Il percorso di rieducazione del minorenne è costituzionalmente legittimo solo se “guidato” dal G.u.p.

01 Aprile 2025

La Corte costituzionale, con sentenza n. 23/2025, ha dichiarato parzialmente incostituzionale l'art. 27-bis d.P.R. n. 448/1988, stabilendo che il percorso di rieducazione è legittimo solo se affidato al giudice dell'udienza preliminare (G.u.p.), dotato delle competenze interdisciplinari necessarie. La Corte ha per il resto “salvato” l'istituto, fornendone un'interpretazione conforme ai princìpi educativi del processo minorile.

Premessa

La sentenza n. 23 del 2025 rappresenta il primo, atteso contatto tra la Corte costituzionale e il nuovo percorso di rieducazione del minorenne, disciplinato dall'art. 27-bis d.P.R. n. 448/1988.

L'istituto, introdotto dal d.l. 15 settembre 2023, n. 123 (c.d. decreto Caivano), mira a garantire una maggiore celerità nella gestione dei carichi pendenti minorili attraverso una procedura che consente di addivenire alla declaratoria di estinzione di reati meno gravi a fronte del superamento di una “prova” già nella fase delle indagini preliminari.

A dubitare che tale finalità – per come tradotta in legge – sia in linea con i princìpi fondanti del sistema minorile è il giudice per le indagini preliminari del Tribunale per i minorenni di Trento, che ha sollevato una questione di legittimità costituzionale “radicale”, ritenendo che il nuovo meccanismo di diversione sia complessivamente incompatibile con i principi fondanti del rito penale per i minorenni.

Tratti essenziali dell'istituto

Rispetto a quello già noti alla giustizia minorile, il percorso di rieducazione di cui all'art. 27-bis d.P.R. n. 448/1988 è un meccanismo che consente di fruire di una forma di probation anticipata e semplificata, già durante la fase delle indagini preliminari.

Rispetto alla “sorella maggiore” rappresentata dalla messa alla prova, il percorso di rieducazione è caratterizzato da alcune evidenti peculiarità.

Innanzitutto, esso è praticabile Solo a fronte di fenomeni di microcriminalità, considerato che la disposizione lo ritiene applicabile a «reati per i quali la legge stabilisce una pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni di reclusione ovvero una pena pecuniaria, sola o congiunta alla predetta pena detentiva» e solo «se i fatti non rivestono particolare gravità»; mentre alla messa alla prova – anche dopo l'introduzione delle preclusioni per i reati di cui all'art. 28, comma 5-bis, c.p.p. – è possibile ricorrere per fatti assai gravi.

In secondo luogo, la sede deputata per l'instaurazione del “rito” è quella delle indagini preliminari, così consentendo una definizione straordinariamente veloce del procedimento. Dal contesto procedimentale, il legislatore ha fatto discendere la competenza del giudice per le indagini preliminari a governare il percorso. È bene notare che il giudice per le indagini preliminari del rito minorile – esattamente come l'omologo per adulti – è togato e monocratico, il che implica l'assenza della componente onoraria che fisiologicamente apporta competenze psicologiche e pedagogiche quando – in udienza preliminare e in dibattimento – vanno prese decisioni che determinano la sorte processuale del giovane imputato.

La necessità di efficientare la definizione di procedimenti per reati e condotte di scarsa gravità ha, poi, indotto il legislatore a scandire con ritmi serrati un iter caratterizzato da esplicita consensualità: a fronte del ricorrere dei presupposti legali, il pubblico ministero può invitare il minorenne a presentare entro i successivi sessanta giorni un progetto rieducativo che, se ritenuto congruo prima e fruttuosamente portato a termine poi, conduce all'estinzione del reato.

Le ragioni del giudice rimettente

Il giudice per le indagini preliminari del Tribunale per i minorenni di Trento ha espresso dubbi di legittimità costituzionale dell'art. 27-bis d.P.R. n. 448 del 1988 in relazione artt. 3 e 31, comma 2, Cost.

Essenzialmente, sono due i profili critici in cui si esprimerebbe l'incompatibilità tra il nuovo istituto e i princìpi di fondo del sistema minorile.

Per un verso, l'eccessiva contrazione dei tempi della procedura non consentirebbe un'adeguata indagine personologica e impedirebbe di contemperare le esigenze dell'accertamento penale con l'imprescindibile tutela della sfera educativa.

Il fatto che sia il giovane imputato – insieme a chi esercita la responsabilità genitoriale e al difensore – a doversi attivare al fine di predisporre il programma trattamentale acuirebbe le tensioni col principio di eguaglianza, considerato che i giovani privi di risorse (economiche, familiari, culturali) sarebbero “abbandonati” a se stessi, mentre gli imputati che possono contare su un background più strutturato avrebbero maggiore facilità di accedere ad un percorso diversionale in grado di proiettarlo a chiudere in tempi ristretti la vicenda penale.

In tal senso, aggrava il quadro il mancato coinvolgimento strutturale dei servizi sociali, attivati “a domanda” e, nella prospettiva del rimettente, privati dalla legge della possibilità di seguire il minorenne durante lo svolgimento delle attività trattamentali. Riguardo a tale aspetto, il giudice a quo ravvisa profili di irragionevole disparità di trattamento nell'assenza di previsioni analoghe all'art. 27 disp. att. d.P.R. n. 448/1988, che in materia di messa alla prova prevede l'elaborazione del programma trattamentale e il follow up del minorenne “a carico” dei servizi minorili; e una irragionevole discriminazione sussisterebbe persino rispetto alla messa alla prova per adulti, considerato che l'art. 464-quinquies, comma 2, c.p.p. prevede espressamente la presa in carico dell'imputato da parte dei servizi.

Il giudice rimettente ha sostenuto, poi, che le criticità derivanti dalla mancanza di un'adeguata personalizzazione dell'intervento educativo non potrebbero essere superate nemmeno attraverso gli strumenti normativi già esistenti, che consentono all'autorità giudiziaria di raccogliere informazioni sul contesto socio-economico e familiare del minore. In particolare, gli artt. 6 e 9 d.P.R. n. 448/1988 permettono al pubblico ministero e al giudice di acquisire informazioni anche con il supporto dei servizi minorili e dei servizi sociali e sanitari locali. Tuttavia, secondo il rimettente, tali disposizioni non sarebbero sufficienti a garantire la conformità costituzionale della norma in esame, poiché il loro utilizzo comporterebbe un allungamento dei tempi procedurali, rendendo il nuovo istituto incompatibile con la finalità deflativa attribuitagli dal legislatore.

Infine, riveste un ruolo nella complessiva prognosi di incostituzionalità il fatto che a decidere sull'avvio e sull'esito del percorso di rieducazione sia un giudice privo della componente onoraria, tratto qualificante della giurisdizione minorile, che consente di attingere a un contributo esperto in grado di ampliare la capacità di valutare globalmente la situazione del minore.

Il giudice rimettente ha quindi sostenuto l'incompatibilità del nuovo istituto con la funzione del processo penale minorile, che non è un procedimento finalizzato al “mero” accertamento del reato e all'irrogazione di una sanzione, ma ha una chiara funzione di riabilitazione sociale, in cui la celerità della risposta giudiziaria non può annichilire la qualità dell'intervento educativo.

La posizione dell'Avvocatura dello Stato

In rito, l'Avvocatura dello Stato ha chiesto alla Corte di pronunciarsi per l'inammissibilità della questione sia per l'imperscrutabilità del petitum – non essendo chiaro se il giudice a quo miri alla totale ablazione dell'istituto oppure ad una sua manipolazione – sia per non aver tentato un'interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione.

Nel merito, la difesa della legittimità costituzionale dell'art. 27-bis d.P.R. n. 448/1988 si è sviluppata lungo tre direttrici: la coerenza della norma con la finalità rieducativa del processo penale minorile; l'equilibrato bilanciamento tra le esigenze di celerità del procedimento e le garanzie processuali; la conformità della disciplina ai princìpi costituzionali e sovranazionali in materia di giustizia minorile.

L'Avvocatura ha argomentato che la previsione di un meccanismo di definizione anticipata del procedimento basato su un percorso rieducativo amplifica i tratti rieducativi della giustizia minorile. D'altronde, al minorenne è offerta la possibilità di evitare il processo – evento stressante e potenzialmente stigmatizzante –, favorendo il tempestivo avvio di un percorso di recupero e reinserimento sociale.

In questo senso, anzi, la celerità dell'intervento è animata dalla necessità di evitare che le lungaggini del processo penale pregiudichino l'efficacia di interventi educativi destinati a un soggetto la cui personalità esprime fisiologicamente tratti fortemente evolutivi.

Peraltro, la rapidità nella definizione del procedimento non implica un sacrificio delle garanzie offerte al minore, bensì una loro razionalizzazione. D'altronde, la decisione sulla definizione anticipata del procedimento resta soggetta alla valutazione del giudice, il quale conserva il potere di verificare la congruità del percorso educativo proposto e di assicurare che esso risponda effettivamente agli interessi del minore. In tale contesto, a mente dell'Avvocatura, conferire tale compito a un giudice privo della componente onoraria non inciderebbe sulla qualità della decisione, poiché il magistrato togato ha comunque le capacità necessarie a garantire l'adeguatezza del percorso educativo in relazione alle specificità del caso.

La decisione

Preliminarmente, la Corte respinge le eccezioni di inammissibilità sollevate dalla difesa erariale, sostenendo – in conformità a numerosi, citati precedenti – che «è sufficiente che dal tenore complessivo della motivazione dell'ordinanza di rimessione emergano il contenuto e il verso delle censure», spettando poi al Giudice delle Leggi «l'individuazione del rimedio appropriato al vulnus eventualmente riscontrato» (§ 2 del Considerato in diritto). Del pari, i giudici costituzionali ritengono che il rimettente abbia adeguatamente motivato sulla ritenuta impossibilità di procedere a interpretazioni costituzionalmente orientate del precetto – in questo caso, dell'istituto – censurato, spettando poi alla decisione nel merito verificare se dette motivazioni siano fondate (§2.1 del Considerato in diritto).

Prima di motivare nel merito, la Corte costituzionale procede ad una «sintetica illustrazione» (§4 del Considerato in diritto) del neointrodotto istituto, affermandone la natura di probation dai «connotati peculiari», di alternativa al giudizio ordinario collocata in una «sorta di progressione» tra la definizione anticipata per irrilevanza del fatto e la messa alla prova.

Tanto è radicata – secondo la Corte – la natura di probation che il percorso motivazionale vero e proprio muove le mosse dalla necessità di confrontare «l'assetto normativo del nuovo istituto» con «il quadro costituzionale della prova minorile» (§5 del Considerato in diritto).

In tale “quadro”, la Corte ribadisce la centralità della natura individualizzata ed esclusivamente (ri)educativa del percorso trattamentale (ancora di recente ribadito con la sentenza n. 8 del 2025). Si tratta di un “quadro”, aggiunge la Corte, assai differente da quello in cui si inscrive la prova per adulti, caratterizzata da negozialità e afflittività sanzionatoria (anche in questo caso, si ribadiscono numerosi precedenti in termini).

Se letto in queste coordinate, il nuovo istituto è incompatibile con lo statuto costituzionale del rito minorile qualora officiato da un giudice privo delle competenze “socioeducative”; mentre per il resto può essere ricondotto in via esegetica entro il sistema dei princìpi fondamentali.

   

La specializzazione del giudice e la declaratoria di incostituzionalità parziale.

Secondo la Consulta, ogni forma di probation minorile deve essere governata da un giudice dotato delle «competenze interdisciplinari necessarie alle valutazioni personologiche richieste dalla finalità educativa dell'istituto» (§5.3 del Considerato in diritto).

A mente della Corte, la competenza attribuita al giudice per le indagini preliminari – monocratico e togato – «si oppone a qualunque interpretazione adeguatrice, poiché il GIP minorile, a norma dell'art. 50-bis, comma 1, del regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12 (Ordinamento giudiziario), è giudice singolo, privo della componente onoraria esperta». Dunque, «in ossequio all'art. 31, comma 2, Cost., la dizione della norma censurata deve essere quindi sostituita con quella “giudice dell'udienza preliminare”, con riferimento, cioè, all'organo che, ai sensi del comma 2 dello stesso art. 50-bis, è composto, oltre che dal magistrato, da due giudici onorari esperti» (§6.1 del Considerato in diritto). Conseguentemente, ogni riferimento al “giudice”, contenuto nell'art. 27-bis d.P.R. n. 448 del 1988, deve essere inteso come riferimento al G.u.p.

Si tratta di considerazioni non nuove nella giurisprudenza della Corte costituzionale, che più volte in passato ha rimarcato come le «competenze scientifiche dei soggetti che compongono il collegio giudicante» sono imprescindibili per «una corretta valutazione delle particolari situazioni dei minori, la cui evoluzione psicologica, non ancora giunta a maturazione, richiede l'adozione di particolari trattamenti penali che consentano il loro completo recupero, ponendosi, quest'ultimo, quale obiettivo primario, cui tende l'intero sistema penale minorile» (C. cost., n. 301/2008); oltre a ribadire che «la specializzazione del giudice minorile, finalizzata alla protezione della gioventù sancita dalla Costituzione, è assicurata dalla struttura complessiva di tale organo giudiziario, qualificato dall'apporto degli esperti laici» (C. cost., n. 330/2003).

Ecco, dunque, che la decisione in commento attribuisce al giudice dell'udienza preliminare la competenza a celebrare la nuova forma semplificata di probation, in questo senso confermando le osservazioni di parte della dottrina (cfr. L. Camaldo, Condivisibili dubbi di legittimità costituzionale della disposizione introdotta dal decreto Caivano che prevede alcuni reati ostativi alla concessione della messa alla prova minorile, in Sist. pen., 30 maggio 2024; scettico sulla competenza del G.i.p. è anche A. Gaudieri, L'impatto del d.l. 15 settembre 2023, n. 123, sul processo penale: uno sguardo d'insieme, in AA.VV., Il Decreto Caivano – Sicurezza e criminalità minorile, Pisa, 2024, p. 35-36; per un'opinione critica, ma non al punto da determinare l'incostituzionalità della disposizione, sia consentito rinviare ad A. Zampini, Un percorso di rieducazione accidentato sul piano normativo, ma non incostituzionale. Spunti per la “messa in sicurezza” dell'art. 27-bis d.p.r. n. 448/1988, in Sist. pen., 1 luglio 2024).

   

La “tenuta” costituzionale dell'istituto.

La Corte costituzionale ha “salvato” il nuovo percorso di rieducazione, non senza offrire soluzioni interpretative in grado di superare le preoccupazioni espresse dal giudice rimettente.

Innanzitutto, i timori di mancata assistenza da parte dei servizi sociali sono fugati in base ad una interpretazione del comma 2 dell'art. 27-bis d.P.R. n. 448 del 1988 secondo cui la redazione del programma trattamentale «in collaborazione anche con i servizi dell'amministrazione della giustizia» implica un coinvolgimento necessario di questi ultimi: «la particella non allude alla mera eventualità, ma a un vero e proprio obbligo di coinvolgere “anche” (e dunque “altresì”) i servizi minorili stessi» (§6.1.2 del Considerato in diritto). A riprova di ciò, deve tenersi presente che la valutazione che il giudice opera all'esito del periodo di sospensione, il giudice deve valutare il superamento della prova «sulla base della relazione conclusiva trasmessa dai servizi, non diversamente da quanto accade per la prova minorile ordinaria» (§6.1.2 del Considerato in diritto).

Ancora, gli ordinari strumenti ricognitivi della situazione sociale e familiare del minorenne (artt. 6 e 9 d.P.R. n. 448 del 1988) devono considerarsi sufficienti a consentire all'autorità giudiziaria di valutare cognita causa l'opportunità di sospendere il procedimento. In questo senso, il pubblico ministero deve operare la valutazione sul fatto e quella personologica in modo completo, sulla base anche delle relazioni dei servizi; d'altronde, la Corte ribadisce che la proposta di percorso rappresenta una forma di esercizio dell'azione penale, in ordine alla quale il magistrato di accusa si determina in base a sufficienti indagini penali e personologiche. In seconda battuta, il giudice può utilizzare i medesimi istituti per raccogliere ulteriori informazioni utili a integrare le conoscenze fino a quel momento disponibili.

Infine, anche dal punto di vista temporale, la disciplina scrutinata non si pone in contrasto con le finalità educative del rito, considerato che il termine di sessanta giorni previsto per il deposito del programma ha natura ordinatoria, non essendo corredato da sanzioni decadenziali. Inoltre, afferma il Giudice delle leggi – integrando in parte qua la disposizione – è possibile che il pubblico ministero, a fronte di una motivata istanza della difesa, proroghi il termine in modo tale da consentire l'elaborazione di un adeguato programma (§6.4 del Considerato in diritto).

Sempre sul versante dell'idoneità educativa dell'istituto, la Corte si spinge ad affermare che – analogamente a quanto avviene per la messa alla prova – è consentito «disporre integrazioni o modifiche del progetto di intervento», purché non «in modo unilaterale, senza consultare le parti e i servizi» (§6.4 del Considerato in diritto).

Infine, la Corte si interessa anche dell'oggetto della prova, affermando che nonostante il riferimento della disposizione al «rispetto della legislazione in materia di lavoro minorile», la norma va intesa come se si riferisse anche ad attività non strettamente lavorative, ma di carattere socio-relazionale. Peraltro, la sentenza fa espresso riferimento alle «previsioni di salvaguardia» di cui all'ordinamento penitenziario minorile, specificamente alle misure penali di comunità (v. art. 3, comma 2, d.lgs. 2 ottobre 2018, n. 121), «estensibili per analogia» al percorso di rieducazione. Sicché, gli eventuali contenuti “lavorativi” «non devono mai compromettere i percorsi educativi in atto» (§6.6 del Considerato in diritto).

In base a questa lettura complessiva, quindi, la decisione in commento “salva” l'istituto di nuovo conio, offrendone un'interpretazione in grado di collocarlo stabilmente entro lo statuto costituzionale della giustizia minorile (in questo senso, disattendendo le voci dottrinali che invocavano la declaratoria di illegittimità, cfr. L. Camaldo, Condivisibili dubbi di legittimità costituzionale, cit.; per un diverso approccio, v. A. Zampini, Un percorso di rieducazione accidentato, cit.).

Osservazioni

Ancora un aspetto, tra gli altri, assume cruciale importanza nell'economia della sentenza. La Corte costituzionale afferma che «all'indicazione del GUP quale organo officiato dell'ammissione del minore al percorso di reinserimento corrisponde la qualificazione della proposta del pubblico ministero come atto di esercizio dell'azione penale» (§6.2 del Considerato in diritto). In realtà, a prescindere dal giudice officiante, ragioni sistematiche consentono di affermare la natura di atto di promovimento dell'azione penale dell'invito del pubblico ministero a formulare un programma di percorso.

In base ad una lettura sistematica, l'atto in parola avvia un segmento procedimentale indirizzato verso l'implicito accertamento – legittimato dal consenso – della responsabilità penale del minore (sul punto, si consenta di rinviare ad A. Zampini, sub art. 27-bis, in G. Giostra (a cura di), Processo penale minorile. Commento al d.P.R. n. 448/1988, Giuffrè, 2024, p. 492 ss.). Questo è l'aspetto che pare cruciale ai fini della ricostruzione della natura dell'atto. Questo, ancor più dell'individuazione del giudice competente; questo, ancor più dei non univoci indici letterali offerti dalla disposizione. Infatti, se è vero, come ricorda la Corte al §6.2 del Considerato in diritto, che il comma 3 e il comma 6 si riferiscono al minorenne quale «imputato» e fanno riferimento alla sospensione del «processo» (termine preferito in sede di conversione del d.l. a «procedimento penale»), e se è vero che in caso di esito positivo del percorso, il giudice dichiara estinto il reato con «sentenza» (mentre in fase di indagine l'estinzione del reato suggerirebbe fisiologicamente un epilogo archiviativo); va anche ricordato che il comma 2 parla del minorenne chiamandolo «indagato», come a sottolineare la sua perdurante sottoposizione alle indagini preliminari.

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