Ai fini ACE la rinuncia ai crediti da parte dei soci è rilevante per la società partecipata debitrice
07 Aprile 2025
Massima In particolare, una società, nella versione precedente della normativa, aveva acquisito una partecipazione dalla propria controllante estera, la quale successivamente aveva rinunciato al proprio credito verso la controllata, sorto a seguito di tale trasferimento. Considerato che, secondo l’Agenzia delle Entrate, tale credito sarebbe di natura commerciale, in quanto non vi è stata movimentazione di denaro tra le due società, l’agevolazione non spetta.I giudici romani, dopo avere accertato le reali motivazioni dell’operazione e dando atto che comunque l’effetto sostanziale della stessa è stato quello di patrimonializzare la società, hanno accolto il ricorso della società. Il caso È necessario premettere che l'ACE (aiuto alla crescita economica) è un incentivo alla capitalizzazione delle imprese, finalizzato a riequilibrare il trattamento fiscale tra le imprese che si finanziano con debito e quelle che si finanziano con capitale proprio. La normativa è disciplinata dall'art. 1 del d.l. n. 201/2011 e dal d.m. 3 agosto 2017 (che ha sostituito il d.m. 14 marzo 2012), e prevede la detassazione di una parte del reddito proporzionale agli incrementi del patrimonio netto. L'articolo 5, comma 2, del Decreto ACE del 14 marzo 2012, tra l'altro riproposto anche dal d.m. del 3 agosto 2017, dispone che rileva come elemento positivo della variazione del capitale proprio, tra l'altro, «(…) la rinuncia incondizionata dei soci al diritto alla restituzione dei crediti verso la società (…)». In altri termini, l'ACE ha lo scopo di favorire le società che sono patrimonializzate attraverso, sia l'inserimento di nuova liquidità (conferimenti di denaro, penalizzando la loro restituzione), sia il trattenimento di risorse al loro interno (accantonamento di utili, penalizzato la loro distribuzione). Si ricorda che l'agevolazione è stata abrogata dall'art. 5 del d.lgs. 30 dicembre 2023, n. 216 con effetto dal periodo d'imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2023 (il 2024, per i soggetti "solari"); la norma fa salva la possibilità di utilizzare le eccedenze rilevate al termine dell'esercizio in corso al 31 dicembre 2023, senza limitazioni di carattere temporale. La questione Come si evince chiaramente dal dettato normativo, concorrono a formare la base imponibile dell'agevolazione anche le rinunce ai crediti da parte dei soci, che secondo il principio contabile OIC 28, vanno ad incrementare il patrimonio della società partecipata. Infatti, il par. 36 di tale OIC prescrive che: «La rinuncia del credito da parte del socio ¾ se dalle evidenze disponibili è desumibile che la natura della transazione è il rafforzamento patrimoniale della società ¾ è trattata contabilmente alla stregua di un apporto di patrimonio a prescindere dalla natura originaria del credito». Pertanto, la rinuncia del socio al proprio credito trasforma il valore contabile del debito della società in una posta di patrimonio netto, salvo il caso in cui la rinuncia abbia origine per tutt'altra ragione rispetto al rafforzamento patrimoniale della partecipata, come, ad esempio, ove questa avvenga nell'ambito di una ordinaria negoziazione conseguente ad una lite commerciale fra le parti; fattispecie, tuttavia, piuttosto inusuale nell'ambito dei rapporti infragruppo. Come si evince dal principio contabile appena citato, ogni tipologia di credito, che sia finanziario o commerciale, porta al medesimo risultato: la capitalizzazione della società partecipata. La soluzione giuridica L'Agenzia delle Entrate, al contrario, asserisce che solo i crediti finanziari possono essere oggetto di una rinuncia valevole ai fini ACE (Cfr. paragrafo 3.12. della Circolare del 3 giugno 2015, n. 2.). Tale interpretazione, però, non sarebbe coerente con l'intento del legislatore, dal momento che anche la remissione dei crediti commerciali comporta, in ogni caso, una patrimonializzazione della società, evitando alla società debitrice di trasferire liquidità al socio creditore. Del resto, l'agevolazione viene concessa alle società che trattengono risorse, incrementando, così, il loro patrimonio. E questo risultato può essere raggiunto anche attraverso la mancata uscita dei denari necessari per pagare un credito commerciale, il cui importo, attraverso la remissione del socio creditore, incrementa il patrimonio della società debitrice. Tale impostazione è mantenuta anche per altri istituti contenuti nella normativa tributaria valevole ai fini delle imposte dirette, che cercano di favorire la capitalizzazione delle società. Si pensi, ad esempio, a quanto previsto dall'art. 88, comma 4-bis, del TUIR, il quale disciplina la tassazione delle sopravvenienze attive generate da una rinuncia del credito da parte del socio, prevedendo generalmente la non tassazione di tali componenti positivi. Anche in questo caso il regime di favore vinee concesso in quanto viene patrimonializzata la società partecipata. In tale disposizione, come nella normativa ACE, non viene effettuata nessuna distinzione tra credito commerciale e quello finanziario, e non risulta che la rinuncia di un credito commerciale possa comportare il venire meno del suddetto regime. Con riferimento a tale normativa, autorevole dottrina (Cfr. M. Leo, «Le imposte sui redditi», edizione 2020, pagine 1615 e ss.) ha ricordato, che: «Per effetto delle modifiche apportate dal decreto legge 30 dicembre 1993, n. 557 all'art. 55, comma 4 del vecchio T.U.I.R. [ora art. 88, comma 4 del T.U.I.R.] la disciplina della detassazione delle rinunce ai soci si applica a tutte le tipologie di crediti di natura sia finanziaria che commerciale. Si tratta di un'impostazione coerente con quella prevista dai principi contabili; infatti, il principio OIC 28 precisa che la rinuncia del credito da parte del socio ¾ che si concretizza in un atto formale effettuato esplicitamente nella prospettiva del rafforzamento patrimoniale della società ¾ è trattata contabilmente alla stregua di un apporto di patrimonio a prescindere dalla natura originaria del credito». Pertanto, tale interpretazione contabile dovrebbe valere anche ai fini ACE, malgrado l'Agenzia delle Entrate non sia concorde. La giurisprudenza non concorda con la tesi erariale. Infatti la Commissione Tributaria Regionale del Lazio (con sentenza del 18 settembre 2019, n. 5103/2019), in relazione ad una contestazione analoga a quella di cui si è occupata la Corte di Giustizia di Venezia in commento, ha statuito che: «includere tra i conferimenti in danaro le rinunzie dei soci a crediti pecuniari, anche non originati da finanziamenti alla società ai sensi dell'art. 2467 c.c., risulta del tutto coerente con la ratio della norma agevolativa, che è quello di favorire l'autofinanziamento delle società in crisi, mediante ricorso a risorse proprie, conferite a capitale per rafforzare la struttura patrimoniale della società stessa. Rispetto a tale finalità, dichiarata dallo stesso legislatore, la distinzione operata con propria interpretazione dall'Agenzia delle entrate, tra crediti originati o meno da finanziamento alla società, oltre a porre un limite non previsto dalla legge, risulta invece restrittiva dell'ambito di operatività della norma, non conserva alcun senso nel nuovo contesto contabile, né può trovare la sua giustificazione nella tutela della sfera dei diritti dei terzi creditori della società, atteso che, come ha rilevato la Corte di cassazione, la trasformazione dei crediti commerciali in capitale a rischio non pregiudica i diritti di terzi (Cfr. la pronuncia della Corte di Cassazione 3946/2018 che ammette la compensazione di crediti anche commerciali dei soci con debiti da aumento di capitale della società) ed anzi amplia la garanzia generica dei creditori. Ne consegue che l'interpretazione data dall'ufficio negli atti impugnati, che ha portato ad escludere dal computo dell'incremento di capitale, ai fini agevolativi, l'importo dei crediti rinunziati per i quali non ha riscontrato prova che essi originariamente provenissero da causa di finanziamento alla società, restringe l'ambito della normativa agevolativa, sia primaria che attuativa, che non contiene questa limitazione, e si pone in contrasto con la ratio della stessa». Del resto, come sostenuto da parte della giurisprudenza, anche i finanziamenti indiretti dei soci, intesi come debiti che non comportano una diretta monetizzazione dell'avente causa, devono essere agevolati ai fini fiscali (Cfr. sentenza della Commissione Provinciale Tributaria di Napoli dell'11 settembre 2018, n. 9818). Anche la Commissione Tributaria Provinciale di Milano (Con sentenza del 29 novembre 2019, n. 5116/16/19.) sembra confermare il principio secondo il quale è rilevante la patrimonializzazione della società, anche se non vi è stato un movimento di denaro, purché, ovviamente, non si rientri nelle fattispecie espressamente escluse, quali i conferimenti in natura che non rilevano ai fini ACE. In particolare, i giudici di Milano si sono è occupati di una causa relativa ad una contestazione sull'abuso di diritto in relazione alla violazione della normativa sull'ACE. Infatti, è stato contestato ad una società di avere rimborsato un finanziamento erogato da società controllante della propria controllante per beneficiarie dell'agevolazione ACE. Il rilievo si baserebbe sul fatto che, attraverso un'operazione circolare, la società ricorrente sarebbe stata capitalizzata con l'utilizzo dei medesimi denari che la stessa avrebbe fornito alle proprie controllanti a seguito del rimborso di cui sopra. Da quanto si legge nella motivazione, infatti, la società aveva in essere un debito nei confronti della propria “nonna” (la controllante della propria controllante), la quale, dopo avere ricevuto i denari, gli avrebbe riversati alla propria controllata, che, a sua volta, gli avrebbe versati in conto capitale alla ricorrente. Pertanto, secondo i verificatori, l'operazione sarebbe stata portata a termine per permettere alla società accertata di usufruire indebitamente dall'agevolazione ACE. La CTP, accogliendo il ricorso, ha sancito che: «La patrimonializzazione non necessariamente si traduce in maggior disponibilità monetaria. Di conseguenza, non possono dirsi indebiti i vantaggi fiscali conseguiti dai contribuenti che, rispondendo alla finalità propria della disciplina Ace, diano corso ad operazioni dirette a realizzare un effettivo incremento patrimoniale. Addirittura, non potrebbero essere considerati indebiti i vantaggi fiscali conseguiti dai contribuenti che abbiano effettivamente incrementato il proprio patrimonio al solo fine di beneficiare dell'agevolazione Ace». Dello stesso avviso, è la prevalente dottrina (Cfr. Circolare Assonime n. 17/2012), secondo la quale l'interpretazione restrittiva dell'Agenzia delle Entrate non regge in quanto «l'equivalenza sostanziale fra compensazioni ed apporti, a ben vedere, sussiste per tutti i crediti vantati dai soci, quale che sia la loro origine, e, cioè, anche qualora si tratti di crediti commerciali o di crediti diversi perché in tutti i casi esse possono essere sostituite dal pagamento e dal riversamento del medesimo importo alla società partecipata». Nulla vieta infatti al socio di cedere un bene alla società partecipata, incassare il prezzo (che la partecipata potrebbe pagare anche con risorse prese temporaneamente a prestito da una banca), e infine riversare il denaro ricevuto alla partecipata (che chiuderebbe il debito acceso con la banca) incrementandone il patrimonio netto. In tal caso vi sarebbe un conferimento in denaro in senso stretto, e nulla potrebbe essere eccepito dall'Amministrazione finanziaria. È evidente che se, come ha scelto di fare il Legislatore, si attribuisce rilevanza alle rinunce incondizionate ai crediti da parte dei soci, non ha senso operare dei distinguo circa l'origine dei crediti, perché si corre il rischio di creare delle situazioni di disuguaglianza di trattamento fiscale a parità di risultato ovvero di patrimonializzazione della società, del tutto ingiustificate sotto il profilo sistematico. Come sancito dalla Corte di Giustizia Tributaria di primo grado di Parma (sentenza n. 241 del 10 ottobre 2022), la circolare del 2015 ¾ sulla quale si basa l'interpretazione della disciplina agevolativa fornita dall'Agenzia delle Entrate ¾ può ritenersi ormai superata, per effetto della modifica del principio contabile dell'OIC 28, nel quale si è precisato che la rinuncia di un credito da parte del socio che si concretizza in un atto formale effettuato esplicitamente nella prospettiva del rafforzamento patrimoniale della società va trattata contabilmente alla stregua di un apporto di patrimonio; in tale ipotesi la rinuncia dei soci al diritto alla restituzione trasforma il debito della società in una posta di patrimonio netto avente natura di riserva di capitale. Condividendo tali principi, la Corte di Giustizia tributaria di primo grado di Venezia, con la sentenza del 7 aprile 2023, n. 163/2023, ha respinto la tesi erariale, sostenendo che la lettura restrittiva proposta dall'Ufficio è fondata soltanto su varie circolari che non sono fonti del diritto e non sono idonee a restringere la portata applicativa di una legge (cfr. anche Corte di Cassazione con la sentenza 23 gennaio 2024, n. 2288). Osservazioni In primo luogo, i giudici romani hanno sancito che l'impostazione dell'Agenzia delle Entrate, nel considerare rilevanti solo i crediti di natura finanziaria, è infondata perché la stessa pretende di integrare il contenuto della disciplina normativa con un passaggio della relazione illustrativa accompagnatoria al d.m. 14 marzo 2012, dove si ricaverebbe che il beneficio ACE sarebbe riservato ai soli «crediti aventi natura finanziaria cioè derivanti da precedenti finanziamenti in denaro», come se relazione e decreto ministeriale fossero un unicum. Ma così non è. Sicché, di fatto, l'Agenzia delle Entrate con la propria contestazione ha preteso di sostituirsi alle intenzioni del Legislatore e del Ministro cui era stata demandata dalla legge la disciplina attuativa, il quale, se avesse inteso operare dei distinguo sulla natura dei crediti oggetto di rinuncia, lo avrebbe certamente fatto. Inoltre, ciò che osta alla impostazione dell'Agenzia delle Entrate è che anche successivamente il Legislatore, quando nel 2017 ha provveduto a revisionare le disposizioni attuative in materia di aiuto alla crescita economica, non ha ritenuto di precisare espressamente che i crediti oggetto di rinuncia da parte dei soci, per rilevare ai fini della disciplina ACE, debbono derivare esclusivamente da precedenti finanziamenti o prestiti in denaro. Ciò che si vuole sostenere in questa sede è che l'interpretazione dell'Agenzia delle Entrate postula una (iniziale) dimenticanza o trascuratezza del Legislatore: ma se così fosse il Legislatore vi avrebbe posto rimedio alla prima occasione utile; eppure, ciò non si è verificato e tale circostanza sembra deporre per la rilevanza ai fini ACE delle rinunce di qualsivoglia tipo di credito da parte dei soci nei confronti della società. E ciò anzitutto sul piano dell'interpretazione letterale della norma, che, come detto, non opera distinzioni quanto a natura e origine del credito rinunciato. Deve pertanto ritenersi l'equivalenza, ai fini del beneficio ACE, tra compensazioni di crediti e conferimenti in danaro da parte dei soci in quanto entrambi diretti a rafforzare la patrimonializzazione delle società che costituisce lo scopo della normativa in esame (cfr. sentenza n. 163/2023 della Corte di Giustizia Tributaria di I grado di Venezia di cui sopra). Ne è riprova proprio la fattispecie oggetto di giudizio in cui, a seguito della rinunzia al credito da parte della propria controllante, la società ricorrente ha ottenuto un aumento del suo patrimonio netto. Dunque, deve ritenersi che non possa farsi differenza tra conferimento in danaro dei soci e rinunzia ai crediti da parte di questi ultimi (cfr. sentenza del 18 settembre 2019, n. 5103 della Commissione Tributaria Regionale del Lazio). |