La Corte di cassazione sull’accertamento dei “futili motivi”

27 Marzo 2025

La sentenza della prima sezione penale della Corte di cassazione è di particolare interesse nella parte in cui analizza la nozione di “futili motivi” e spiega il percorso da seguire per accertarne la sussistenza.

Massima

Ai fini dell'accertamento della “futilità del motivo” è necessario effettuare una scansione bifasica che impone di svolgere un primo giudizio sulla sproporzione tra il reato e la ragione soggettiva che l'ha determinato e – successivamente – una seconda disamina finalizzata a dirimere se questo disequilibrio abbia o meno connotato in maniera significativa l'atteggiamento dell'agente rispetto al delitto, così giustificando una valutazione di maggiore riprovevolezza nei suoi confronti.

Il caso

All'imputato è stata contestata la commissione di un omicidio ai danni del compagno della figlia, aggravato dalla premeditazione e dai futili motivi.

Secondo la ricostruzione dei Giudici di merito, la vittima era stata attinta da quattro colpi di arma da fuoco mentre usciva dalla villa della sorella.

In data 21 novembre 2023 la Corte di assise ha condannato l'imputato per omicidio aggravato, nonché per i connessi reati di detenzione e porto illegale del fucile utilizzato.

La Corte di assise di appello ha confermato la pronuncia di primo grado.

Avverso tale decisione è stato proposto ricorso per cassazione articolato in quattro motivi.

La questione

Con il secondo e con il terzo motivo il ricorrente ha contestato l'affermata sussistenza delle circostanze aggravanti dei futili motivi e della premeditazione.

Le soluzioni giuridiche

La Corte di cassazione ha accolto detti motivi, disponendo l'annullamento, con rinvio al giudice di appello, della sentenza impugnata.

Sono particolarmente apprezzabili le affermazioni della Suprema Corte sull'aggravante di cui all'art. 61, comma 1, n. 1) c.p. Nella specieil “motivo futile” era stato rinvenuto dai giudici del merito nella volontà dell'imputato di interrompere la relazione sentimentale della figlia con il compagno di lei dopo che i vari inviti a concludere il loro rapporto non avevano raggiunto lo scopo.

L'imputato si era difeso affermando che l'azione omicidiaria non era stata ispirata da un futile motivo perché mossa dalla preoccupazione che una delusione amorosa si sarebbe potuta rivelare fatale per la propria figlia, fragile nella psiche e che già in passato aveva tentato il suicidio.

La sentenza è di particolare interesse nella parte in cui analizza la nozione di “futili motivi” e spiega il percorso da seguire per accertarne la sussistenza.

La Suprema Corte chiarisce, anzi tutto, la nozione di “motivo”, distinguendola da quella di “scopo”. Il “motivo” è la causa psichica dell'agire umano ovvero si può individuare nell'impulso che persuade il soggetto a porre in essere una data condotta (attiva od omissiva).

Questo status interiore, eziologicamente collegato al successivo comportamento illecito, viene considerato dal nostro ordinamento giuridico (i “motivi a delinquere” di cui all'art. 133, comma 2, n. 1, c.p.)  quale indice rilevante ai fini del giudizio sulla capacità a delinquere dell'imputato (momento commisurativo del trattamento sanzionatorio).

In altri casi, come in quello in esame, il “motivo” assume autonoma rilevanza quale elemento circostanziale del reato. Si tratta di una circostanza aggravante soggettiva, poiché “inerente alla persona del colpevole”, come previsto ai sensi dell'art. 70, comma 1, n. 2) c.p. La ratio della qualificazione del “motivo” come circostanza del reato è connessa ad un più severo giudizio di rimproverabilità personale dell'agente o alla più elevata attitudine criminale dimostrata dallo stesso.

Il motivo, così individuato dalla S.C., non deve essere confuso con lo “scopo”, che corrisponde alla finalità che l'agente persegue con il proprio comportamento.

La Corte passa, poi, ad analizzare la nozione di “futilità” del motivo, spiegando che, secondo la comune opinione consolidata in dottrina e giurisprudenza – essa si evince dal bilanciamento tra causa psichica e reato commesso, in particolare nella sproporzione che sussiste tra il “motivo” interiore che determina il soggetto agente a realizzare la condotta illecita e il reato commesso.

Ciò non è comunque esauriente al fine di individuare una nozione completa della “futilità”, poiché la sproporzione in parola assume sostanza solo laddove si individui un parametro determinato di valutazione che consenta di attribuire un significato compiuto a questo disequilibrio.

La Corte di cassazione, per individuare quale sia il criterio di comparazione idoneo, prende in esame due possibili soluzioni, escludendole e così delimitando in negativo il perimetro della nozione di “motivi futili”.

Da un lato si rifiuta l'ipotesi di utilizzare la prospettiva individuale dell'agente per stabilire il carattere “futile” dei motivi. In questo caso, si concluderebbe sempre per la non futilità, giacché – dal punto di vista dell'agente – il motivo sarebbe tendenzialmente sempre giustificato e mai pretestuoso.

Dall'altro non viene ritenuta condivisibile la soluzione che identifica come “futile” il c.d. motivo criminoso in quanto tale, sia quando esso (il motivo) sia costituito dal conseguimento di un vantaggio illecito (es. omicidio per commettere una rapina), sia nel caso in cui il motivo sia riconducibile ad un codice di condotta criminale (es. la reazione ad uno “sgarro” nel sistema di valori delinquenziali). In queste ipotesi, infatti, si affermerebbe sempre la futilità del motivo «attesa l'impossibilità di configurare un qualunque "valore ponderale" ad una causa psichica comunque disapprovata dall'ordinamento, tale da potere essere messo sulla bilancia per compararlo con un reato, specie se efferato».

Nel contesto così circoscritto, si ipotizza una soluzione ermeneutica che individua nel “comune sentire” il parametro di comparazione per valutare la sproporzione tra reato e motivo che lo ha determinato.

E tale è l'impostazione seguita dai giudici del merito per definire la “futilità dei motivi”: il motivo è “futile” quando è riconducibile ad una causale talmente sproporzionata in difetto rispetto alla gravità del reato, da apparire, secondo il “comune sentire”, assolutamente insufficiente a provocare l'azione criminosa. Dove l'accezione di “comune sentire” deve essere individuata nell'opinione verosimilmente prevalente di una determinata collettività in un preciso momento storico e – nel caso di specie – nella condivisa percezione della sproporzione tra il reato e il motivo che ha determinato la condotta delittuosa.

La sentenza in esame contestatale parametro di comparazione, ritenendolo fonte di incertezza.

Incertezza alla quale si potrebbe porre rimedio soltanto facendo ricorso ad un termine di raffronto di tipo oggettivo, costituito dalle norme costituzionali (in luogo del “comune sentire”) e dalla gerarchia che esse definiscono.

Ma anche tale soluzione non sarebbe soddisfacente, poiché generativa di un cortocircuito logico che porterebbe ad affermare la “futilità” del motivo ogni volta che venga commesso un reato grave contro la persona. Nell'ipotesi di condotta omicidiaria sarebbe, invero, sempre ravvisabile una sproporzione tra l'interesse tutelato dalla norma incriminatrice e la ragione soggettiva che ha indotto il soggetto agente a porre in essere la condotta offensiva.

La Corte di cassazione, nella sentenza in esame, conformandosi in particolare a Cass. pen. sez. 1, n. 45290/2024, afferma pertanto il principio per cui «l'accertamento della futilità del motivo si deve realizzare secondo una scansione bifasica una volta riscontrata la sproporzione tra il reato e la ragione soggettiva che l'ha determinato, deve successivamente esplicarsi un ulteriore giudizio, volto a stabilire se essa abbia o meno connotato, in maniera particolarmente significativa e pregnante l'atteggiamento dell'agente rispetto al reato, giustificando un giudizio di maggiore riprovevolezza e di più accentuata pericolosità nei suoi confronti».

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