La natura sostanziale del probation minorile “salva” la preclusione alla messa alla prova per i più gravi reati

06 Marzo 2025

La Corte costituzionale ha dichiarato inammissibili le questioni di legittimità relative all'art. 28, comma 5-bis, d.P.R. n. 448/1988, che preclude la messa alla prova minorile per alcuni reati gravi. La decisione si basa sul riconoscimento della natura sostanziale della preclusione, che la rende inapplicabile "retroattivamente". L'indirizzo interpretativo così inaugurato, tuttavia, non scioglie i dubbi sulla costituzionalità della norma, che con ogni probabilità tornerà all'attenzione della Consulta.

Le questioni di legittimità costituzionale

Con due ordinanze, il Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale per i minorenni di Bari ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell'art. 28, comma 5-bis, del d.P.R. n. 448/1988.

La disposizione, introdotta dal d.l. n. 123/2023 (convertito con modificazioni nella legge n. 159/2023), esclude l'applicazione della sospensione del processo con messa alla prova per alcuni reati particolarmente gravi e odiosi: l'omicidio aggravato; la violenza sessuale e la violenza sessuale di gruppo, purché aggravate; alcune tipologie di rapina aggravata.

La messa alla prova “limitless” per i minorenni

La messa alla prova minorile, regolata dagli artt. 28 e 29 d.P.R. n. 448/1988, permette la sospensione del processo per lasciare che il minore intraprenda un percorso educativo sotto la supervisione dei servizi sociali.

L'istituto è nato senza restrizioni legate alla natura dei reati “presupposto”. D'altronde, l'assenza di preclusioni è coerente con la finalità educativa dell'istituto, che non viene meno – in astratto – neppure per gli autori dei reati più gravi.

Le perplessità allora esistenti sull'accesso “illimitato” alla prova sono state superate grazie alla sentenza costituzionale n. 412 del 1990, che ha dichiarato infondata la questione di legittimità sollevata rispetto all'art. 3 Cost.: il dubbio riguardava gli artt. 28 e 30 d.P.R. n. 448/1988, nella parte in cui non escludevano sospensione del processo con messa alla prova per reati puniti con l'ergastolo.

L'indirizzo interpretativo della Corte costituzionale è stato successivamente codificato dal legislatore, il quale ha modificato il primo comma dell'art. 28 d.P.R. n. 448/1988, aggiungendo alla previsione relativa alla durata della messa alla prova un riferimento esplicito alla pena dell'ergastolo, accanto alla reclusione. Un intervento normativo animato dalla chiara volontà di confermare che la gravità del reato, di per sé, non costituisce un ostacolo all'applicazione dell'istituto.

Fino all'introduzione della norma censurata, quindi, il giudice poteva – in presenza dei presupposti dell'art. 28 d.P.R. n. 448/1988 – sospendere il processo senza limitazioni dovute al reato addebitato (in generale, v. C. Cesari, sub art. 28, in G. Giostra (a cura di), Processo penale minorile. Commentario al d.P.R. n. 448/1988, Giuffrè Francis Lefebvre, 2024, p. 515 ss.).

Le ragioni del giudice rimettente

Nei giudizi celebrati innanzi al giudice a quo si procedeva per violenza sessuale aggravata, una delle quali di gruppo, commesse prima dell'entrata in vigore del d.l. n. 123/2023. Entrambe le fattispecie criminose sono menzionate nell'elenco dell'art. 28, comma 5-bis, del d.P.R. n. 448/1988.

L'applicazione della norma “impugnata” avrebbe impedito agli imputati di accedere alla messa alla prova. Secondo il rimettente, infatti, la nuova disciplina dovrebbe essere applicata seguendo la regola del tempus regit actum, essendo espressione di una disciplina dalla natura processuale. In questo senso, quindi, sarebbe irrilevante che la richiesta di messa alla prova sia stata presentata prima dell'entrata in vigore della modifica normativa. Per queste ragioni, il giudice rimettente ha ritenuto la questione rilevante.

Nel merito, il giudice rimettente sosteneva che escludere la possibilità di prova per determinati reati violerebbe l'art. 31, comma 2, Cost. L'esclusione comprometterebbe, in particolare, la tensione rieducativa del sistema minorile. Inoltre, priverebbe l'ordinamento di uno strumento in grado di assicurare un intervento penale rapido e “individualizzato”, in quanto «il processo minorile dovrebbe sempre basarsi sulle finalità, oltre che di recupero del minore, di rapida fuoriuscita del medesimo dal circuito penale».

La posizione dell'Avvocatura dello Stato

L'Avvocatura generale dello Stato ha eccepito l'inammissibilità delle questioni, ritenendo che al giudice rimettente sia in concreto impedita l'applicazione della norma censurata. Secondo l'Avvocatura, infatti, la messa alla prova ha una prevalente natura sostanziale, il che determina l'applicazione del principio di irretroattività della norma penale sfavorevole. Di conseguenza, la modifica normativa non potrebbe applicarsi ai fatti commessi prima della sua entrata in vigore (15 novembre 2023). La richiesta di messa alla prova avanzata prima di tale data, secondo l'Avvocatura, andrebbe valutata secondo la disciplina previgente, che non prevedeva alcuna preclusione per i reati contestati. Inoltre, anche ammettendo la natura processuale della norma censurata, il momento rilevante da valutare per la sua applicabilità non sarebbe l'ordinanza ammissiva del giudice, ma la data di presentazione della richiesta, che nei giudizi a quo era avvenuta comunque prima dell'entrata in vigore del d.l. n. 123/2023.

La decisione

La Corte costituzionale ha ritenuto fondata la principale eccezione di inammissibilità sollevata dall'Avvocatura dello Stato, affermando la natura sostanziale della messa alla prova. Secondo la Corte, la misura, pur avendo caratteri formalmente processuali, ha effetti sostanziali in quanto volta «non soltanto a scongiurare l'applicazione della pena, ma anche, alle condizioni [legali], a escludere lo stesso accertamento del reato, essa non può che essere ascritta al novero delle norme di diritto penale sostanziale» (§ 4.3. del Considerato in diritto).

Tale approdo rappresenta il portato diretto del fondamentale principio dell'irretroattività di norme penali sfavorevoli, sancito dall'art. 25, comma 2, Cost., nonché dall'art. 7 della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo. In ossequio a tali fonti, il trattamento “sanzionatorio” dell'imputato non può essere deteriore rispetto a quello vigente al momento della commissione del reato.

D'altronde, la giurisprudenza costituzionale ha di recente riconosciuto che una norma «topograficamente afferente alla sfera processuale» non è per ciò solo sottratta alle garanzie dell'art. 25, comma 2, Cost.: ciò che conta è la sostanza della disciplina e il suo impatto sulla posizione dell'imputato (v. la sentenza n. 32 del 2020, citata nella motivazione, con cui la Corte «ha inteso dare avvio a una “complessiva rimeditazione” della materia, affermando in linea generale che, “di regola, le pene detentive devono essere eseguite in base alla legge in vigore al momento della loro esecuzione, salvo però che tale legge comporti, rispetto al quadro normativo vigente al momento del fatto, una trasformazione della natura della pena e della sua incidenza sulla libertà personale”», § 4.3. del Considerato in diritto).  

Inoltre, un elemento centrale nella decisione della Corte è rappresentato dalla giurisprudenza della Corte EDU, secondo cui anche norme dalla “veste” processuale possono rientrare nell'ambito delle garanzie del divieto di retroattività se incidono in modo significativo sul regime sanzionatorio. A partire dalle sentenze della Grande Camera della Corte EDU del 17 settembre 2009 nel caso Scoppola contro Italia e del 21 ottobre 2013 nel caso Del Rio Prada contro Spagna, si è consolidata un'interpretazione dell'art. 7 CEDU secondo cui il principio di irretroattività in materia penale non si limita alle sole norme sostanziali, ma si estende anche a quelle processuali che, per la loro stretta connessione con la natura e la misura della pena concretamente applicabile, assumono un carattere sostanzialmente afflittivo.

Tale approccio esclude che il principio di irretroattività riguardi esclusivamente le disposizioni relative all'applicazione o all'esecuzione della pena, ampliandone invece la portata anche a norme processuali che incidano in modo determinante sul trattamento sanzionatorio. È il caso anche della «preclusione all'accesso alla messa alla prova del minorenne», che comporta «una radicale alterazione peggiorativa del trattamento riservato all'imputato di cui il giudice competente ritenga sussistente la responsabilità, perché esclude la possibilità di garantire la fuoriuscita del minore dal circuito processuale e di addivenire, in caso di esito positivo della messa alla prova, alla declaratoria dell'estinzione del reato e alla mancata irrogazione della pena detentiva» (§ 4.4. del Considerato in diritto).

Per queste ragioni, le questioni di legittimità costituzionale sono state dichiarate inammissibili per difetto di rilevanza, giacché la norma censurata non avrebbe dovuto trovare applicazione nei giudizi in corso.

In definitiva, la sentenza afferma un principio fondamentale per la giustizia penale: una norma che incide negativamente sul trattamento sanzionatorio dell'imputato non può essere applicata retroattivamente, anche se formalmente qualificata come processuale.

Osservazioni

L'approdo raggiunto dalla Corte rappresenta un decisivo precedente oltre che una inversione di tendenza rispetto al passato. Invero, la natura del probation minorile – così come del suo omologo per adulti – è sempre stata discussa (sul punto, per la natura prevalentemente processuale v. A. Ghiara, La “messa alla prova” nella legge processuale minorile, in Giust. pen., 1991, III, p. 92; M. Colamussi, La messa alla prova, Cedam, 2010, p. 33; M.G. Coppetta, La sospensione del processo con messa alla prova, in E. Palermo Fabris - A. Presutti (2011), Trattato di diritto di famiglia, Diritto e procedura penale minorile, Giuffrè, 2011, p. 608; C. Cottatellucci, sub art. 28, in G. Lattanzi-E. Lupo (a cura di), Codice di procedura penale. Rassegna di giurisprudenza e dottrina, vol. VI, Giuffrè, 2021, p. 442; L. Camaldo, Condivisibili dubbi di legittimità costituzionale della disposizione introdotta dal decreto Caivano che prevede alcuni reati ostativi alla concessione della messa alla prova minorile, in Sist. pen., 30 maggio 2024; per la valorizzazione della componente sostanziale del probation minorile v. M. Bouchard, Processo penale minorile, in Digesto discipline penalistiche, vol. X, 1995, p. 152; P. Giannino, Il processo penale minorile, Cedam, 1997, p. 233; in relazione all'istituto per “adulti” v. R. Bartoli, Le recenti questioni applicative in tema di messa alla prova dell'adulto, in Giur. it., Gli speciali, 2015, p. 8; A. Marandola, La messa alla prova dell'imputato adulto: ombre e luci di un nuovo rito speciale per una diversa politica criminale, in Dir. pen. proc., 2014, p. 684; N. Pascucci, Sospensione del procedimento con messa alla prova e assenza di una disciplina transitoria: alle omissioni del legislatore si aggiunge la scure dei giudici di legittimità, in Cass. pen., 2015, p. 1146; Viganò, Retroattività della legge penale più favorevole, in Dir. pen. cont., 20 dicembre 2013; nonché gli autori citati qui di seguito, a commento della sentenza costituzionale n. 240 del 2015).

In passato, nel giudicare l'infondatezza delle questioni sollevate per l'impossibilità di ricorrere alla messa alla prova per adulti nei processi in cui si era aperto il dibattimento prima dell'entrata in vigore della legge 28 aprile 2014, n. 67, la Corte costituzionale ha ritenuto che «l'art. 464-bis c.p.p., nella parte impugnata, riguarda esclusivamente il processo ed è espressione del principio “tempus regit actum”» (Corte cost., 26 novembre 2015, n. 240, su cui v. O. Mazza, in Giur. cost., 2015, p. 2196; F. Centorame, Applicazione retroattiva delle norme sulla messa alla prova: “pollice verso” della consulta, in Cass. pen., 2016, p. 3236; J. Della Torre, La consulta nega la retroattività della messa alla prova: una lettura premiale di un rito (prevalentemente) specialpreventivo, in Cass. pen., 2016, p. 1488). In quell'occasione, i giudici di Palazzo della Consulta hanno richiamato un precedente in cui si rimarcava che «il principio di retroattività della lex mitior riconosciuto dalla Corte di Strasburgo riguardi esclusivamente la fattispecie incriminatrice e la pena, mentre sono estranee all'ambito di operatività di tale principio, così delineato, le ipotesi in cui non si verifica un mutamento, favorevole al reo, nella valutazione sociale del fatto, che porti a ritenerlo penalmente lecito o comunque di minore gravità» (C. cost., 22 luglio 2011, n. 236).

In questi termini, quindi, la decisione in commento inverte la rotta della giurisprudenza costituzionale, sottolineando essa stessa che – rispetto al precedente del 2015 – la norma censurata introduce una preclusione assoluta, con effetto retroattivo, impedendo all'imputato di accedere alla messa alla prova. In questo senso, «per il fatto di precludere, per taluni reati, la possibilità di un esito processuale alternativo all'eventuale riconoscimento di responsabilità e alla conseguente irrogazione della pena detentiva per il minore, detta disposizione incide direttamente sulla disciplina sostanziale di quelle fattispecie di reato, con la conseguenza che la stessa non può essere assoggettata al principio tempus regit actum, ma deve essere ricondotta nell'ambito di operatività dell'art. 25, secondo comma, Cost.» (§ 4.1 del Considerato in diritto).

L'inammissibilità della questione, tuttavia, non scioglie i dubbi di incostituzionalità che si addensano intorno all'art. 28, comma 5-bis, del d.P.R. n. 448/1988. Ben presto, infatti, la questione potrebbe essere riproposta in relazione a reati commessi dopo l'entrata in vigore della disposizione. A quel punto, la Corte costituzionale dovrà confrontarsi col merito.

D'altronde, il comma 5-bis, del d.P.R. n. 448/1988 rappresenta una evidente deviazione non solo rispetto alla finalità originaria dell'istituto, ma anche in relazione ai principi del processo minorile e alla logica stessa che ha guidato la costruzione della normativa dedicata ai minori (già C. Cesari, sub art. 28, cit., p. 530, ha evidenziato possibili profili di incostituzionalità).

La giurisprudenza costituzionale in materia di processo minorile ha sempre escluso automatismi e preclusioni assolute (per una breve ricognizione, si rinvia a A. Zampini, Il nuovo elenco di reati “ostativi” alla messa alla prova minorile al vaglio della Corte costituzionale, in IUS Penale, 9 agosto 2024). Nel caso della messa alla prova, l'introduzione di un elenco di reati “ostativi” implica una sorta di inaccettabile prognosi di non recuperabilità dei giovani imputati.

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