)

Il postulato sul quale poggia questa esclusione si ravvisa generalmente nel fatto che il terzo titolare di un diritto che si assume pregiudicato dalla procedura esecutiva in quanto incompatibile con la pretesa dei creditori di agire in executivis, non ha un interesse, che non sia di mero fatto, a sindacare il quomodo dell'esecuzione; la sua posizione, infatti, è suscettibile di venire pregiudicata anche da un processo esecutivo immune da vizi procedimentali, che pertanto egli non è legittimato a lamentare, non traendone alcuna utilità.

Orbene, venendo al terzo occupante sine titulo, è evidente: da un lato che egli non sia parte del procedimento esecutivo, così come non lo è il terzo, non esecutato, che assuma di essere proprietario del bene (o del diritto) pignorato; dall'altro, a ben vendere, nel contestare l'attuazione dell'ordine di liberazione, egli non ne lamenta l'illegittimità intrinseca per violazione di norme processuali, ma piuttosto deduce la titolarità di un diritto (personale) incompatibile con gli effetti che l'ordine di liberazione è destinato a produrre, allo stesso modo in cui il terzo proprietario, non contestando il decreto di trasferimento, vi contrappone un diritto rispetto ad esso inconciliabile.

Questo argomento non pare superabile dall'affermazione, che pure sarebbe predicabile, per cui il conduttore in forza di titolo opponibile in realtà contesta la legittimità dell'ordine di liberazione che non avrebbe potuto essere emesso in presenza del suo contratto di locazione; se così fosse, nella stessa misura, il vero proprietario del bene pignorato potrebbe contestare la legittimità del decreto di trasferimento deducendo che questo non avrebbe potuto essere adottato in quanto il bene che ne costituisce l'oggetto non appartenente al debitore; sennonché, come si è visto, la giurisprudenza da sempre esclude la legittimazione del proprietario a promuovere l'opposizione agli atti esecutivi (Cfr., da ultimo, Cass. n. 9720/2020).

È ben vero che in giurisprudenza (Cass. n. 25654/2010) è stato affermato che l'ordine di liberazione è impugnabile con il rimedio della opposizione agli atti esecutivi dal conduttore che pretenda di vantare una locazione opponibile, ma si tratta di una sentenza dichiarativa della inammissibilità di un ricorso per Cassazione direttamente promosso contro l'ordine di liberazione, in cui il nucleo centrale della decisione è rappresentato dall'affermazione (condivisibile) per cui l'ordine di liberazione è atto interno della procedura, di carattere ordinatorio, suscettibile quindi di essere impugnato con il rimedio dell'opposizione di cui all'art. 617, il quale serve, prosegue la decisione, «per ottenere, sulla base di uno specifico diritto di azione attribuito a soggetti che rivestano la qualità di parte del processo esecutivo o che comunque vengano coinvolti formalmente in atti del processo esecutivo ed in relazione al suo svolgimento siano titolari di un interesse protetto alla legittimità di esso (Cass. n. 8857 del 1996), il controllo dell'operato del giudice dell'esecuzione in base alle regole della giurisdizione cognitiva».

Sennonché, plurimi argomenti segnano la non decisività di questa pronuncia: in primis la specificità del thema decidendum; in secondo luogo la peculiarità della circostanza per cui il conduttore, (stando a quanto è emerge dalla sentenza), era stato il destinatario diretto dell'ordine di liberazione, esplicitamente pronunciato nei suoi riguardi; infine l'osservazione per cui la sentenza legittima alla proposizione del ricorso di cui all'art. 617 c.p.c. coloro i quali «vengano coinvolti formalmente in atti del processo esecutivo ed in relazione al suo svolgimento siano titolari di un interesse protetto alla legittimità di esso», cosa che con riferimento al conduttore potrebbe non accadere (come si è cercato di dimostrare), tanto è vero che il precedente richiamato dalla pronuncia (Cass. n. 8857/1996) riguardava un offerente.

In definitiva, il sentiero che conduce al riconoscimento di un potere di impugnativa ex art. 617 c.p.c. in capo al conduttore, deve confrontarsi con una serie di problematicità che lo rendono particolarmente impervio.

L'opposizione di terzo all'esecuzione a norma dell'art. 619 c.p.c.

Volgendo lo sguardo in direzione di possibili alternative, viene il rilievo il rimedio dell'opposizione di terzo ai sensi dell'art. 619 c.p.c. Anche questa soluzione tuttavia richiede l'approfondimento di alcuni punti di frizione.

Il primo è certamente quello di un dato normativo criptico, posto che mentre il titolo dell'articolo preannuncia di indicare la «forma dell'opposizione», il comma uno della disposizione reca una norma di carattere sostanziale, legittimando all'esercizio del rimedio «il terzo che pretende avere la proprietà o altro diritto reale sui beni pignorati».

Questo iato ha inevitabilmente legittimato interpretazioni molto diverse tra loro, poiché a fronte di opinioni che ritengono decisiva la lettera della norma (Garbagnati, 1075; Castoro, 552. Nel vigore del codice previgente, Carnelutti, 160-162), che parla di «diritto reale» altre ne stigmatizzano l'inaffidabilità (Punzi, 185 ss.; Satta, 241-244; Denti, 262-263; Proto Pisani,368; Oriani, 637).

Mai come in questo caso la genesi della disposizione può offrire indicazioni utili (Cerrato, 289).

Il suo precedente storico risale all'art. 608 del codice napoleonico, il quale riconosceva come legittimato ad esperire il rimedio «Celui qui se prétend propriétaire des objets saisis ou de partie d'iceux» (Chiunque afferma di essere il proprietario di oggetti sequestrati o parti di essi).

La disposizione è stata poi importata nell'art. 647 del codice del 1865 (per il quale, analogamente, disponeva del rimedio «chiunque pretenda avere la proprietà, o altro diritto reale») e quindi successivamente trasfusa nell'attuale art. 619 c.p.c.

Tali elementi, uniti alla imprecisione del testo normativo vigente ed allo scarso rigore terminologico che caratterizza la disciplina codicistica del processo esecutivo, hanno fatto dire a taluna dottrina (Punzi, 185 ss.) che la lettera della noma non ne esprima la voluntas legis, anche in considerazione del fatto che essa «dice troppo o troppo poco» (Andrioli, 315), poiché né tutti i titolari di diritti reali possono esperire opposizione ex art. 619 c.p.c., né solo i titolari di diritti reali sono tutelati dall'ordinamento (Cerrato, 290), sicché la legittimazione andrebbe riconosciuta anche ai titolari di diritti personali (Punzi,185 ss.; Furno, 218 ss.; Cerrato, 289).

In particolare, è stato osservato da taluni che negli stessi termini in cui il possessore il quale disponga materialmente ed in modo esclusivo di una cosa, può assumere l'iniziativa di un giudizio possessorio che ponga fine alla turbativa o rimedi allo spoglio da parte del proprietario106, simmetricamente tale tutela deve essere riconosciuta (attraverso il rimedio dell'opposizione di terzo a norma dell'art. 619 c.p.c.) al terzo possessore nel corso di un'espropriazione forzata. Ora, è del tutto evidente che l'attuazione fisiologica dell'ordine di liberazione non ha i caratteri dello spoglio richiesti dall'art. 1168 c.c., ed una assimilazione delle due fattispecie non è predicabile.

Tuttavia, proprio al fine di giustificare un possibile allargamento delle maglie dell'art. 619 c.c. si pensi al caso (di scuola ma non troppo) in cui, per le ragioni più disparate (superficialità degli accertamenti compiuti in sede di stima, scarsa diligenza del custode nell'acquisire informazioni circa lo stato di occupazione del bene o nel relazionarsi con gli occupanti, carente esercizio dei poteri di direzione della procedura da parte del giudice dell'esecuzione) il custode si immetta nottetempo nel possesso del compendio pignorato senza qualificarsi all'ignaro occupante, il quale l'indomani appuri che tizio, dichiaratosi legittimato a farlo in attuazione di un ordine di liberazione (che si riferisce genericamente a qualunque occupante senza titolo, e che magari neppure gli viene esibito), ha sostituito la serratura dell'immobile o ha preso possesso del fondo agricolo da lui condotto in locazione in forza di un (valido) contratto verbale. In questa situazione, perimetrare gli strumenti di tutela del conduttore all'interno degli angusti limiti temporali dell'art. 617 c.p.c. non pare soluzione accettabile, poiché vorrebbe dire obbligarlo al rispetto delle regole processuali di un procedimento di cui non era né parte né «interessato», fino a quel momento, e che non lo ha mai visto coinvolto, se non in via di mero fatto.

In posizione mediana si pongono coloro i quali (Andrioli, 456; Oriani, 637) ritengono che la legittimazione all'opposizione di cui trattasi, sotto il profilo del diritto che si fa valere, deve essere individuata coordinando l'art. 619 con le norme sostanziali in tema di opponibilità al pignoramento, ed in particolare con l'art. 2915, comma 2, c.c. nonché con le norme che a tale articolo si riconducono, con la precisazione, formulata da altri, che tale conseguente allargamento, essendo un riflesso della disciplina dell'opponibilità al pignoramento di determinati atti e delle relative domande giudiziali, «va mantenuto negli stretti limiti che risultano dalla suddetta disciplina ed entro ai quali ai diritti reali risultano affiancati soltanto taluni diritti cosiddetti potestativi ad efficacia reale, come i diritti all'annullamento, alla risoluzione, alla riduzione, ecc., e, più in generale, i diritti elencati nell'art. 2652 c.c. sotto il profilo dell'onere della trascrizione della relativa domanda da parte del loro titolare» (Mandrioli, 468).

Anche in giurisprudenza si ritiene che il riferimento a diritti reali contenuto nell'art. 619 non vada inteso in termini letterali (Cass. n. 807/1961; Cass. n. 3277/1962; Cass. n. 2828/1964; Cass. n. 3896/1968; Cass. n. 1803/1964; Cass. n. 1918/1972; Cass. n. 3649/1974; Cass. n. 5789/1982, per quanto non si sia mai affrontato ex professo il tema della possibilità di esperire il rimedio anche da parte del conduttore. Solo Cass. n. 27668/2009 in un caso in cui di discuteva del se l'opposizione ex art. 619 promossa da colui il quale avesse acquistato il bene pignorato in forza di usucapione implicasse il previo accertamento giudiziale di tale acquisto, ha affermato che l'art. 619 «legittima il terzo a far valere la proprietà o altro diritto reale sul bene pignorato senza esigere che tali situazioni siano giudizialmente accertate», aggiungendo, con quello che appare un obiter dictum che «Ciò, è tanto vero che l'oggetto dell'azione ai sensi dell'art. 619 c.p.c., si identifica nella pretesa di accertamento dell'esistenza delle dette situazioni giuridiche in quanto incompatibili con la realizzazione del diritto di credito del creditore sul bene quale effetto della responsabilità patrimoniale del suo debitore (o del terzo che risponda per questi) e prevalenti su quella del creditore (ovvero anche – al di là della previsione letterale della norma – di altre situazioni, anche non di natura reale, che siano incompatibili con la realizzazione del diritto del creditore sul bene e siano ad esso opponibili, in quanto sulla sua prevalenti)».

Soluzioni de iure condito

Volendo trarre le fila di questo excursus, l'unico dato che può affermarsi con sufficiente tranquillità è quello per cui, tanto l'attribuzione di una tutela che passi attraverso il rimedio della opposizione agli atti esecutivi, quanto il riconoscimento della legittimazione del conduttore alla proposizione dell'opposizione di terzo a norma dell'art. 619, presentano profili di criticità poiché non esistono sicuri indici normativi o di sistema che lascino preferire una scelta rispetto ad un'altra.

Ed allora, almeno de iure condito, la soluzione va cercata coniugando il piano della efficienza con quello della effettività della tutela giurisdizionale dei diritti.

Il primo richiede che la procedura esecutiva non sia esposta sine die alle conseguenze, per quanto legittime, della sopravvenuta emersione di un contratto di locazione ad essa opponibile, poiché si tratta di un dato affatto neutro, capace com'è di incidere su una pluralità di versanti: contenuti della custodia, valore di vendita, appetibilità del bene sul mercato.

Il secondo impone che il rimedio oppositivo riconosciuto al terzo estraneo alla procedura non sia ridotto a simulacro, per essere stato immolato sull'altare della realizzazione coattiva del credito, poiché qui si staglia la differenza tra uno Stato autoritario ed uno di diritto: entrambi sanno essere efficienti, ma solo il secondo lo fa senza abdicare al sistema delle garanzie. Del resto, questa è la ragione per la quale la tutela della collettività impone che la esecuzione forzata sia esercizio di attività giurisdizionale, poiché solo in questo modo la protezione del credito può svolgersi attraverso il rispetto di quelle regole che presidiano, al contempo, gli altri interessi coinvolti dall'azione esecutiva.

Pertanto, se è opportuno che l'ordine di liberazione non rischi, a tempo indeterminato, al rimedio dell'opposizione di terzo di cui all'art. 619, allo stesso modo va assicurato che l'assoggettamento del terzo alla disciplina dell'art. 617 c.p.c., ed alla preclusione processuale che essa contiene, passi attraverso una sorta di vocatio in ius del conduttore, per ottenere la quale non sembra né necessario né sufficiente il richiamo alla audizione prevista dall'art. 585 c.p.c.

Questo strumento, invero, non nasce per consentire al giudice l'integrazione del contraddittorio rispetto a terzi rimasti estranei al processo in funzione della loro tutela, alla stregua di quanto accade nelle ipotesi di litisconsorzio necessario o facoltativo; prova ne sia che non ne ha le caratteristiche, poiché si risolve nella pronuncia di un decreto di fissazione dell'udienza, senza alcun riferimento alla editio actionis, alla quale l'interessato si presenta in quanto tale e non quale parte, senza che neppure sia prevista, a sua tutela, l'obbligatorietà della difesa tecnica. Esso, piuttosto, serve al giudice per consentirgli il miglior esercizio dei poteri di governo della procedura, e quindi, per quanto opportuno, non sembra sufficiente a cementare un contraddittorio bastevole ad imbrigliare il terzo nella disciplina processuale dell'esecuzione.

Di contro, come anticipato, non è neppure detto che la previa costituzione del contraddittorio nei confronti del terzo occupante sia strumento necessario per indicagli l'art. 617 c.p.c. come l'unica via da seguire per tutelare i propri diritti, e quindi per gravarlo dell'onere di ricorrere al giudice dell'esecuzione nel termine di venti giorni ivi previsto. Il codice di rito infatti conosce procedimenti a contraddittorio differito ed eventuale, primo fra tutti il procedimento d'ingiunzione, dove la tutela dell'ingiunto passa attraverso una serie di prescrizioni, che vanno dagli avvertimenti di cui all'art. 641 c.p.c. all'onere di notificazione del ricorso e del decreto, alla declaratoria di esecutività dello stesso a norma dell'art. 647.

La sintesi pertanto potrebbe essere individuata nella soluzione già indicata dal legislatore del 2016, il quale nel comma 3 dell'art. 560 c.p.c. aveva sì previsto che l'ordine di liberazione fosse impugnabile dal terzo con lo strumento dell'opposizione agli atti esecutivi, ma si era contestualmente preoccupato di imporre al custode che quel provvedimento gli venisse notificato; bene sarebbe aggiungere, a questa accortezza, quella per cui l'ordine di liberazione contenga altresì un avviso analogo a quello di cui all'art. 641, comma 1, c.p.c., in ordine alle conseguenze della mancata opposizione.

In tal modo il cerchio si chiuderebbe: il terzo occupante, pur rimanendo estraneo all'esecuzione, diverrebbe il destinatario formale del provvedimento regolatorio di una specifica procedura esecutiva, capace di incidere, pur senza l'autorità della cosa giudicata, su una sua situazione giuridica soggettiva, e suscettibile di impugnazione attraverso uno strumento processuale che quel provvedimento gli indica, avvisandolo altresì delle conseguenze di una sua eventuale inerzia; dal canto suo, spirato il termine di cui all'art. 617, la procedura esecutiva potrebbe solcare le acque, auspicabilmente tranquille, di una fisiologica fase liquidativa.

Prospettive de iure condendo

Il disegno di legge delega per la riforma del Codice di procedura civile, nella versione approvata al Senato in data 21 settembre 2021, punta di massima alla stabilizzazione delle scelte normative del recente passato, confermando la previsione di un «doppio binario» a seconda che l'immobile sia abitato o meno dal debitore e dai suoi familiari: in quest'ultimo caso, si prevede che debba essere esplicitamente prevista l'adozione, al più tardi al momento in cui viene autorizzata la vendita, di un ordine di liberazione da attuarsi da parte del custode senza le formalità di cui agli artt. 605 e ss. c.p.c.; nell'altro caso, invece, la liberazione avverrà sulla base del decreto di trasferimento (e quindi a cura e spese dell'aggiudicatario nelle forme dell'esecuzione per consegna o rilascio), salva l'adozione di un ordine di liberazione anticipato in caso di comportamenti ostativi da parte del debitore-residente.

Il rendiconto

Il comma 1 dell'art. 560 prevedeva, e prevede, che «Il debitore e il terzo nominato custode debbono rendere il conto a norma dell'art. 593 c.p.c.», il che sul piano processuale si traduce nel fatto che occorra presentare in cancelleria il conto di gestione con cadenza trimestrale, o nel diverso termine fissato dal giudice dell'esecuzione, nonché il rendiconto finale che sarà approvato dal giudice a norma dell'art. 178 disp. att. c.p.c.

Il rendiconto si sostanzia nella rappresentazione delle attività volte alla corretta amministrazione del cespite, con indicazione delle spese autorizzate (Cass. n. 23465/2004).

Discusso è se l'obbligo di rendiconto gravi sul debitore che continui a permanere nella disponibilità dell'immobile abitandolo, anche dopo la nomina del custode giudiziale, o se invece il debitore sia tenuto al rendimento del conto solo fino a quando rivesta le funzioni custodiali.

Secondo una prima impostazione, poiché l'esecutato che continua ad abitare l'immobile pignorato conserva la disponibilità del cespite, con la conseguenza che gli obblighi posti a suo carico dalla legge e finalizzati al buon esito della procedura intrapresa nei suoi confronti imporrebbero la rendicontazione delle attività svolte fino al decreto di trasferimento (Fanticini, 12), essendo tenuto al rendiconto chiunque eserciti attività gestorie nell'interesse altrui (Cass. n. 22063/2017).

Altri invece rileva che l'obbligo di rendiconto grava soltanto sul debitore che sia anche custode, non essendo sufficiente che egli abbia mantenuto la disponibilità dell'immobile per il fatto di abitarla. Invero, si osserva, autentico obbligo di rendiconto a carico del debitore presuppone la gestione e soprattutto l'amministrazione diretta del bene, ed esso, per come configurato dall'art. 593 c.p.c., presuppone il riferimento ad un custode terzo, ed anche se il comma 1 dell'art. 560 sembrerebbe prevedere un obbligo di rendicontazione a carico di entrambi (custode e debitore), esso va letto come attributivo dell'onere del rendiconto al solo debitore custode (Crivelli, 789; Russo, 976).

Bibliografia

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