Interesse ad agire ed azione di accertamento del diritto al risarcimento del danno: il caso dello sciopero con blocco delle merci

Luigi Pazienza
22 Gennaio 2025

Negli ultimi anni, soprattutto nel settore della logistica, si verificano frequentemente manifestazioni sindacali anomale caratterizzate non dalla semplice astensione dal lavoro da parte dei lavoratori, ma anche da condotte attive poste in essere dai lavoratori caratterizzate dal blocco delle merci, dal c.d. picchettaggio ostruzionistico e da atti di minaccia e di violenza. 

Premessa

Il Tribunale di Milano, ritenendo sussistere il presupposto processuale dell’interesse ad agire, ha accolto la domanda formulata da una società ritenendo illecite le condotte poste in essere dalla organizzazione sindacale convenuta pur in assenza di una richiesta di accertamento di un danno risarcibile, mentre la Corte di appello di Milano, ritendendo di non pronunciarsi sulla tematica dell’interesse ad agire e preferendo affrontare il merito della vicenda,  ha rigettato la domanda riformando la decisione di primo grado.

Nella vicenda in esame appare doveroso affrontare la tematica della sussistenza dell’interesse ad agire della società, in quanto la domanda giudiziale si sostanzia in una richiesta di accertamento della sola illiceità delle condotte senza la richiesta di accertamento e/o condanna al risarcimento di un danno. Inoltre, appare opportuno chiarire in vicende simili i contorni della tipologia di danno prospettabile da parte della impresa.

Interesse ad agire e ammissibilità della azione di accertamento

Una società impegnata nel settore della logistica conviene in giudizio una sigla sindacale ed alcuni lavoratori al fine di ottenere dal giudice una sentenza di accertamento della legittimità dei licenziamenti irrogati e di accertamento della illiceità da alcune condotte poste in essere da aderenti al sindacato nell'ambito di alcune iniziative sindacali ritenute violente di blocco delle merci.

Se non sussistono dubbi sulla sussistenza dell'interesse ad agire ad ottenere una pronunzia del giudice sulla legittimità dei licenziamenti nei confronti dei lavoratori, perplessità, invece, sussistono sulla configurabilità di un interesse ad agire nei confronti della sigla sindacale, dal momento che il sindacato viene convenuto in giudizio senza la delineazione della rivendicazione di un diritto, anche se pare evidente che l'unico diritto prospettabile nei confronti del sindacato sia di carattere risarcitorio.

A tal proposito occorre porsi il problema se siano ammissibili azioni di mero accertamento di fatti giuridicamente rilevanti ai fini della configurabilità di determinati diritti.

La Suprema Corte con la sentenza n. 29090/2022 ha affermato che «il processo, salvi casi eccezionali predeterminati dalla legge, può essere utilizzato solo come fondamento del diritto fatto valere in giudizio e non per perseguire ulteriori effetti, soltanto possibili e futuri, non essendo proponibili azioni autonome di mero accertamento di fatti giuridicamente rilevanti, che costituiscano elementi frazionistici della fattispecie costitutiva di un diritto».

La Cassazione nega la sussistenza dell'interesse ad agire per il mero accertamento dei presupposti del diritto risarcitorio senza che sia proposta allo stesso tempo una domanda di condanna o quantomeno di accertamento del diritto al risarcimento del danno.

Sul punto occorre ricordare il caso di un lavoratore che aveva domandato l'accertamento dell'illegittimità del trasferimento disposto nei suoi confronti deducendo il proprio interesse all'accertamento dell'inadempimento datoriale, ma non vi aveva collegato alcuna domanda di condanna o di accertamento del diritto al risarcimento del danno: la Suprema Corte, in applicazione del principio  esposto, aveva escluso l'interesse ad agire del lavoratore, costituendo l'inadempimento datoriale solo uno degli elementi della fattispecie determinativa del danno (Cass. 6749/2012).

In tal senso si pone anche la sentenza della Cassazione n. 30584/2021 secondo cui l'interesse ad agire richiede non solo l'accertamento di una situazione fattuale potenzialmente produttiva di effetti giuridici, ma anche che la parte prospetti l'esigenza di ottenere un risultato utile giuridicamente apprezzabile e non conseguibile senza l'intervento del giudice, «poiché il processo non può essere utilizzato solo in previsione di possibili effetti futuri pregiudizievoli per la parte, senza che sia precisato il risultato utile e concreto che essa intenda in tal modo conseguire». Ne consegue che non sono proponibili azioni autonome di mero accertamento di fatti giuridicamente rilevanti che costituiscano solo «elementi frazionari della fattispecie costitutiva di un diritto», il quale può costituire oggetto di accertamento giudiziario solo nella sua interezza.

In questo ordine di idee, secondo la Cassazione, l'interesse ad agire difetta allorquando il giudizio sia strumentale alla soluzione soltanto in via di massima o accademica di una questione di diritto in vista di situazioni future o meramente ipotetiche. Non sono ammissibili questioni d'interpretazioni di norme, se non in via incidentale e strumentale alla pronuncia sulla domanda principale di tutela del diritto ed alla prospettazione del risultato utile e concreto che la parte in tal modo intende perseguire (cfr. anche Cass. 24 gennaio 2019, n. 2057).

Nel caso esaminato dalla Suprema Corte la domanda giudiziale proposta aveva ad oggetto l'accertamento del diritto del ricorrente alla reintegra nelle mansioni corrispondenti al livello di inquadramento posseduto. La situazione giuridica fatta valere era costituita più propriamente dall'accertamento dell'inadempimento datoriale rispetto agli obblighi derivanti dall'art. 2103 c.c. in funzione del ripristino nelle mansioni proprie della qualifica di inquadramento. Una volta venuto meno il rapporto di lavoro per dimissioni del lavoratore, essendo divenuto impossibile l'ordine di ripristino, il solo accertamento dell'inadempimento datoriale costituiva uno degli elementi dell'azione proposta, non essendo stata formulata alcuna domanda risarcitoria in unione a quella ripristinatoria delle mansioni. In altri termini, il mero accertamento dell'altrui inadempimento non comporta automaticamente una pretesa risarcitoria da parte del creditore, costituendo l'inadempimento soltanto uno degli elementi della fattispecie determinativa di danno, sicché esso è insuscettibile di integrare gli estremi di una domanda autonoma.

L'accertamento giudiziale concerne, di regola, solo realtà giuridiche e non fattuali. Tale limitazione nella sede giurisdizionale si spiega in base a ragioni di economia processuale, posto che, a causa dei relativi costi pubblici, lo Stato mette a disposizione il servizio-giustizia solo per le controversie relative all'accertamento di diritti.

Il giudice del Tribunale di Milano ha ritenuto sussistente l'interesse ad agire (pagg. 4 e 5 della sentenza) sostenendo che «…  risulta proprio che l'attrice abbia instaurato questo processo per risolvere lo stato di incertezza giuridica in ordine alle condotte sindacali censurate la cui lesività è stata oggetto di specifiche deduzioni. Lo stato di incertezza sulla liceità (o meno) del comportamento sindacale denunciato risulta tale, sulla scorta delle prospettazioni in ricorso, da arrecare all'attrice, ove questa non proponga l'accertamento giudiziale, un pregiudizio alla propria attività di impresa».

In particolare il Tribunale di Milano nel giustificare la propria tesi richiama quell'orientamento giurisprudenziale secondo cui «l'interesse ad agire, consistente nell'esigenza di ottenere un risultato utile giuridicamente apprezzabile e non conseguibile senza l'intervento del giudice, presuppone, nell'azione di mero accertamento, uno stato di incertezza oggettiva - cioè dipendente da un fatto esteriore od un atto e non considerazioni meramente soggettive - sull'esistenza di un rapporto giuridico, tale da arrecare all'interessato, ove questi non proponga l'accertamento giudiziale sulla concreta volontà della legge, un pregiudizio concreto ed attuale, ancorché non implicante necessariamente la lesione di un diritto»).

In sostanza sarebbe la situazione di incertezza in ordine alla legittimità di alcune condotte dei lavoratori organizzati dalla sigla sindacale convenuta in giudizio nell'ambito di una manifestazione sindacale a sostanziare la ammissibilità della iniziativa giudiziale. In tal senso secondo il Tribunale «la riserva attorea di agire in un eventuale separato giudizio per l'accertamento e la quantificazione dei danni asseritamente subiti non vanifica il vantaggio obiettivo che la società intende conseguire in questa sede, essendo stata prospettata l'esigenza di rimuovere lo stato di incertezza relativamente al diritto o meno del sindacato di porre in essere le condotte in controversia (speculare al dovere o meno dell'azienda di tollerare tali condotte); e, quindi, di ottenere un risultato utile giuridicamente apprezzabile e non conseguibile senza l'intervento del giudice».

Il Tribunale ritiene che sussista l'interesse ad agire, motivando sulla base di un presunto “stato di incertezza” in merito alla legittimità delle condotte del sindacato ed argomentando sulla attualità del danno che tale situazione di incertezza sarebbe idonea a generare. In sostanza la società ricorrente avrebbe un interesse qualificato ad ottenere una pronuncia giudiziale che stigmatizzi in un'ottica futura le condotte del sindacato convenuto tese a favorire nel corso delle manifestazioni sindacali episodi di violenza e di blocco delle merci.

Il giudice di primo grado ha valutato la sola attualità o potenzialità degli effetti lesivi di determinate condotte richiamando alcune sentenze della Cassazione che rilevano la sussistenza dell'interesse ad agire a fronte di «uno stato di incertezza oggettiva sull'esistenza di un rapporto giuridico o sulla esatta portata dei diritti e degli obblighi da esso scaturenti».

Tuttavia, nell'esaminare le sentenze citate si riscontra un dato contrario a quello assunto. Infatti, nella fattispecie esaminata dalla sentenza della Cassazione n.16262/2015 i giudici di merito si sono occupati, nell'ambito di un contratto di lavoro subordinato, di accertare la validità o meno della cessione del rapporto di lavoro ad altro soggetto, sicché l'incertezza riguardava la titolarità del rapporto di lavoro. Nel caso esaminato dalla pronunzia della Cassazione n. 6859/1993 i giudici di merito, nell'ambito di un contratto di locazione, hanno avuto il compito di accertare la qualità di locatore di un soggetto che, subentrato quale erede nella titolarità dell'immobile, pretendeva di aumentare il canone di locazione: in tale ipotesi la Cassazione ha ritenuto che non sussistesse l'interesse ad agire. Entrambe le sentenze hanno ad oggetto, tuttavia, rapporti giuridici di natura contrattuale e la loro esecuzione, mentre nella controversia in esame non si riscontra alcun rapporto giuridico tra la società ricorrente e la sigla sindacale.

Peraltro la stessa società ricorrente afferma nel ricorso che “l'accertamento richiesto costituisce sul piano tecnico processuale il presupposto per la condanna dei resistenti ai rilevanti danni economici patiti” (pag. 5 del ricorso) rilevando che “l'accertamento dell'illegittimità delle azioni contestate ai resistenti costituisce, per altro verso, il presupposto giuridico dell'esperenda azione di quantificazione e condanna al pagamento del danno subito dalla Ricorrente per effetto di tale illegittimità” (pag. 21 del ricorso).

In sostanza la società intende ottenere un provvedimento giudiziale che accerti il verificarsi di alcune condotte riconducibili alla sigla sindacale resistente per poter successivamente formulare una azione giudiziale di accertamento di danni che vengono semplicemente richiamati all'interno del ricorso introduttivo senza alcuna specifica descrizione.

Tuttavia, non sussiste un interesse giuridico a fondamento della scelta di agire con autonomo giudizio per l'accertamento dei soli presupposti della illiceità della condotta. Tali presupposti, costituendo solo elementi costitutivi di un diritto al risarcimento del danno solo ipotizzato e non oggetto di domanda di accertamento, non rappresentano delle questioni suscettibili di accertamento autonomo con efficacia di giudicato.

Occorre sempre ricordare che “la tutela giurisdizionale è tutela di diritti (art. 24 Cost., art. 2907 c.c., artt. 99 e 278 c.p.c). I fatti possono essere accertati dal giudice solo come fondamento di un diritto fatto valere in giudizio e non ex se per gli effetti possibili e futuri.

La società ricorrente non chiede l'accertamento della sussistenza di un danno, né tantomeno la condanna al risarcimento di un danno da quantificare in un successivo momento, ma si limita a chiedere l'accertamento di un segmento della fattispecie risarcitoria, ossia della illiceità della condotta. E, infatti, la sentenza di accoglimento del giudice di primo grado in aderenza al petitum accerta soltanto l'illegittimità delle condotte del sindacato, senza accertare la sussistenza di un danno e senza accertare la natura di tale eventuale responsabilità che potrebbe essere di natura contrattuale o extracontrattuale.

A fondamento della sussistenza dell'interesse ad agire, il giudice del Tribunale di Milano pone   il «pregiudizio alla…attività di impresa» (pag. 4 della sentenza) che deriverebbe dalla situazione di incertezza: tuttavia, la sola incertezza circa lo status giuridico di alcuni comportamenti avvenuti nel passato non può assurgere a diritto autonomo e degno di tutela giurisdizionale. Peraltro, non si tratta di un provvedimento giudiziale idoneo ad incidere su una situazione fattuale presente, in quanto la incertezza prospettata nel ricorso riguardava condotte ormai passate avvenute diversi mesi prima del deposito del ricorso.  L'accertamento della illiceità di determinate condotte non esclude che nel futuro non si verifichino condotte simili. 

L'accertamento di uno solo dei presupposti della fattispecie di risarcimento del danno non è idoneo a produrre alcuna utilità giuridica: anche in un eventuale successivo giudizio di risarcimento del danno; infatti, dovrebbero essere allegati e provati il danno, il nesso di causalità con le condotte ed il titolo cui tale danno potrebbe essere imputato: elementi il cui accertamento non è stato richiesto e su cui, infatti, la sentenza non si pronuncia. In sostanza la azione giudiziale si risolve nella richiesta di un parere al Giudice sulla legittimità o meno di alcune condotte che sono imputabili al sindacato.

Non è specificata nel ricorso l'utilità perseguita dalla società ricorrente: e difatti la stessa società afferma nel ricorso che l'iniziativa giudiziale è finalizzata ad un «obiettivo politico-sindacale di carattere generale» (pag. 5 del ricorso). Nel ricorso si afferma che «l'obiettivo anche di interesse generale di contrastare la degenerazione che il sistema delle relazioni industriali sta subendo nel settore della logistica per effetto del comportamento sopra descritto del Si-Cobas. Prima che altri possano essere tentati di imitarlo» (pag. 5 del ricorso).

In sostanza nella vicenda in esame sembra che il procedimento giudiziale sia stato utilizzato al fine di risolvere una problematica di carattere politico-sindacale che era ormai prossima alla degenerazione: la società ricorrente considera la sentenza del giudice uno strumento utile per riuscire a risolvere anche per il futuro alcuni rapporti con una determinata sigla sindacale nella gestione di un conflitto sindacale oramai diventato particolarmente aspro. Ma la funzione giurisdizionale non può esplicare una efficacia paradigmatica sul dover essere dei comportamenti umani né tantomeno una funzione di consulenza nei confronti delle parti.

Danno alla produzione e danno alla produttività

Una volta appurato che l'azione giudiziale per superare il doveroso vaglio di ammissibilità del Giudicante necessiti di un ancoraggio perlomeno ad una richiesta di accertamento del danno, si pone il problema di quale possa essere il danno ipotizzabile in una situazione simile.

La sentenza della Corte di appello di Milano, che in nome della ragione più liquida ha inteso non occuparsi della questione dell'interesse ad agire ritenendo preferibile trattare i profili di merito della vicenda, offre una lettura della vicenda radicalmente diversa da quella fornita dal Tribunale di primo grado.

La Corte di appello segue in prima battuta  il ragionamento della ordinanza di archiviazione del Gip del Tribunale di Milano del 17 ottobre 2023, secondo cui nelle manifestazioni denunciate non sono stati rilevati atti di violenza e/o di minaccia  posti in essere dai lavoratori iscritti al sindacato, giungendo alla conclusione che le operazioni di blocco delle merci attraverso i posizionamenti nei presso dei cancelli di accesso rappresentano espressioni lecite dell'esercizio del diritto di sciopero anche in ragione del fatto che si è trattato di blocchi transitori che hanno comportato un semplice danno alla produzione peraltro nemmeno oggetto di specificazione sotto il profilo quantitativo.

La Corte meneghina, dopo aver richiamato e condiviso l'orientamento della Suprema Corte che ancora la illiceità dello sciopero alla ipotesi della insorgenza di un danno alla produttività e non nella ipotesi di un semplice danno alla produzione, evidenzia la circostanza della assenza di allegazioni puntuali nel ricorso ex art. 414 c.p.c. sul danno in questione: la sussistenza di un danno alla produzione non comporta la illiceità dello sciopero, mentre l'assenza di alcun danno alla produttività comporta in nuce la infondatezza della domanda.

Il diritto di sciopero, quale che sia la sua forma di esercizio, infatti, trova un limite soltanto nelle norme che tutelano posizioni soggettive concorrenti su un piano paritetico, quali il diritto alla vita e all'incolumità personale, nonché la libertà dell'iniziativa economica costituzionalmente garantita, con la conseguenza che l'esercizio del diritto di sciopero deve ritenersi illecito, se risulti idoneo a pregiudicare irreparabilmente la possibilità per l'imprenditore di continuare a svolgere la propria iniziativa economica ovvero comporti la distruzione o la duratura inutilizzabilità degli impianti (Cass., ord. n. 6787 del 14 marzo 2024). Negli impianti a ciclo continuo, lo sciopero consistente nel temporaneo arresto della loro attività risulta illecito soltanto quando sia tale da pregiudicare la stessa produttività dell'azienda determinando il rischio della loro distruzione o della loro compromissione con la conseguenza che in tale caso non costituisce condotta antisindacale la sospensione dell'attività produttiva decisa dall'imprenditore (Cfr. Cass. civ., sez. lav., 4 marzo 1987, n. 2282).

Dal coordinamento del diritto di sciopero con i diritti di proprietà e di libera iniziativa economica, anch'essi di pari dignità costituzionale (artt. 42 e 43), discende l'esistenza di un limite essenziale all'esercizio del diritto di sciopero, consistente nell'esigenza di tutelare il patrimonio aziendale, salvaguardando l'integrità strutturale e funzionale degli impianti e, quindi, la stessa funzionalità organizzativa e dinamica dell'impresa, che costituisce fonte di attività produttiva a vantaggio non solo dell'imprenditore, ma dell'intera comunità sociale. (Cass. civ., sez. lav., 12 dicembre 1986, n. 7443).

Il danno che il datore di lavoro deve subire in occasione di scioperi è quello derivante dalla mancata produzione e non può riguardare gli impianti produttivi, i quali devono essere comunque tutelati, nell'interesse, oltre che del datore di lavoro, dei lavoratori e della collettività. Ne consegue che non può considerarsi condotta antisindacale quella dell'imprenditore che, in presenza dello sciopero di dipendenti, provveda a mantenere accesi, ma in regime di sottoalimentazione, i forni, per evitare il pregiudizio derivante dallo spegnimento alle parti refrattarie dei forni. (Cass. civ., sez. lav., 24 aprile 1986, n. 2899)

Il diritto di sciopero, che l'art. 40 Cost. attribuisce direttamente ai lavoratori, non incontra, stante la mancata attuazione della disciplina legislativa prevista da detta norma, limiti diversi da quelli propri della ratio storico-sociale che lo giustifica e dell'intangibilità di altri diritti o interessi costituzionalmente garantiti. Pertanto, sotto il primo profilo, non si ha sciopero se non in presenza di un'astensione dal lavoro decisa ed attuata collettivamente per la tutela di interessi collettivi, anche di natura non salariale ed anche di carattere politico generale, purché incidenti sui rapporti di lavoro; sotto il secondo profilo, ne sono vietate le forme di attuazione che assumano modalità delittuose, in quanto lesive, in particolare, dell'incolumità o della libertà delle persone, o di diritti di proprietà o della capacità produttiva delle aziende; sono, invece, privi di rilievo l'apprezzamento obiettivo che possa farsi della fondatezza, della ragionevolezza e dell'importanza delle pretese perseguite nonché la mancanza sia di proclamazione formale sia di preavviso al datore di lavoro sia di tentativi di conciliazione sia d'interventi dei sindacati, mentre il fatto che lo sciopero arrechi danno al datore di lavoro, impedendo o riducendo la produzione dell'azienda, è connaturale alla funzione di autotutela coattiva propria dello sciopero stesso (Cass. civ., sez. lav., 20 luglio 1984, n. 4260).

Non appare condivisibile l'orientamento citato anche nella sentenza del Tribunale di Milano secondo cui sarebbe tout court estraneo all'ambito di esercizio del diritto di sciopero, in quanto lesivo del diritto del datore di lavoro a svolgere l'attività di impresa, il cd. blocco delle merci, consistente nell'impedire il transito delle merci da e per l'azienda agli ingressi dello stabilimento. Secondo la sentenza della Cassazione  n. 8401/1987 «se gli scioperanti con comportamenti materiali positivi (ancorché non improntati a forme di violenza o di minaccia) ostacolano il lavoro di altri dipendenti, essi vengono con ciò essenzialmente ad incidere sulla prosecuzione dell'attività aziendale che il datore di lavoro (nei limiti di cui si è detto) ha il diritto di riorganizzare durante lo sciopero: comportamento pertanto volto "contro" il datore di lavoro ed esulante, per quanto ancora considerato, dall'ambito di legittimità dello sciopero».

Si tratta infatti di un orientamento che ragiona in termini aprioristici, mentre appare più aderente alla realtà più attuale delle relazioni sindacali l'orientamento giurisprudenziale secondo cui l'esercizio del diritto di sciopero debba ritenersi illecito se, ove non effettuato con gli opportuni accorgimenti e cautele, appare idoneo a pregiudicare irreparabilmente non la produzione, ma la produttività dell'azienda, cioè la possibilità per l'imprenditore di continuare a svolgere la sua iniziativa economica. In particolare, tale illiceità si ravvisa allorquando lo sciopero comporti la distruzione o una duratura inutilizzabilità degli impianti, con pericolo per l'impresa come organizzazione istituzionale e con la conseguente compromissione dell'interesse generale alla preservazione dei livelli di occupazione.

Tuttavia, in alcuni casi potrebbe essere alquanto difficile marcare in modo netto la differenza tra un danno alla produzione non ammissibile) ed un danno alla produttività foriero di profili risarcitori.

Appare evidente che occorra valutare caso per caso senza ipotizzare una generalizzata illiceità di determinate condotte. Sussiste una notevole differenza, infatti, tra un blocco delle merci completamente avulso da una piattaforma di rivendicazioni sindacali protratto per diversi giorni in modo continuativo ed un blocco delle merci consumato in poche ore.

Il blocco delle merci e delle persone attuato con la metodica da parte degli scioperanti della resistenza passiva per brevi periodi può rappresentare una corretta manifestazione del diritto di sciopero. Il c.d. blocco delle merci attuato per poche ore nell'ambito di una attività aziendale di fornitura e/o di scambio di prodotti non facilmente deperibili non sembra integrare i presupposti di un danno risarcibile, mentre altro discorso deve essere fatto con riferimento a quelle ipotesi di blocco dei cancelli o blocco delle merci che si protraggono per giorni interi nell'ambito di attività aziendali delicate. Sicuramente nell'ambito civilistico non appare prioritario ed esclusivo il profilo del carattere violento o minaccioso delle singole condotte dei lavoratori, ma la idoneità del comportamento complessivo a porre in crisi la libertà di iniziativa economica della impresa.

In conclusione

In definitiva si può ben affermare che una società possa convenire in giudizio una sigla sindacale al fine di ottenere l’accertamento del diritto o la condanna al risarcimento del danno derivante da determinate condotte poste in essere dai suoi rappresentanti durante una manifestazione di sciopero: non sussiste una immunità giudiziaria delle organizzazioni sindacali a proposito di manifestazioni di sciopero c.d. anomale. Appare, invece, inammissibile il ricorso volto soltanto a stigmatizzare alcune condotte dei lavoratori organizzate e gestite dalla sigla sindacale e ritenute violente o minacciose oppure lesive della libertà di svolgimento della propria iniziativa imprenditoriale, in quanto il processo è funzionale all’accertamento di diritti.

Non appare sicuramente semplice comprendere in quali casi si perfeziona il c.d. danno alla produttività che viene considerato dalla giurisprudenza della Cassazione maggiormente condivisibile l’elemento qualificante della fattispecie risarcitoria. Operare delle generalizzazioni aprioristiche non sembra l’operazione ermeneutica più corretta. Il c.d. blocco delle merci oppure il picchettaggio “ostruzionistico” rappresentano delle condotte sicuramente potenzialmente idonee a produrre danni irreversibili alla capacità produttiva della impresa: occorre, tuttavia, valutare in concreto tali condotte in relazione alla tipologia della attività di impresa ed alla persistenza temporale delle stesse.

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