Decreto legislativo - 1/09/1993 - n. 385 art. 48 bis - Finanziamento alle imprese garantito da trasferimento di bene immobile sospensivamente condizionato1.

Rosaria Giordano

Finanziamento alle imprese garantito da trasferimento di bene immobile sospensivamente condizionato1.

 

1. Il contratto di finanziamento concluso tra un imprenditore e una banca o altro soggetto autorizzato a concedere finanziamenti nei confronti del pubblico ai sensi dell'articolo 106 può essere garantito dal trasferimento, in favore del creditore o di una società dallo stesso controllata o al medesimo collegata ai sensi delle vigenti disposizioni di legge e autorizzata ad acquistare, detenere, gestire e trasferire diritti reali immobiliari, della proprietà di un immobile o di un altro diritto immobiliare dell'imprenditore o di un terzo, sospensivamente condizionato all'inadempimento del debitore a norma del comma 5. La nota di trascrizione del trasferimento sospensivamente condizionato di cui al presente comma deve indicare gli elementi di cui all'articolo 2839, secondo comma, numeri 4), 5) e 6), del codice civile.

2. In caso di inadempimento, il creditore ha diritto di avvalersi degli effetti del patto di cui al comma 1, purché al proprietario sia corrisposta l'eventuale differenza tra il valore di stima del diritto e l'ammontare del debito inadempiuto e delle spese di trasferimento.

3. Il trasferimento non può essere convenuto in relazione a immobili adibiti ad abitazione principale del proprietario, del coniuge o di suoi parenti e affini entro il terzo grado.

4. Il patto di cui al comma 1 può essere stipulato al momento della conclusione del contratto di finanziamento o, anche per i contratti in corso alla data di entrata in vigore della presente disposizione, per atto notarile, in sede di successiva modificazione delle condizioni contrattuali. Qualora il finanziamento sia già garantito da ipoteca, il trasferimento sospensivamente condizionato all'inadempimento, una volta trascritto, prevale sulle trascrizioni e iscrizioni eseguite successivamente all'iscrizione ipotecaria. Fatti salvi gli effetti dell'aggiudicazione, anche provvisoria, e dell'assegnazione, la disposizione di cui al periodo precedente si applica anche quando l'immobile è stato sottoposto ad espropriazione forzata in forza di pignoramento trascritto prima della trascrizione del patto di cui al comma 1 ma successivamente all'iscrizione dell'ipoteca; in tal caso, si applica il comma 10.

5. Per gli effetti del presente articolo, si ha inadempimento quando il mancato pagamento si protrae per oltre nove mesi dalla scadenza di almeno tre rate, anche non consecutive, nel caso di obbligo di rimborso a rate mensili; o per oltre nove mesi dalla scadenza anche di una sola rata, quando il debitore è tenuto al rimborso rateale secondo termini di scadenza superiori al periodo mensile; ovvero, per oltre nove mesi, quando non è prevista la restituzione mediante pagamenti da effettuarsi in via rateale, dalla scadenza del rimborso previsto nel contratto di finanziamento. Qualora alla data di scadenza della prima delle rate, anche non mensili, non pagate di cui al primo periodo il debitore abbia già rimborsato il finanziamento ricevuto in misura almeno pari all'85 per cento della quota capitale, il periodo di inadempimento di cui al medesimo primo periodo è elevato da nove a dodici mesi. Al verificarsi dell'inadempimento di cui al presente comma, il creditore è tenuto a notificare al debitore e, se diverso, al titolare del diritto reale immobiliare, nonché a coloro che hanno diritti derivanti da titolo iscritto o trascritto sull'immobile [successivamente alla trascrizione del patto di cui al comma 1] una dichiarazione di volersi avvalere degli effetti del patto di cui al medesimo comma, secondo quanto previsto dal presente articolo, precisando l'ammontare del credito per cui procede.

6. Decorsi sessanta giorni dalla notificazione della dichiarazione di cui al comma 5, il creditore chiede al presidente del tribunale del luogo nel quale si trova l'immobile la nomina di un perito per la stima, con relazione giurata, del diritto reale immobiliare oggetto del patto di cui al comma 1. Il perito procede in conformità ai criteri di cui all'articolo 568 del codice di procedura civile. Non può procedersi alla nomina di un perito per il quale ricorre una delle condizioni di cui all'articolo 51 del codice di procedura civile . Si applica l'articolo 1349, primo comma, del codice civile. Entro sessanta giorni dalla nomina, il perito comunica, ove possibile a mezzo di posta elettronica certificata, la relazione giurata di stima al debitore, e, se diverso, al titolare del diritto reale immobiliare, al creditore nonché a coloro che hanno diritti derivanti da titolo iscritto o trascritto sull'immobile. I destinatari della comunicazione di cui al periodo precedente possono, entro dieci giorni dalla medesima comunicazione, inviare note al perito; in tal caso il perito, entro i successivi dieci giorni, effettua una nuova comunicazione della relazione rendendo gli eventuali chiarimenti.

7. Qualora il debitore contesti la stima, il creditore ha comunque diritto di avvalersi degli effetti del patto di cui al comma 1 e l'eventuale fondatezza della contestazione incide sulla differenza da versare al titolare del diritto reale immobiliare.

8. La condizione sospensiva di inadempimento, verificatisi i presupposti di cui al comma 5, si considera avverata al momento della comunicazione al creditore del valore di stima di cui al comma 6 ovvero al momento dell'avvenuto versamento all'imprenditore della differenza di cui al comma 2, qualora il valore di stima sia superiore all'ammontare del debito inadempiuto, comprensivo di tutte le spese ed i costi del trasferimento. Il contratto di finanziamento o la sua modificazione a norma del comma 4 contiene l'espressa previsione di un apposito conto corrente bancario senza spese, intestato al titolare del diritto reale immobiliare, sul quale il creditore deve accreditare l'importo pari alla differenza tra il valore di stima e l'ammontare del debito inadempiuto.

9. Ai fini pubblicitari connessi all'annotazione di cancellazione della condizione sospensiva ai sensi dell'articolo 2668, terzo comma, del codice civile, il creditore, anche unilateralmente, rende nell'atto notarile di avveramento della condizione una dichiarazione, a norma dell'articolo 47 del decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445, con cui attesta l'inadempimento del debitore a norma del comma 5, producendo altresì estratto autentico delle scritture contabili di cui all'articolo 2214 del codice civile.

10. Può farsi luogo al trasferimento a norma del presente articolo anche quando il diritto reale immobiliare già oggetto del patto di cui al comma 1 sia sottoposto ad esecuzione forzata per espropriazione. In tal caso l'accertamento dell'inadempimento del debitore è compiuto, su istanza del creditore, dal giudice dell'esecuzione e il valore di stima è determinato dall'esperto nominato dallo stesso giudice. Il giudice dell'esecuzione provvede all'accertamento dell'inadempimento con ordinanza, fissando il termine entro il quale il creditore deve versare una somma non inferiore alle spese di esecuzione e, ove vi siano, ai crediti aventi diritto di prelazione anteriore a quello dell'istante ovvero pari all'eventuale differenza tra il valore di stima del bene e l'ammontare del debito inadempiuto. Avvenuto il versamento, il giudice dell'esecuzione, con decreto, dà atto dell'avveramento della condizione. Il decreto è annotato ai fini della cancellazione della condizione, a norma dell'articolo 2668 del codice civile. Alla distribuzione della somma ricavata si provvede in conformità alle disposizioni di cui al libro terzo, titolo II, capo IV del codice di procedura civile.

11. Il comma 10 si applica, in quanto compatibile, anche quando il diritto reale immobiliare è sottoposto ad esecuzione a norma delle disposizioni di cui al decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 602.

12. Quando, dopo la trascrizione del patto di cui al comma 1, sopravviene il fallimento del titolare del diritto reale immobiliare, il creditore, se è stato ammesso al passivo, può fare istanza al giudice delegato perché, sentiti il curatore e il comitato dei creditori, provveda a norma del comma 10, in quanto compatibile2.

13. Entro trenta giorni dall'estinzione dell'obbligazione garantita il creditore provvede, mediante atto notarile, a dare pubblicità nei registri immobiliari del mancato definitivo avveramento della condizione sospensiva.

13-bis. Ai fini del concorso tra i creditori, il patto a scopo di garanzia di cui al comma 1 è equiparato all'ipoteca.

13-ter. La trascrizione del patto di cui al comma 1 produce gli effetti di cui all'articolo 2855 del codice civile, avendo riguardo, in luogo del pignoramento, alla notificazione della dichiarazione di cui al comma 5 .

[1] Articolo inserito dall'articolo 2, comma 1, del D.L. 3 maggio 2016, n. 59, convertito, con modificazioni, dalla Legge 30 giugno 2016, n. 119.

[2] A norma del combinato disposto degli articoli 349 e 389 del del D.Lgs. 12 gennaio 2019, n. 14, come modificato dall'articolo 5, comma 1, del D.L. 8 aprile 2020, n. 23, convertito con modificazioni dalla Legge 5 giugno 2020, n. 40 e, da ultimo, dall'articolo 1, comma 1, lettera a), del D.L. 24 agosto 2021, n. 118, convertito con modificazioni dalla Legge 21 ottobre 2021, n. 147,  e successivamente dall'articolo 42, comma 1, del D.L. 30 aprile 2022, n. 36, convertito con modificazioni dalla Legge 29 giugno 2022, n. 79., a decorrere dal 15 luglio 2022, nelle disposizioni normative vigenti i termini «fallimento», «procedura fallimentare», «fallito» nonché le espressioni dagli stessi termini derivate devono intendersi sostituite, rispettivamente, con le espressioni «liquidazione giudiziale», «procedura di liquidazione giudiziale» e «debitore assoggettato a liquidazione giudiziale» e loro derivati, con salvezza della continuità delle fattispecie.

Inquadramento

Il legislatore con il d.l. n. 59/2016, convertito, con modificazioni, nella l. n. 118/2016, ha inserito nel T.U. in materia bancaria e creditizia (c.d. T.U.B.) l'art. 48-bis che consente, a fronte del finanziamento concesso ad imprenditori da Banche o altri imprenditori autorizzati ai sensi dell'art. 106 del medesimo T.U. che lo stesso sia garantito dal trasferimento, sospensivamente condizionato all'inadempimento, di un immobile di proprietà dell'imprenditore o di un terzo garante.

Il trasferimento della proprietà o del diritto reale sul bene oggetto della garanzia – bene che può appartenere anche ad un terzo datore e non deve costituire abitazione principale del debitore, coniuge, parenti ed affini entro il terzo grado – è sospensivamente condizionato all'inadempimento del debitore.

Solo dopo il verificarsi dell'inadempimento si apre per il finanziatore la scelta tra l'esecuzione ordinaria (o, rectius, il recupero del credito nelle forme ordinarie) e l'acquisizione della proprietà del bene avvalendosi della clausola marciana.

Scopo della norma

Sino ad alcune recenti innovazioni normative, ed in particolare, per i crediti richiesti nell'esercizio dell'impresa, all'emanazione del d.l. n. 59/2016, conv. in l. n. 118/2016, il patto marciano, pur risalendo nell'elaborazione teorica all'esperienza giuridica romana (periodo giustinianeo) non era specificamente disciplinato nel nostro sistema giuridico.

La definizione tradizionale dell'istituto è sempre stata correlata a quella del patto commissorio, vietato sin da una Costituzione dell'Imperatore Costantino dell'anno 324 d.C. a causa della sua asperitas nei confronti dei debitori, che la nuova sensibilità, probabilmente risentendo delle influenze del cristianesimo, intendeva difendere da accordi particolarmente svantaggiosi.

Invero, il patto marciano è configurato proprio per attenuare le conseguenze del divieto della lex commissoria, posto almeno a partire dal 324 d.C., ed avente la finalità di consentire al creditore, in presenza di determinate condizioni, di acquisire i beni dati in pegno o in ipoteca in caso di inadempimento del debitore senza incappare nel divieto del patto commissorio. In particolare, Elio Marciano, giureconsulto romano dell'età dei Severi (III sec. d.C.), elaborò una convenzione che ricollegava l'attribuzione del bene concesso in garanzia al credito alla stima del giusto prezzo effettuata alla data dell'inadempimento.

In sostanza, poiché la ratio principale del divieto della lex commissoria consisteva nell'elevato rischio che il trasferimento del bene in garanzia si rivelasse usurario e, per converso, l'autonomia del patto marciano e la sua ammissibilità si fondavano sull'esclusione del vantaggio eccessivo a favore del creditore assicurata dal iustum praetium calcolato alla data dell'inadempimento.

Il codice civile vigente, come quello del 1865, non ha tuttavia ritenuto di riconoscere la figura in termini generali, confermando, invece, il patto commissorio nella sua configurazione più ampia, in chiave sia generale (art. 2744 c.c.) sia particolare (art. 1963 c.c.), ma al contempo delineando il meccanismo che soggiace al patto marciano nell'ambito del contratto di anticipazione bancaria, all'interno della figura del pegno irregolare (art. 1851 c.c.) e l'ha riprodotto in tutt'altro contesto, ossia nell'ambito del pegno di crediti con riguardo alla disciplina della riscossione (art. 2803 c.c.).

Come già evidenziato, il divieto del patto commissorio è invece sancito anche dal codice civile vigente che, rispetto a quello del 1865, lo ha esteso all'ipoteca.

In particolare, l'art. 2744 c.c., stabilendo che «è nullo il patto con il quale si conviene che, in mancanza del pagamento del credito nel termine fissato, la proprietà della cosa ipotecata o data in pegno passi al creditore», sancisce il divieto del patto commissorio, aggiungendo, poi, che il patto in oggetto è del pari nullo, anche se posteriore alla costituzione dell'ipoteca o del pegno.

La ratio di tale disposizione, sanzionata con la nullità ex art. 1418 c.c., deve essere individuata, in primo luogo, nell'esigenza di tutelare la par condicio creditorum, in quanto gli altri creditori, a causa dell'automatismo del trasferimento, vedrebbero un bene del debitore sottratto alla garanzia generica di cui all'art. 2740 c.c., al di fuori delle cause tipiche di prelazione.

Inoltre, la tutela del credito deve di norma passare attraverso un regolare processo esecutivo.

Si ritiene, per altro verso, che l'art. 2744 c.c. tuteli anche il principio della proporzione o sostanziale corrispettività economica tra le prestazioni che non può essere violato dall'autonomia privata, la quale può liberamente operare esclusivamente entro i limiti di cui all'art. 1322 c.c. Se tale patto fosse considerato valido, invero, sarebbe consentito alla autonomia privata creare un vincolo volto a rafforzare, in modo ingiusto, il diritto di credito. In definitiva, la ratio del divieto trova la sua ragione nella dannosità sociale del patto in quanto suscettibile di diffondersi in tutte le dazioni di beni in garanzia con indebito approfittamento a carico del debitore.

L'attuale codice civile, nell'art. 2744 fa riferimento ai diritti reali di garanzia di pegno e ipoteca: secondo un'interpretazione letterale, pertanto, il divieto del patto commissorio dovrebbe applicarsi esclusivamente alle ipotesi di concessione di tali diritti.

Pertanto, era originariamente posta in discussione la portata generale del divieto espresso dall'art. 2744 c.c., riconosciuta soltanto nel tempo dalla S.C. la quale, con l'ausilio della migliore dottrina, ha finito con il chiarire che l'art. 2744 c.c. implica il divieto del patto commissorio in generale, ossia esteso a tutte le vendite sospensivamente e risolutivamente condizionate all'inadempimento del debitore alienante.

In sostanza, l'art. 2744 c.c. viene ricostruito come norma che enuncia di un divieto di carattere generale, espressione paradigmatica di un principio di ordine pubblico economico (Cass. n. 23670/2015).

Inoltre, nell'ambito della medesima giurisprudenza di legittimità, in un primo momento, si era sostenuto che il patto commissorio sarebbe nullo ex art. 2744 c.c. solo se ed in quanto l'accordo tra creditore e debitore, in ordine al trasferimento della proprietà della cosa ipotecata o data in pegno, sia posteriore all'inadempimento da parte del debitore (Cass. n. 7385/1986).

Successivamente, la giurisprudenza ha ribaltato tali conclusioni includendo nel divieto di cui all'art. 2744 c.c. anche le ipotesi in cui il trasferimento della proprietà sia coevo o anteriore al sorgere del credito, ipotesi che, quindi, precedono l'inadempimento e prescindono da esso.

Oltre alle evidenziate ragioni che giustificano il divieto del patto commissorio, la S.C. giustifica tale interpretazione estensiva con l'esigenza di evitare un'indebita coazione del debitore, che non può essere aprioristicamente esclusa neppure nelle ipotesi suindicate. Quest'ultima tesi, pressoché consolidata, si fonda sulla progressiva valorizzazione della c.d. causa in concreto rispetto alla funzione c.d. astratta del tipo contrattuale legislativamente tipizzato. Attualmente la giurisprudenza appare incline a ritenere vietato ogni trasferimento della proprietà fatto a scopo di garanzia, sulla base di un'interpretazione estensiva dell'art. 2744 c.c., ovvero per frode alla legge ex art. 1344 c.c., in quanto anche le garanzie atipiche raggiungerebbero egualmente lo scopo che il legislatore intende evitare (v. già Cass. S.U., n. 1611/1989).

Tuttavia, secondo la dottrina più autorevole la clausola marciana è stata sempre considerata sottratta al divieto di patto commissorio.

Questa tesi ha avuto negli anni più recenti significativi riscontri anche nella giurisprudenza di legittimità.

Quest'impostazione ha trovato conferma, in anni recenti, anche all'interno della giurisprudenza di legittimità.

In particolare, con una pronuncia del 2013, la S.C., proprio in ragione della differenza tra patto marciano e patto commissorio, ha riconosciuto la legittimità del primo. Nello specifico, era stata sottoposta alla Corte di cassazione la questione se la vendita effettuata a scopo di garanzia costituisce sempre una fattispecie illecita e se possa, comunque, configurarsi un patto commissorio vietato ai sensi dell'art. 2744 c.c. in presenza di una dichiarazione del creditore con la quale quest'ultimo si impegni a restituire al debitore la differenza tra il valore del bene trasferito ed il valore del credito vantato. Rispetto a tale problematica, la Corte ha ritenuto preliminare una ricognizione dei problemi connessi all'individuazione dell'ambito di applicazione del divieto di patto commissorio di cui all'art. 2744 c.c. e dell'analoga disposizione dettata dall'art. 1963 c.c. in tema di anticresi, ricordando, in primo luogo, che l'espressa comminatoria di nullità avendo, ovviamente, espulso dalla pratica degli affari la realizzazione della fattispecie legale illecita, concernente il patto commissorio aggiunto ad ipoteca, pegno o anticresi, ha fatto sorgere la questione se la nullità riguardasse, o meno, anche il patto commissorio autonomo, e cioè l'operazione contrattuale, di regola integrata da una alienazione in funzione di garanzia, che di per sé preveda che la proprietà della cosa alienata in garanzia passi al creditore in mancanza del pagamento del credito nel termine fissato. Alla risposta sia la giurisprudenza che la dottrina hanno fornito una risposta affermativa giustificata dall'assunto per il quale il risultato giuridico-economico dell'operazione è equivalente a quello espressamente sanzionato. La Corte ha ricordato che, per converso, un'ampia divergenza di opinioni ha contrassegnato l'individuazione della ragione giustificatrice della sancita nullità del patto commissorio (sia indiretto sia autonomo).

Senza pretesa di completezza, sarà qui sufficiente ricordare che le tesi tradizionali hanno individuato il fondamento del divieto nell'esigenza di tutela dei debitori – esposti, a causa del bisogno, a subire il rischio di un approfittamento da parte dei creditori – ovvero di tutela dei creditori – risultando leso il principio della par condicio –, o di entrambe le categorie.

Su un piano diverso, è stato sottolineato il contrasto del potere di autosoddisfacimento del creditore con l'esclusiva statale della funzione esecutiva.

Secondo altra tesi, infine, il divieto si giustificherebbe con l'esigenza di evitare che il patto, quale clausola di stile, determini l'instaurarsi di un sistema di garanzia inidoneo ad esprimere un assoggettamento del patrimonio del debitore esattamente adeguato alla funzione di garanzia.

Rispetto a tale dibattito nella giurisprudenza di legittimità si era ritenuto di impostare la soluzione del problema della liceità o illiceità del patto commissorio autonomo, integrato da una alienazione in garanzia, con riferimento alla decorrenza degli effetti del trasferimento della cosa alienata in garanzia, affermando la liceità della vendita fiduciaria a scopo di garanzia, accompagnata da patto di riscatto o di ritrasferimento, caratterizzata da un trasferimento effettivo ed immediato della proprietà al creditore, il quale tuttavia assume l'impegno, in forza di accordo consistente nel patto di riscatto o in quello di retrovendita, di ritrasferire il bene al venditore se questi estinguerà, nel termine previsto, il debito garantito. Per converso, si ritenne nulla, ai sensi dell'art. 2744 c.c., la vendita dissimulante un mutuo con patto commissorio, ricorrente nell'ipotesi in cui le parti, pur dichiarando formalmente di voler vendere ed acquistare, concordano in sostanza che il creditore acquirente diventerà proprietario soltanto se il debitore ed alienante non estinguerà il debito nel termine pattuito, attuando così una vendita sottoposta a condizione sospensiva (per tutte: Cass. n. 1004/1962 e n. 642/1980).

Il problema venne posto quindi, per l'ipotesi illecita, in chiave di simulazione, e l'illiceità del contratto dissimulato venne fatta discendere dalla violazione diretta del divieto ex art. 2744 c.c. (estensivamente interpretato come relativo anche al patto commissorio autonomo). La soluzione adottata fu oggetto di critica e ad essa si contrapposero difformi pronunce (significativo esempio si riscontra in Cass. n. 3800/1983), che abbandonarono il suindicato criterio distintivo, rilevando come anche nella vendita con patto di riscatto o di retrovendita, se conclusa a scopo di garanzia, l'effetto traslativo diviene definitivo ed irrevocabile soltanto a seguito dell'inadempimento del mutuatario. Ne consegue che, ove risulti l'intento primario delle parti di vincolare il bene a garanzia ed in funzione del rapporto di mutuo, la complessa convenzione – in quanto produttiva degli stessi effetti di una alienazione sottoposta a condizione sospensiva e caratterizzata da un nesso teleologia) e strumentale tra i due negozi di mutuo e di compravendita – presenta una causa effettiva divergente da quella tipica della compravendita, ed avente natura di causa illecita, in quanto volta a frodare il divieto del patto commissorio attraverso il ricorso ad un procedimento simulatorio.

Il nuovo orientamento venne fatto proprio, con alcune precisazioni, dalle Sezioni Unite, con due sentenze dell'anno 1989 (n. 1611 e n. 1907), le quali premesso, in adesione alla tesi tradizionale, che il divieto di patto commissorio è diretto ad impedire al creditore l'esercizio di una coazione morale sul debitore, spesso spinto alla ricerca di un mutuo (o alla richiesta di una dilazione, nel caso di patto commissorio ex intervallo) da ristrettezze finanziarie, con facoltà di far proprio il bene, attraverso un meccanismo che gli consenta di sottrarsi alla regola della par condicio creditorum, hanno affermato le Sezioni Unite che nella vendita con patto di riscatto o di retrovendita a scopo di garanzia questa non costituisce soltanto motivo, ma assurge a causa del contratto, in quanto il trasferimento della proprietà trova obiettiva giustificazione nel fine di garanzia. E tale causa è inconciliabile con quella della vendita, posto che il versamento del denaro non costituisce pagamento del prezzo, ma esecuzione di un mutuo, mentre il trasferimento del bene non integra l'attribuzione al compratore, bensì l'atto costitutivo di una posizione di garanzia innegabilmente provvisoria, in quanto suscettibile di evolversi a seconda che il debitore adempia o meno. Ed è proprio la provvisorietà che costituisce l'elemento rivelatore della causa di garanzia, e quindi della divergenza tra causa tipica del negozio prescelto e determinazione causale concreta, indirizzata alla elusione di una norma imperativa, qual è l'art. 2744 c.c.: le parti, invero, adottando uno schema negoziale astrattamente lecito per conseguire un risultato vietato dalla legge, realizzano un'ipotesi di contratto in frode alla legge (Cass. n. 2126/1991). In tale quadro, è sanzionata con la nullità, nei sensi suindicati, la vendita con patto di riscatto (o di retrovendita) che, risultando inserita in una più complessa operazione contrattuale, caratterizzata dalla sussistenza di un rapporto credito-debitorio tra venditore e acquirente, sia volta non già a un trasferimento di proprietà, bensì a un rafforzamento, in funzione di subordinazione e di accessorietà rispetto al mutuo, della posizione del creditore, suscettibile di determinare la (definitiva) acquisizione della proprietà del bene in mancanza di pagamento del debito garantito, così realizzando il risultato giuridico ed economico vietato dall'art. 2744 c.c. (che, sotto tale profilo, integra quindi una norma materiale).

Quanto agli elementi sintomatici idonei a denunciare la sussistenza di una operazione fraudolenta del tipo delineato, più che l'indagine sull'atteggiamento soggettivo delle parti è utile l'accertamento di dati obiettivi, quali la presenza di una situazione credito-debitoria (preesistente o contestuale alla vendita), e, soprattutto, la sproporzione tra entità del debito e valore del bene alienato in garanzia, di regola presente nelle fattispecie in esame e costituente significativo segnale di una situazione di approfittamento della debolezza del debitore da parte del creditore, che tende ad acquisire l'eccedenza di valore, così realizzando un abuso che il legislatore ha voluto espressamente sanzionare. A conferma di ciò, deve considerarsi che l'illiceità è invece esclusa, pur in presenza di costituzioni di garanzie che postulano un trasferimento di proprietà, qualora queste siano integrate da schemi negoziali che il menzionato abuso escludono in radice, come avviene nel caso del pegno irregolare (art. 1851 c.c), del riporto finanziario e del c.d. patto marciano, in virtù del quale al termine del rapporto si procede alla stima, ed il creditore, per acquisire il bene, è tenuto al pagamento dell'importo eccedente l'entità del credito. La ratio del divieto posto dall'art. 2744 c.c. risulta quindi desumibile argomentando a contrario dalla liceità delle figure ora menzionate. Non vale opporre che sproporzione tra entità del credito e valore del bene, e conseguente abusiva appropriazione dell'eccedenza non sono espressamente richieste dall'art. 2744 c.c., potendosi replicare che il legislatore, nel formulare un giudizio di disvalore nei riguardi del patto commissorio, ha fondatamente presunto, alla stregua dell'id quod plerumque accidit, che in siffatta convenzione il creditore pretende di regola una garanzia eccedente l'entità del credito. Appare quindi corretto ritenere che la sussistenza di una sproporzione tra valore del bene ed entità del credito possa offrire, in sede di indagine, uno degli indizi di maggior peso (Cass. n. 736/1977, in motivazione; Cass. n. 776/1960, in motivazione; sembrano invece svalutare tale elemento indiziario altre decisioni: Cass. n. 1611 e n. 1907/1989 delle Sezioni Unite, che peraltro richiamano proprio Cass. n. 736/1977). E non giova argomentare dalla disciplina generale dettata dall'art. 1448 c.c., per desumerne la sanzionabilità della sproporzione tra prestazioni soltanto mediante l'azione di rescissione, poiché resta da dimostrare la assoluta coerenza del sistema sanzionatorio previsto dal codice civile, nel quale si rinvengono ipotesi di tutela del contraente debole mediante l'irrogazione della nullità (art. 1341, art. 1815, comma 2), e può opporsi che l'art. 2744 c.c. esprime una specifica valutazione legale di riprovevolezza del patto commissorio, in virtù della sua intrinseca elevata potenzialità – per frequenza di impiego e facilità di realizzazione – a determinare il rischio (presunto) di produrre effetti che l'ordinamento non consente, e che si risolvono, in definitiva, in un eccesso di garanzia per il creditore e di responsabilità patrimoniale per il debitore.

La Corte di cassazione, nell'affermare il principio per il quale la vendita con patto di riscatto o di retrovendita stipulata fra il debitore ed il creditore, ove determini la definitiva acquisizione della proprietà del bene in mancanza di pagamento del debito garantito, è nulla per frode alla legge, in quanto diretta ad eludere il divieto del patto commissorio, ha dunque evidenziato che il principale elemento sintomatico della frode è costituito dalla sproporzione tra l'entità del debito ed il valore dato in garanzia. Si è affermato, in sostanza, che il legislatore, nel formulare un giudizio di disvalore nei riguardi del patto commissorio, ha presunto, alla stregua dell'id quod plerumque accidit, che in siffatta convenzione il creditore pretenda una garanzia eccedente il credito, sicché, ove questa sproporzione manchi – come nel pegno irregolare, nel riporto finanziario e nel cosiddetto patto marciano (ove al termine del rapporto si procede alla stima del bene e il creditore, per acquisirlo, è tenuto al pagamento dell'importo eccedente l'entità del credito) – l'illiceità della causa è esclusa (Cass. II, n. 10986/2013).

Questa tesi si scontra con quella, ormai minoritaria, per la quale il divieto di patto commissorio non si correla esclusivamente ad un problema di sproporzione economica tra le prestazioni, che pure si ravvisa in altri ambiti, come nella disciplina normativa della rescissione per lesione ultra dimidium, bensì di tutela della libertà morale del debitore. Invero, secondo alcuni, una volta individuata la ratio del divieto di patto commissorio nella presunzione assoluta di debitoris suffocatio, fondata sulla capziosità di un'appropriazione che sfrutta il bisogno qualificato del debitore e la sua illusione di conservare o riprendere il dominio, la clausola di stima, incidendo unicamente sull'aspetto patrimoniale del negozio, non è sufficiente ad escludere a priori l'equivalenza al risultato coercitivo e insidioso del patto commissorio, sicché anche il patto marciano, come ogni alienazione condizionata all'inadempimento, può determinare la frode alla legge ex art. 1344 c.c. (cfr. E. Carbone, 1108 ss.).

Peraltro, anche in seguito la S.C. ha riaffermato il principio per il quale il contratto di sale and lease back è nullo, per illiceità della causa in concreto, ove violi il divieto di patto commissorio, salvo che le parti, con apposita clausola (cd. patto marciano), abbiano preventivamente convenuto che al termine del rapporto – effettuata la stima del bene con tempi certi e modalità definite, tali da assicurare una valutazione imparziale ancorata a parametri oggettivi ed autonomi ad opera di un terzo – il creditore debba, per acquisire il bene, pagare l'importo eccedente l'entità del suo credito, sì da ristabilire l'equilibrio sinallagmatico tra le prestazioni e da evitare che il debitore subisca una lesione dal trasferimento del bene in garanzia. Resta peraltro ammissibile la previsione di differenti modalità di stima del bene, per come emerse nella pratica degli affari, purché dalla struttura del patto marciano in ogni caso risulti, anticipatamente, che il debitore perderà la proprietà del bene ad un giusto prezzo, determinato al momento dell'inadempimento, con restituzione della differenza rispetto al maggior valore, mentre non costituisce requisito necessario che il trasferimento della proprietà sia subordinato al suddetto pagamento, potendosi articolare la clausola marciana nel senso di ancorare il passaggio della proprietà sia al solo inadempimento, sia alla corresponsione della differenza di valore (Cass. I, n. 1625/2015, in Giustiziacivile.com, con nota di A. Napolitano).

In sostanza la S.C., nel ribadire la validità del patto marciano, ha evidenziato, nella decisione appena richiamata che il contratto di sale and lease back è nullo, per illiceità della causa in concreto, ove violi il divieto di patto commissorio, salvo che le parti, con apposita clausola (c.d. patto marciano), abbiano preventivamente convenuto che al termine del rapporto – effettuata la stima del bene con tempi certi e modalità definite, tali da assicurare una valutazione imparziale ancorata a parametri oggettivi ed autonomi ad opera di un terzo – il creditore debba, per acquistare il bene, pagare l'importo eccedente l'entità del suo credito, sì da ristabilire l'equilibrio sinallagmatico tra le prestazioni e da evitare che il debitore subisca una lesione dal trasferimento del bene in garanzia.

Nella stessa pronuncia n. 1625/2015, la Corte di cassazione ha precisato che è consentita la previsione di differenti modalità di stima del bene, per come emerse nella pratica degli affari, purché dalla struttura del patto marciano in ogni caso risulti, anticipatamente, che il debitore perderà la proprietà del bene ad un giusto prezzo, determinato al momento dell'inadempimento, con restituzione della differenza rispetto al maggior valore, mentre non costituisce requisito necessario che il trasferimento della proprietà sia subordinato al suddetto pagamento, potendosi articolare la clausola marciana nel senso di ancorare il passaggio della proprietà sia al solo inadempimento, sia alla corresponsione della differenza di valore.

In sostanza, all'interno della recente giurisprudenza di legittimità, si è fatta strada la tesi per la quale il divieto del patto commissorio vuole scongiurare la sproporzione tra entità del credito garantito e valore del bene e la conseguente appropriazione del surplus: sono quindi lecite le clausole c.d. marciane che vanno a neutralizzare i possibili inconvenienti, in punto di equilibrio sinallagmatico che sono alla base del divieto di alienazioni a scopo di garanzia.

Il patto marciano è invece di regola ritenuto valido, anche rispetto al divieto codificato attualmente dall'art. 2744 c.c. in quanto lo stesso si caratterizza per la stima del bene da parte di un soggetto imparziale al momento dell'inadempimento e dalla conseguente possibilità di «conguagli» a favore del debitore, il quale, pertanto, non subirà la perdita del bene ad un prezzo ingiusto (Bianca, 1957, 218 ss.).

La clausola e il suo ambito di applicazione

Nel descritto contesto è intervenuto il legislatore che con il d.l. n. 59/2016, convertito, con modificazioni, nella l. n. 118/2016, ha inserito nel T.U. in materia bancaria e creditizia (c.d. T.U.B.) l'art. 48-bis che consente, a fronte del finanziamento concesso ad imprenditori da Banche o altri imprenditori autorizzati ai sensi dell'art. 106 del medesimo T.U. che lo stesso sia garantito dal trasferimento, sospensivamente condizionato all'inadempimento, di un immobile di proprietà dell'imprenditore o di un terzo garante.

Occorre chiedersi, in base alla formulazione letterale della disposizione di nuovo conio, se di tale strumento possa avvalersi anche la società cessionaria del credito da parte della Banca o dell'intermediario che abbia stipulato il contratto di finanziamento munito della clausola marciana e che non sia una Banca o un intermediario autorizzato ai sensi dell'art. 106 T.U.B. È evidente che ove si fornisse una risposta negativa a tale quesito l'ambito applicativo dell'istituto rischierebbe di essere significativamente limitato. Una proposta interpretativa ragionevole è, a nostro sommesso parere, quella per la quale deve essere compiuta a riguardo una distinzione tra cessione del contratto e cessione del credito, nel senso di escludere la prima nei confronti di soggetti diversi da Banche o intermediari di cui all'art. 106 T.U.B. ed ammettere la seconda in forza della regola enunciata dall'art. 1260 c.c. sulla generale cedibilità dei crediti (v. Mari, par. 2).

Sul piano passivo, l'art. 48-bis T.U.B. fa riferimento a contratti di finanziamento in favore, genericamente, di imprenditori, sicché sembra potersi ritenere che l'istituto trovi applicazione nei riguardi di tutti gli imprenditori, sia individuali che società, rientranti nella nozione dell'art. 2082 c.c. e non soltanto degli imprenditori commerciali.

Secondo una parte della dottrina questa garanzia reale può essere utilizzata per assistere i finanziamenti bancari destinati a tutte le società cooperative, incluse quelle sociali, ed alle imprese sociali disciplinate dal d.lgs. n. 155/2006, poiché questi enti, anche se hanno uno scopo diverso dallo scopo di lucro, sono da considerarsi imprese in quanto hanno l'obbligo di essere iscritti nel Registro delle Imprese, ai sensi, rispettivamente, dell'art. 2523 c.c. e dell'art. 5, comma 2, d.lgs. n. 155/2006 (Visconti, 586).

Sul piano oggettivo dalla lettera della norma sembra che lo strumento sia utilizzabile soltanto a fronte di un contratto di finanziamento e che restino escluse dall'ambito applicativo dell'istituto le fattispecie di concessione del credito che non trovano causa in detto contratto.

La subordinazione del trasferimento all'inadempimento del soggetto finanziato

Il trasferimento della proprietà o del diritto reale sul bene oggetto della garanzia – bene che può appartenere anche ad un terzo datore e non deve costituire abitazione principale del debitore, coniuge, parenti ed affini entro il terzo grado – è sospensivamente condizionato all'inadempimento del debitore.

Pertanto, si verifica una fattispecie a formazione progressiva, nella quale il trasferimento è sospensivamente condizionato all'inadempimento del debitore, sicché quest'ultimo (che, come evidenziato, è un imprenditore) continua a disporre materialmente del bene, del quale potrà essere definitivamente privato solo laddove la condizione si sia avverata.

Come osservato in dottrina è stata codificata, mediante tale strumento, la discussa «condizione di inadempimento» (Ambrosini, par. 3).

L'operare di una condizione sospensiva (di inadempimento) implica l'applicazione, prima che la stessa si realizzi, delle regole dettate dagli artt. 1356 e ss. c.c., i.e. che il debitore/alienante deve comportarsi secondo correttezza e buona fede per preservare il diritto dell'acquirente sub condicione (pur potendo, almeno in astratto, vendere il bene ad un terzo tale trasferimento è destinato ad essere travolto, se si verifica la condizione, dall'effetto retroattivo della stessa).

Durante il periodo di pendenza della condizione, sospensiva o risolutiva, nei negozi obbligatori o traslativi, è imposto dallo art. 1358 c.c. a colui che si è obbligato o che ha alienato un diritto sotto condizione risolutiva, l'obbligo di comportarsi secondo buona fede per conservare integre le ragioni dell'altra parte, mentre la parte controinteressata all'avveramento della condizione non deve ostacolare il libero svolgimento del fatto, da cui dipende la efficacia o la risoluzione del contratto, con la conseguenza che la condizione stessa si considera avverata quando alla stessa parte controinteressata sia addebitabile il mancato verificarsi dello evento. Pertanto, costituendo la fictio di avveramento una sanzione, l'imputabilità del fatto impeditivo deve trovare la sua base in una condotta dolosa o colposa, in una maliziosa preordinazione del fatto impeditivo o almeno in un'azione od omissione cosciente e volontaria, anch'essa contrastante col principio della correttezza e della buona fede (Cass. II, n. 4118/1984).

L'art. 48-bis T.U.B. trova applicazione anche ai contratti già stipulati alla data di entrata in vigore dello stesso, nei quali potrà essere inserita la clausola marciana con atto notarile.

Non è chiaro, dalla formulazione dell'art 48-bis del d.lgs. n. 385/1993, se il contratto munito della clausola debba essere stipulato in forma pubblica anche ove la pattuizione sia contestuale al contratto di finanziamento.

Tale forma non sarebbe, in realtà, strettamente necessaria per la trascrizione dell'atto, essendo a tal fine sufficiente anche una scrittura privata autenticata.

Può tuttavia ritenersi almeno opportuna la stipula del contratto in forma pubblica, poiché lo stesso dovrebbe essere corredato da tutti gli elementi previsti per una compravendita immobiliare, dovendo il patto in questione costituire sin dall'inizio un titolo valido per il trasferimento del bene nel momento nel quale si verifica la condizione.

Equiparazione all'ipoteca e alla trascrizione

Il patto c.d. marciano è equiparato espressamente, dall'art. 48-bis T.U.B., all'ipoteca nel concorso con i creditori: pertanto la banca ovvero l'istituto finanziatore che si avvale della clausola è equiparato al creditore ipotecario (con quanto ne consegue, soprattutto nel caso di successivo assoggettamento del debitore a procedura concorsuale: Ambrosini, 1075, par. 5).

Ciò implica, peraltro, che, se il finanziamento è già garantito da ipoteca su un immobile, il trasferimento sospensivamente condizionato dello stesso bene, una volta trascritto nei registri immobiliari, prevale solo sulle eventuali iscrizioni e trascrizioni eseguite successivamente all'iscrizione ipotecaria.

In sostanza, l'ordine delle ipoteche e dei patti di trasferimento iscritti (per le ipoteche) o trascritti (per i patti) sullo stesso immobile si determina sulla base della priorità temporale dell'iscrizione o della trascrizione della garanzia. Ne deriva che, in tale ipotesi, se ha trascritto prima, il creditore garantito da un patto di trasferimento prevarrà (cioè il suo credito dovrà essere soddisfatto prima) anche su un creditore che ha un'ipoteca di primo grado sullo stesso immobile.

Inoltre, il trasferimento sospensivamente condizionato previsto dal patto marciano è soggetto a trascrizione, affinché possa essere assicurata la prevalenza – al verificarsi, eventuale della condizione, del trasferimento condizionato sulle trascrizioni ed iscrizioni successive.

La nota di trascrizione del patto di trasferimento sospensivamente condizionato deve essere corredata dagli elementi previsti dai numeri 4), 5) e 6) del comma 2 dell'art. 2839 c.c., ovvero la somma per cui la trascrizione del patto è eseguita, gli interessi e le annualità che il credito produce, il momento della esigibilità del credito, i.e. la data nella quale il creditore può chiedere il pagamento di esso al debitore.

Nell'ipotesi in cui tra la somma indicata nel contratto e quella riportata nella nota di trascrizione dello stesso vi sia una differenza, la trascrizione avrà efficacia per la somma minore, analogamente a quanto previsto dal comma 2 dell'art. 2838 c.c. per l'ipoteca.

L'inadempimento rilevante per il verificarsi della condizione

Ai sensi dell'art. 48-bis, comma 5, T.U.B., si ha inadempimento rilevante per l'operatività della clausola marciana quando il mancato pagamento si protrae per oltre nove mesi dalla scadenza di almeno tre rate, anche non consecutive, nel caso di obbligo di rimborso a rate mensili; o per oltre nove mesi dalla scadenza anche di una sola rata, quando il debitore è tenuto al rimborso rateale secondo termini di scadenza superiori al periodo mensile; ovvero, per oltre nove mesi, quando non è prevista la restituzione mediante pagamenti da effettuarsi in via rateale, dalla scadenza del rimborso previsto nel contratto di finanziamento. Qualora alla data di scadenza della prima delle rate, anche non mensili, non pagate di cui al primo periodo il debitore abbia già rimborsato il finanziamento ricevuto in misura almeno pari all'85% della quota capitale, il periodo di inadempimento di cui al medesimo primo periodo è elevato da nove a dodici mesi.

Come è stato osservato in dottrina, la scelta normativa di individuare la soglia di rilevanza dell'inadempimento facendo riferimento al numero delle rate insolute e non alla percentuale dell'importo inadempiuto rispetto al totale del debito potrebbe implicare, a seconda dei casi, la possibilità di attivare la clausola marciana anche se l'inadempimento non è graveexart. 1455 c.c. ovvero, per converso, l'impossibilità di utilizzare detto meccanismo anche in presenza di un inadempimento grave (D'Amico, par. 3.1.).

In applicazione delle regole generali, se l'inadempimento è grave ex art. 1455 c.c., seppur non lo sia avendo riguardo ai parametri previsti dall'odierno art. 48-bis T.U.B., il creditore potrà avvalersi delle forme ordinarie di tutela. Giova ricordare, a quest'ultimo riguardo, che, secondo quanto ripetutamente affermato in giurisprudenza, in tema di risoluzione per inadempimento, il giudice, per valutarne la gravità, deve considerare tutte le circostanze, oggettive e soggettive, dalle quali sia possibile desumere l'alterazione dell'equilibrio contrattuale (cfr. Cass. II, n. 10995/2015, la quale, in applicazione del principio, ha confermato la sentenza di merito, che, in un caso di vendita con riserva di proprietà, aveva valutato l'importanza dell'inadempimento avendo riguardo sia del numero delle rate scadute e non pagate al momento della domanda, sia dell'intenzione manifestata dal compratore prima del giudizio di non voler provvedere al pagamento dei ratei successivi). In particolare, nei contratti con prestazioni corrispettive, in caso di denuncia di inadempienze reciproche, è necessario comparare il comportamento di entrambe le parti per stabilire quale di esse, con riferimento ai rispettivi interessi ed alla oggettiva entità degli inadempimenti, si sia resa responsabile delle trasgressioni maggiormente rilevanti ed abbia causato il comportamento della controparte, nonché della conseguente alterazione del sinallagma (Cass. II, n. 13627/2017). Resta fermo, poi, che la gravità dell'inadempimento ai sensi dell'art. 1455 c.c.va commisurata all'interesse che la parte adempiente aveva o avrebbe potuto avere alla regolare esecuzione del contratto e non alla convenienza, per detta parte, della domanda di risoluzione rispetto a quella di condanna all'adempimento (Cass. III, n. 4022/2018).

Nel dibattito in sede di conversione del d.l. n. 59/2016, nella l. n. 118/2016, si era posto il problema dell'operatività del meccanismo, che appariva a taluni iniquo, anche nell'ipotesi di inadempimento verificatosi una volta che il finanziamento era stato quasi tutto restituito, con un residuo, ad esempio, solo del 10%-20%. Tuttavia, il sistema opera anche in fattispecie siffatte, pur essendo prevista una più ampia «forbice» di 12 mesi se è stato restituito almeno l'85% del capitale.

Conseguenze della scelta del creditore di avvalersi della clausola marciana

Solo dopo il verificarsi dell'inadempimento si apre per il finanziatore la scelta tra l'esecuzione ordinaria (o, rectius, il recupero del credito nelle forme ordinarie) e l'acquisizione della proprietà del bene avvalendosi della clausola marciana.

Nell'ipotesi in cui il creditore decida di avvalersi della clausola marciana, detta circostanza dovrà essere notificata al debitore ed all'eventuale terzo datore della garanzia.

Decorso un termine di sessanta giorni dalla notifica, il creditore stesso potrà rivolgersi al Presidente del Tribunale del luogo dove si trova l'immobile affinché nomini un perito stimatore per la valutazione imparziale del bene che caratterizza la pattuizione marciana rispetto a quella commissoria.

Non sono indicati i criteri che il perito deve utilizzare per l'effettuazione della stima, ma soltanto che la stessa deve essere giurata.

Secondo alcuni deve escludersi, tuttavia, l'operare dei puntuali criteri a tal fine dettati dall'art. 568 per la stima del bene nell'espropriazione immobiliare perché il comma sesto dell'art. 48-bis T.U.B. richiama, a tal fine, l'art. 1349, comma 1 c.c., ossia fa riferimento all'equo apprezzamento dell'arbitratore, fermo restando che il richiamo a quest'ultima norma comporta la possibilità per l'autorità giudiziaria di sindacare la stima operata dal perito esclusivamente laddove la stessa risulti manifestamente erronea o iniqua (Giordano, 2016).

Sembra, quindi, che il legislatore abbia tenuto conto di quelle che erano le indicazioni provenienti dalla S.C. quanto al procedimento di stima del bene che connota la pattuizione qualificabile come marciana e quindi lecita rispetto a quella commissoria. Invero, nel precedente del 2015, la Corte di legittimità aveva evidenziato che la clausola marciana si connota per la previsione di un procedimento volto alla stima del bene, entro tempi certi e con modalità definite, che assicurino la presenza di una valutazione imparziale, in quanto ancorata a parametri oggettivi automatici, oppure affidata a persona indipendente ed esperta, la quale a detti parametri farà riferimento (art. 1349 c.c.), al fine della corretta determinazione dell'an e del quantum della eventuale differenza da corrispondere all'utilizzatore (Cass. n. 1625/2015).

Questa soluzione è stata criticata da un'altra parte della dottrina ponendo in rilievo che:

a) La S.C. ha escluso l'applicabilità dell'art. 1349 c.c. per le c.d. perizie contrattuali, in quanto dichiarazioni di scienza e non di volontà o integrative di una volontà contrattuale incompleta (Dolmetta);

b) in secondo luogo, ed al di là di quanto sopra, perché ai fini della stima ex art. 48-bis T.U.B. non sembra prevista l'applicazione degli «abbattimenti» previsti dall'art. 173-bis disp. att. c.p.c., con il rischio di una valutazione non veritiera e senza considerare che sul prezzo stimato ai sensi di tale ultima disposizione il creditore che ne faccia richiesta può, a certe condizioni, conseguire l'assegnazione del bene, che, quindi, potrebbe rivelarsi più «appetibile», nell'ottica di conseguire il trasferimento coattivo del bene (Auletta A., La realizzazione delle nuove forme di autotutela esecutiva nel processo esecutivo).

Rispetto alla stima del bene le parti possono presentare le loro osservazioni ma, comunque, nel tempo necessario per l'assunzione della relativa decisione non è «bloccato» il trasferimento del bene che, nelle more, si produrrà in ogni caso.

La condizione sospensiva (c.d. condizione di inadempimento), con conseguente acquisizione retroattiva della proprietà del bene da parte del finanziatore, si verifica una volta che è comunicato al creditore il valore di stima ovvero, se necessario perché il valore del bene supera quello del credito, al momento dell'avvenuto versamento all'imprenditore dell'eccedenza.

Ai fini pubblicitari connessi all'annotazione di cancellazione della condizione sospensiva del patto di trasferimento di un bene immobile ai sensi del comma 3 dell'art. 2668 c.c., il creditore, anche unilateralmente, rende nell'atto notarile di avveramento della condizione una dichiarazione sostitutiva dell'atto di notorietà (ai sensi dell'art. 47 del d.P.R. n. 445/2000) con cui attesta l'inadempimento del debitore ai sensi del comma 5 dell'art. 48-bis T.U.B. allegandovi anche un estratto autentico delle sue scritture contabili previste dall'art. 2214 c.c. (comma 9).

Gli strumenti di tutela del debitore

Sul piano processuale, a differenza di quanto avviene per il pegno mobiliare non possessorio introdotto dall'art. 1 del medesimo d.l. n. 59/2016, conv. in l. n. 118/2016, non è previsto per il debitore alcuno specifico strumento di opposizione.

Ciò potrebbe vanificare in modo non trascurabile il vantaggio derivante dalla «privatizzazione» dell'esecuzione che l'art. 48-bis T.U.B. persegue, sul modello di altri ordinamenti.

Invero, in ragione della valenza costituzionale del diritto d'azione in giudizio ex art. 24 Cost., nonché in forza dell'art. 6 della CEDU, l'assenza di uno specifico strumento per contestare l'inadempimento non potrebbe vuol dire mancanza di tutela giurisdizionale per il debitore, bensì riconoscimento allo stesso della possibilità di proporre un'azione ordinaria di accertamento negativo dell'inadempimento ovvero, più in generale, della carenza dei presupposti per il creditore di avvalersi della clausola marciana.

Questo comporta, inoltre, la possibilità per il debitore di proporre, anche ante causam, domanda cautelare d'urgenza ai sensi dell'art. 700, al fine di ottenere un provvedimento inibitorio del trasferimento della proprietà del bene al finanziatore nelle more della definizione del giudizio di merito.

Infatti, come noto, il provvedimento d'urgenza è una misura cautelare di carattere residuale ed avente contenuto atipico che, ai sensi dell'art. 700, può essere richiesta, in assenza di un rimedio cautelare tipico, per tutelare un diritto, nelle more del tempo necessario per far valere lo stesso in via ordinaria, a fronte del pericolo di un pregiudizio imminente ed irreparabile.

Il rischio cui è pertanto esposta la Banca o l'intermediario autorizzato che si sia avvalso della pattuizione marciana è di ritrovarsi il bene «bloccato», non nell'ambito di una procedura esecutiva immobiliare, quanto in un giudizio ordinario di cognizione che potrebbe dipanarsi lungo i canonici tre gradi.

Né, peraltro, l'irrevocabilità della scelta di avvalersi della pattuizione marciana compiuta al momento della relativa notifica al debitore consente al finanziatore di dare corso all'esecuzione ordinaria sul medesimo bene a fronte di una misura inibitoria del trasferimento di proprietà dell'immobile.

Diritto sottoposto a esecuzione forzata al momento del verificarsi della condizione

Il comma 10 dell'art. 48-bis T.U.F. prevede che, nell'ipotesi in cui il diritto reale immobiliare oggetto del patto marciano sia sottoposto ad esecuzione forzata – circostanza che ben può verificarsi perché la pendenza della condizione non impedisce che altri creditori attivino procedure esecutive nei confronti del medesimo bene – può darsi luogo comunque al trasferimento del diritto in favore del finanziatore.

L'equiparazione del patto marciano all'ipoteca implichi che il finanziatore debba essere equiparato ai creditori iscritti e, quindi, essere reso edotto dell'inizio della procedura esecutiva immobiliare avente ad oggetto l'immobile cui tale patto si riferisce, in applicazione dell'art. 458.

Tuttavia, l'omissione dell'avviso non dovrebbe comportare, come di regola, l'invalidità della procedura esecutiva, ma soltanto conseguenze risarcitorie a carico del creditore procedente che non ha provveduto a tale adempimento.

Nell'ipotesi di procedura esecutiva già in corso avente ad oggetto l'immobile in relazione al quale è stata pattuita la clausola marciana di cui all'art. 48-bis del T.U.B., l'accertamento dell'inadempimento del debitore, ove quest'ultimo lo richieda, è effettuato dal giudice dell'esecuzione con ordinanza ed il valore di stima del bene è determinato da un esperto nominato dal medesimo giudice.

Sotto quest'ultimo profilo, occorre considerare che non si fa rinvio, quanto ai criteri per l'effettuazione della stima, a quelli stabiliti dall'art. 568 per l'espropriazione immobiliare, sicché si potrebbe ritenere che trovi applicazione anche in detta ipotesi l'art. 1349 c.c. che si rimette all'equo apprezzamento del perito.

Questa soluzione, tuttavia, non è stata ritenuta condivisibile per diverse ragioni (Giordano, 2018).

In primo luogo, potrebbe darsi che, nell'esecuzione in corso, quando interviene il finanziatore che intende avvalersi della clausola marciana l'immobile è già stato stimato seguendo le regole previste per la stima dello stesso nell'espropriazione immobiliare.

Sarebbe in detta ipotesi antieconomico ritenere che debba essere effettuata ex novo una stima del medesimo bene, peraltro rimettendosi al meno oggettivo criterio dell'equo apprezzamento del perito. Peraltro, il necessario rispetto del principio del contradditorio comporta l'esigenza che sulla relazione già depositata il finanziatore possa formulare osservazioni ed ottenere anche la riconvocazione dell'esperto stimatore a chiarimenti o il rinnovo, in tutto o in parte, delle operazioni peritali.

Né la soluzione potrebbe essere differente ove nella procedura esecutiva immobiliare già intrapresa al momento dell'inadempimento del debitore non sia stata effettuata la perizia di stima, al fine di garantire con criteri più puntuali gli altri creditori che sono in quella esecuzione (considerato il riparto successivo ex art. 512).

Con l'ordinanza, ove ravvisi l'inadempimento dell'esecutato che ha concesso la garanzia, il giudice dell'esecuzione, trasferito il bene al finanziatore, indica a quest'ultimo un termine per il pagamento delle spese dell'esecuzione, dei creditori prelatizi anteriori nonché per l'eventuale restituzione dell'eccedenza al debitore.

In sostanza, quindi, deve essere rispettato il principio della par condicio creditorum sebbene limitatamente ai creditori che sono intervenuti in concreto nella procedura esecutiva, in accordo con le regole generali.

Si tratta di una sorta di distribuzione del ricavato, derivante dalle somme «rimesse» nell'esecuzione dal finanziatore per la quale trova applicazione l'art. 512 da altri creditori che non sono d'accordo e debitore esecutato.

Si pone il problema della qualificazione dell'istanza del debitore al giudice dell'esecuzione per accertare l'inadempimento in pendenza della procedura esecutiva. In dottrina si è osservato che, avendo riguardo alle categorie «tradizionali», tale istanza dovrebbe essere qualificata in termini di opposizione ex art. 615 c.p.c. in quanto si contesta da parte del debitore il diritto a procedere in executivis nei propri confronti da parte della Banca o di un altro intermediario che ha concesso il finanziamento. Tuttavia si è anche sottolineato che non può porsi in non cale, al contempo, l'espresso utilizzo del termine «istanza» ed il richiamo, come avviene per l'accertamento endoesecutivo dell'obbligo del terzo ex art. 549 e per le controversie distributive nella prima fase dinanzi al giudice dell'esecuzione, regolata dall'art. 512. Il sistema potrebbe quindi essere ricostruito nei termini seguenti. L'accertamento dell'inadempimento del debitore compiuto dal giudice dell'esecuzione con ordinanza non può essere, considerato «l'ambiente esecutivo» nel quale viene effettuato e che il giudice dell'esecuzione non è deputato all'accertamento di diritti soggettivi, idoneo al giudicato ma assume una valenza meramente endo-procedimentale.

Invero, pur nel silenzio normativo sulla questione, tenuto conto delle regole generali, l'ordinanza in questione, quale atto del giudice dell'esecuzione, soggiace ad opposizione agli atti esecutivi, opposizione demandata solo nella prima fase c.d. necessaria al giudice dell'esecuzione e che, su impulso di ciascuna delle parti, può dare in seguito luogo ad un'opposizione c.d. di merito.

Questo assetto implica che se non viene proposta alcuna opposizione l'atto esecutivo con il quale il giudice dell'esecuzione «accerta» l'inadempimento, in realtà non avrà alcuna valenza di accertamento e potrà essere posto in discussione in un ordinario giudizio di accertamento negativo della pretesa creditoria. Diversamente, se viene proposta opposizione agli atti esecutivi contro l'ordinanza del giudice dell'esecuzione che accerta l'inadempimento del debitore, instaurato l'eventuale giudizio di merito ex art. 618 la sentenza conclusiva dello stesso sarà idonea al giudicato sulla sussistenza o meno dell'inadempimento del debitore.

Fallimento del debitore esecutato

L'art. 48-bis dello stesso d.lgs. n. 385/1993 prevede che, se interviene il fallimento del debitore, trova applicazione il già richiamato comma 10 dettato per l'esecuzione forzata, in quanto compatibile.

Il comma 12 prefigura, invero, l'ipotesi in cui, dopo la trascrizione del patto, sopravvenga il fallimento del titolare del diritto reale immobiliare. In questa evenienza, com'è chiaro, occorre rispettare le regole fallimentari. Il creditore deve quindi richiedere l'ammissione al passivo e, una volta che l'abbia ottenuta, può fare istanza al giudice delegato affinché questi, sentiti il curatore e il comitato dei creditori, provveda a norma del predetto comma 10, in quanto compatibile.

In sostanza, la banca – qualora venga ammessa al passivo – può chiedere al giudice di provvedere ai sensi dell'art. 10, ossia di accertare l'avveramento della condizione sospensiva, disponendo il trasferimento del bene alla banca medesima (previa effettuazione dei versamenti di cui si è sopra detto. È stato evidenziato che, sotto tale profilo, la norma sembra in qualche modo riecheggiare quella del comma 2 dell'art. 41 T.U.B. (in materia di credito fondiario), secondo cui l'azione esecutiva sui beni ipotecati a garanzia dei finanziamenti fondiari può essere iniziata o proseguita dalla banca anche dopo la dichiarazione di fallimento del debitore », con la precisazione che la somma ricavata dall'esecuzione, eccedente la quota che in sede di riparto risulta spettante alla banca, viene attribuita al fallimento (cfr. D'Amico, 1 ss.).

L'accertamento dell'inadempimento quale condizione di accoglimento della domanda di ammissione al passivo fallimentare da parte del finanziatore è effettuato quindi secondo la procedura exartt. 93 e ss. l.fall. e ne segue le sorti delle impugnatorie processuali.

La stima del bene va eseguita nella procedura concorsuale secondo le regole ivi previste perché, anche e soprattutto qui, vi è il concorso di altri creditori e quindi esigenza, non solo del debitore, che venga definito un valore congruo del bene al quale lo stesso potrà essere trasferito al finanziatore, ossia soltanto dopo il pagamento, da parte di quest'ultimo, agli altri creditori in conformità alle regole del concorso.

Ai sensi dell'ultimo comma dell'art. 48-bis del T.U.B., come già evidenziato, ai fini del concorso tra i creditori, il patto a scopo di garanzia di cui al comma 1 è equiparato all'ipoteca.

Occorre coerenziare tale disciplina con quanto stabilito dal comma 12 della medesima disposizione normativa nella parte in cui consente al finanziatore di chiedere ed ottenere il trasferimento del bene nonostante l'intervenuta dichiarazione di fallimento.

Una soluzione potrebbe essere quella di ritenere limitata l'operatività del predetto comma 13-bis alle ipotesi in cui, al momento del fallimento, non sussistano ancora i presupposti perché possa dirsi avverata la «condizione di inadempimento» alla quale è subordinata l'efficacia del patto marciano, sicché pur non potendo invocare il trasferimento del diritto (oggetto del patto), la banca ha comunque diritto al trattamento del proprio credito alla medesima stregua di un credito ipotecario.

Una differente e più limitativa interpretazione indurrebbe, invero, se non fosse previsto un simile effetto, le banche a non rinunciare alla costituzione di una ipoteca, rispetto alla quale non considererebbero valida alternativa la previsione di un patto marciano.

Natura della clausola «marciana»

Una delle problematiche interpretative di maggiore rilevanza è quella afferente la qualificazione della pattuizione marciana: in particolare, è controverso se la stessa abbia natura solutoria o di garanzia.

In generale, non è superfluo ricordare che si ha funzione di garanzia in presenza di strumenti negoziali o legali che risultano idonei a soddisfare l'aspettativa di realizzazione del credito, aggiungendo elementi ulteriori rispetto a quelli che l'ordinamento ricollega per legge alla presenza di un rapporto obbligatorio, mentre la funzione solutoria qualifica gli strumenti che assicurano il soddisfacimento dell'interesse finale sottostante al credito, nel senso che il creditore deve ritenersi in ogni caso soddisfatto dal trasferimento in proprio favore del bene oggetto della pattuizione.

Invero, l'art. 48-bis T.U.B. non risolve esplicitamente il problema se il trasferimento del diritto in attuazione della clausola marciana estingua per intero l'obbligazione nei confronti della banca anche ove il valore dell'immobile sia risultato inferiore al credito rimasto inadempiuto. La natura solutoria del patto marciano è invece espressamente prevista nell'ipotesi del prestito vitalizio ipotecario e dall'art. 120-quinquiesdecies del d.lgs. n. 209/2005 per i contratti dei consumatori (per il quale v., infra, par. 4).

Per una prima impostazione, poiché il principio espresso dall'art. 2740 c.c. ha carattere generale, in assenza di una specifica previsione normativa in tal senso non potrebbe predicarsi tale soluzione.

Per altri, invece, nonostante il silenzio del 48-bis dovrebbe tributarsi valenza solutoria alla clausola marciana, sulla scorta, sostanzialmente, delle seguenti argomentazioni:

a) non potrebbe ritenersi ammissibile una datio in solutum parziale;

b) affermare la tesi opposta si porrebbe in contrasto con l'obiettivo normativo di deflazionare le procedure di esecuzione forzata;

c) l'imprenditore non sarebbe, diversamente, propenso a stipulare una clausola siffatta.

Pertanto, secondo questa configurazione, l'atto con il quale il creditore decide di avvalersi degli effetti del patto assume una duplice valenza, in quanto «compiendolo il creditore rinnova gli effetti del proprio consenso ad una estinzione prodotta da un surrogato dell'adempimento che costituisce una forma di attuazione del rapporto obbligatorio, sicché la relativa scelta pregiudica la possibilità di pretendere il pagamento della differenza ove il credito sia superiore al valore del bene.

La ragione fondamentale che, tuttavia, induce ad avallare sul piano interpretativo la soluzione favorevole alla natura solutoria dello strumento di autotutela è quella che si fonda sulle finalità deflattive dello stesso che sarebbero compromesse ove al creditore sarebbe concessa la possibilità, una volta scelta la strada di avvalersi della clausola «marciana», di percorrere, per la differenza, anche la strada dell'esecuzione forzata ordinaria.

Le indicate ragioni di quella parte della dottrina poste a fondamento della tesi favorevole all'effetto esdebitatorio conseguente alla vendita del bene, a prescindere dalla completa soddisfazione del creditore, non sono dirimenti. A riguardo, si è osservato che non potrebbe considerarsi anomala la possibilità di concepire una datio in solutum parziale, e ciò non solo nel senso che la datio in solutum possa intervenire quando una parte del debito sia stata già adempiuta, ma anche nel senso che possa concordarsi che il debito esistente sia solo in parte soddisfatto con una prestazione diversa, e che rimanga in vita per la restante parte. Al contempo si è osservato che una disciplina che attribuisca inderogabilmente al trasferimento del diritto carattere «satisfattivo e liberatorio» potrebbe disincentivare l'altro contraente (ossia la banca) dalla stipula del patto marciano, oppure indurla a richiedere in «garanzia» un immobile di valore (più) elevato, per evitare il rischio di in capienza, senza che tale rischio sia neutralizzato dalla facoltà, che la banca ha, di non avvalersi del patto marciano, e quindi di perseguire la realizzazione coattiva del proprio credito secondo le procedure ordinarie, poiché può sussistere un ragionevole interesse dell'istituto di credito a conseguire il bene oggetto del trasferimento, ma senza per questo (dover) rinunciare al soddisfacimento del residuo credito (il che è poi quello che sarebbe avvenuto se, in luogo di un patto marciano, fosse stata convenuta una più tradizionale garanzia «ipotecaria»: D'Amico, 1 ss.).

Da un lato, il debitore fin dall'inizio offre il bene dato in garanzia affinché costituisca la prestazione diversa in luogo dell'adempimento; dall'altro, il creditore con la dichiarazione di volersi avvalere degli effetti del patto presta il suo consenso alla diversa prestazione, conservando integri e impregiudicati fino a quel momento i diritti derivanti dal rapporto contrattuale (Pagliantini, 931).

È stato inoltre sottolineato che, avendo riguardo alla disciplina espressamente prevista dall'art. 120-quinquiesdecies T.U.B. per il cd. patto marciano dei consumatori, sostenere la diversità di effetti, quanto all'eventuale residuo insoddisfatto del credito, si riverserebbe in una discriminazione della posizione dei creditori terzi che solo nel caso di estinzione totale dell'obbligazione garantita possono confidare nella possibilità di rivalersi in via esclusiva sui beni residui del debitore (Scotti, 1477 e ss.).

La ragione fondamentale che, tuttavia, induce ad avallare sul piano interpretativo la soluzione favorevole alla natura solutoria dello strumento di autotutela è quella che si fonda sulle finalità deflattive dello stesso che sarebbero compromesse ove al creditore sarebbe concessa la possibilità, una volta scelta la strada di avvalersi della clausola «marciana», di percorrere, per la differenza, anche la strada dell'esecuzione forzata ordinaria.

La questione principale è quella che riguarda la possibilità per il creditore, ove non sia integralmente soddisfatto dalla vendita del bene, di aggredire ulteriormente il creditore, possibilità che può essere riconosciuta solo attribuendo alla clausola natura di garanzia e non solutoria.

Inoltre, dalla qualificazione in termini di garanzia o di datio in solutum della pattuizione marciana deriva anche la soluzione della questione del rapporto con le prelazioni aventi fonte legale (come il retratto successorio o quella prevista dall'art. 230-bis c.c.) che possono essere neutralizzate solo ove si opti per quest'ultima qualificazione.

Occorre interrogarsi, in via generale, se per i crediti relativi all'esercizio delle attività di impresa la descritta disciplina dettata dall'art. 48-bis T.U.B. costituisca un'effettiva novità nel sistema nonché se soltanto mediante le previsioni della stessa possa essere oggi convenuta una pattuizione marciana.

Secondo autorevole dottrina, invero, la convenzione marciana rimane valida secondo gli orientamenti S.C. più recenti anche se il modello negoziale scelto dalle parti non è quello previsto dalle nuove normative introdotte purché rimanga l'elemento indefettibile della previsione di un convegno effettuale che assicura al debitore il diritto di ottenere l'eccedenza nei casi in cui il valore del bene destinato all'autosoddisfacimento superi l'entità del debito, in base ad una stima da effettuarsi dopo l'inadempimento, in base a criteri di oggettività dei valori e di terzietà del perito (Luminoso, par. 5). In questa prospettiva, la reale innovazione introdotta è la positivizzazione della tesi, già invalsa in dottrina come in giurisprudenza, circa la liceità, ove la stessa si presenti secondo le caratteristiche indicate, della pattuizione marciana.

Secondo alcuni, si può ritenere che le discipline cui si è fatto riferimento, nell'essere forse meno innovative di quanto si possa di primo acchito pensare (perché formalizzano soluzioni che in qualche modo dovevano considerarsi già implicitamente presenti nel sistema), possono sgombrare definitivamente il campo dai dubbi sulla liceità delle negoziazioni che, mediante qualsiasi struttura e anche al di fuori delle fattispecie appena tipizzate, utilizzano il modello del marciano, senza che si possa più ragionevolmente discorrere, come in alcuni casi è accaduto in passato, di «eccezionalità» o di «microsistemi» che vivono di logiche proprie» (Cipriani, 1718).

Bibliografia

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