Rivoluzione copernicana in materia di cittadinanza iure sanguinis? Lettura a caldo d.l. 28 marzo 2025, n. 36
01 Aprile 2025
Premessa «Ogni individuo ha diritto ad una cittadinanza» e «nessun individuo potrà essere arbitrariamente privato della sua cittadinanza, né del diritto di mutare cittadinanza»: l'efficace formulazione, come noto, è impressa nell'art. 15 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, approvata e proclamata il 10 dicembre 1948 dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Nell'ordinamento giuridico italiano, la disciplina organica della materia è attualmente contenuta nella Legge 5 febbraio 1992, n. 91, recante «Nuove norme sulla cittadinanza», che prevede le relative modalità di acquisto, di perdita, rinuncia, revoca e riacquisto; viceversa, la Costituzione repubblicana, lungi dal prevedere disposizioni specifiche in materia o dall'offrire una nozione, per un verso menziona o si riferisce ai cittadini in numerose disposizioni e dall'altro prevede solennemente che «nessuno può essere privato per motivi politici (...) della cittadinanza» (art. 22, Cost.). Definita, allora, come un particolare status (cioè una somma di situazioni giuridiche soggettive) acquisito nei modi prestabiliti dall'ordinamento e «rappresentativo di una relazione di appartenenza all'ente» (G. Guzzetta, F.S. Marini, Diritto pubblico italiano ed europeo, Torino, 2011, p. 35), la cittadinanza consiste nel legame tra gli appartenenti al popolo e lo Stato; nella cittadinanza, infatti, si compenetra «il regolamento giuridico di tutte le manifestazioni della vita sociale privata e pubblica dell'uomo» (C. Iannaccone, Considerazioni e limiti del diritto fondamentale dell'uomo alla cittadinanza, in Studi in memoria di Giovan Battista Funaioli, Milano, 1961, p. 658). Si tratta, evidentemente, di un tema sempiterno, destinato a suscitare un interesse da parte del giurista pratico e di quello teorico; si tratta, ancora, di un argomento particolarmente complesso, capace di coinvolgere ed interrogare molteplici categorie del diritto pubblico e del diritto privato, come dimostrato non solo da alcune recentissime pronunce giurisprudenziali, ma soprattutto dalla rivoluzione copernicana segnata dall'entrata in vigore, il 29 marzo 2025, delle «disposizioni urgenti in materia di cittadinanza» oggetto del d.l. 28 marzo 2025, n. 36, la cui analisi, evidentemente, non potrà che impegnare, nel futuro, gli addetti ai lavori. L'acquisto della cittadinanza iure sanguinis Come noto, il sistema vigente (Legge 5 febbraio 1992, n. 91) attribuisce la cittadinanza sulla base del principio dello ius sanguinis (ed in via integrativa, al ricorrere di determinati requisiti, dello ius soli) nonché della attribuzione per matrimonio, per beneficio di legge e per naturalizzazione. Il criterio dello ius sanguinis (a cui è esclusivamente dedicato il presente focus), in particolare, risale al Code Napoléon («Tout enfant né d'un Français en pays étranger, est Français»), ed è appunto basato sulla discendenza diretta: attualmente – secondo una tradizione già fatta propria dal Codice Civile del 1865 e dalla Legge 13 giugno 1912, n. 555 – è infatti cittadino, tra l'altro, proprio «il figlio di padre o di madre cittadini» (art. 1, lett. a, l. 91/1992). Ciò significa, che «la trasmissione della cittadinanza italiana non è soggetta ad alcun limite generazionale» e che «se ne può ottenere il riconoscimento anche dopo molte generazioni dall'avo italiano e moltissimi anni dalla sua esistenza, anche se i discendenti sono stati in possesso di altra cittadinanza, sono sempre vissuti all'estero e non hanno mai fatto valere la loro italianità» (R. Calvigioni, Il cognome del cittadino riconosciuto italiano dalla nascita: una interessante decisione della Corte d'Appello di Bologna, in Fam. Dir., 2/2024, pp. 171 ss.). In tale contesto, quindi ed in estrema sintesi, è del tutto evidente come si inseriscano le richieste di cittadinanza italiana da parte dei discendenti di quegli italiani che – anche prima dell'Unità d'Italia – emigrarono all'estero per le più diverse ragioni, onde un sistema in cui «decine di milioni di persone sono, secondo le disposizioni vigenti, cittadini italiani in attesa di riconoscimento» (Trib. Bologna, Sez. Immigrazione, protezione internazionale e libera circolazione cittadini UE, ord. 26 novembre 2024). Ed infatti, se il capostipite della famiglia era cittadino italiano, questi trasmetteva la cittadinanza iure sanguinis al figlio, il quale, a sua volta, la trasmetteva alla propria prole e così via, sempreché non vi fosse stata rinuncia, da parte di alcuno di essi, alla cittadinanza italiana (Trib. Roma, sez. I, 5 luglio 2017, n. 13659). Il cittadino straniero che abbia avuto un avo italiano, pertanto, può chiedere il riconoscimento della cittadinanza italiana, «presentando una idonea documentazione a dimostrazione che tutti i discendenti non abbiano perso la cittadinanza italiana, che è stata trasmessa per nascita via via fino ad arrivare all'attuale richiedente» (R. Calvigioni, Il cognome del cittadino riconosciuto italiano dalla nascita: una interessante decisione della Corte d'Appello di Bologna, cit.). Il problema della grande naturalizzazione brasiliana ed i principi enunciati dalle sezioni unite In tale contesto (cfr. L. Dell'Osta, G. Spadaro, A. Lestini, Cittadinanza, in Ius Famiglie, 2024), ci si è ulteriormente domandati se lo status di cittadino potesse essere oggetto di rinuncia attraverso la mera permanenza in un altro paese ed in mancanza di una manifestazione di volontà, posto che la cittadinanza italiana si perdeva, tra l'altro, laddove il soggetto avesse ottenuto «la cittadinanza in un paese estero» (art. 11, Codice Civile del 1865, applicabile, ratione temporis, al periodo della grande naturalizzazione brasiliana del 1889-1891). Il riferimento è, evidentemente, ai decreti di grande naturalizzazione brasiliana (Decreto n. 58-A emanato dal Governo provvisorio brasiliano il 15 dicembre 1889, riprodotto dall'art. 69, comma 4, della Costituzione brasiliana del 1891, e Decreto n. 6.948 del 14 maggio 1908), in forza dei quali gli stranieri che non avessero dichiarato, alla data del 24 agosto 1891, l'interesse a mantenere la nazionalità di origine, sarebbero stati considerati come «tacitamente naturalizzati», purché avessero chiesto l'iscrizione alle liste elettorali o il rilascio della tessera elettorale. Al riguardo, l'orientamento unanime è stato nel senso che la locuzione “ottenere la cittadinanza” implica una istanza proveniente dall'interessato: di conseguenza, ciò non potrebbe che significare come «la cittadinanza si perde per rinuncia, purché volontaria ed esplicita, consistente in un atto libero e spontaneo diretto all'acquisto di una cittadinanza straniera», onde «una rinuncia tacita – desumibile da un'accettazione tacita di una cittadinanza straniera imposta a mezzo di un provvedimento generale di naturalizzazione – non è idonea a determinare la perdita della cittadinanza italiana» (Cass., Sez. Un., 24 agosto 2022, n. 25317; App. Roma, sez. I, 28 luglio 2023, n. 5403). Parimenti, dal punto di vista probatorio, si è chiarito come lo status di cittadino, una volta acquisito, ha natura permanente, è imprescrittibile ed è giustiziabile in ogni tempo in base alla semplice prova della fattispecie acquisitiva integrata dalla nascita da cittadino italiano, donde la prova è nella linea di trasmissione; ne segue, di necessità, che il soggetto che rivendica la cittadinanza ha il solo onere di dimostrare di essere discendente di un cittadino italiano, incombendo sulla controparte, che ne abbia fatto eccezione, la prova dell'evento interruttivo della predetta linea di trasmissione (così, sempre Cass. civ., sez. un., 24 agosto 2022, n. 25317). Quella della mancata rinuncia della cittadinanza da parte degli avi emigrati è apparsa allora, questione fondamentale (anche in ottica lavorativa ed economica), posto che ai sensi dell'art. 9 TUE chiunque abbia la cittadinanza di uno Stato membro è altresì cittadino dell'Unione europea. Un limite temporale? la naturalizzazione straniera o il decesso dell'avo emigrato prima della costituzione del regno d'Italia È principio consolidato, dunque, che a partire dal 1° gennaio 1866 (data di entrata in vigore del codice civile del 1865), la cittadinanza italiana poteva essere persa soltanto attraverso un atto spontaneo e volontario finalizzato all'acquisto della cittadinanza straniera, essendo irrilevante che l'ascendente avesse stabilito all'estero la residenza o stabilizzato la propria condizione di vita. E, tuttavia, non di rado capitano situazioni in cui l'ascendente dante causa sia emigrato dall'Italia antecedentemente alla costituzione dell'unità d'Italia, con passaporto di uno Stato preunitario. Tale circostanza, se non può ritenersi ostativa al riconoscimento della cittadinanza italiana (in quanto il Codice Civile del 1865, che regolava la materia della cittadinanza antecedentemente alla legge 13.6.1912, n. 555, non escludeva dal possesso della cittadinanza italiana i soggetti emigrati prima della costituzione del Regno d'Italia) comporta ciononostante «che i nati prima del 1861 ed emigrati in uno Stato estero possono essere considerati cittadini italiani soltanto dal momento in cui lo Stato preunitario di provenienza risulti entrato a far parte del Regno d'Italia. Se, invece, al momento dell'eventuale naturalizzazione straniera, o alla data del loro decesso, lo Stato preunitario di appartenenza non fosse stato ancora inglobato nel Regno d'Italia, costoro devono considerarsi non aver mai conseguito la cittadinanza italiana» (Ministero dell'Interno, La cittadinanza italiana - La normativa, le procedure, le circolari, 31 gennaio2003). Ciò significa, in estrema sintesi, che se l'avo emigrato si fosse naturalizzato straniero o fosse deceduto prima del 17 marzo 1861, lo stesso non avrebbe mai potuto trasmettere la cittadinanza italiana ai propri discendenti non avendola mai posseduta nemmeno lui; e che, viceversa, qualora l'avo, emigrato prima dell'entrata in vigore del Codice del 1865, fosse deceduto successivamente all'Unità d'Italia, avrebbero dovuto trovare applicazione le disposizioni (maggiormente restrittive rispetto a quelle successivamente emanate) previste nei codici preunitari, le quali prevedevano, come causa di perdita della cittadinanza, oltre all'acquisto della «naturalità in paese straniero» anche l'emigrazione «con animo di non più ritornare» nei Regii Stati (Trib. Genova, 9 gennaio 2025, n. 44). La questione di legittimità costituzionale sollevata dal tribunale di bologna Ciò posto, nell’attuale sistema normativo, il legame di sangue con l’ascendente è valorizzato senza limiti dall’art. 1, Legge 5 febbraio 1992, n. 91, onde la preoccupazione sulla capacità delle attuali regole di reggere alle smisurate richieste di riconoscimento della cittadinanza provenienti da discendenti di soggetti emigrati, nel corso del XIX secolo, soprattutto in Argentina, Brasile e Venezuela; richiedenti (ammontanti a decine di milioni di persone) che, non di rado, appaiono totalmente privi di collegamento effettivo con la comunità nazionale. È stato segnalato, al riguardo, come la grande maggioranza dei richiedenti non soltanto sono privi di alcun contatto culturale o linguistico con il paese, ma sono interessati alla cittadinanza in prospettiva non di un più saldo contatto con l’Italia ma di un trasferimento in altri paesi dell’Unione europea o negli Stati Uniti d’America, dove dal 1986 i cittadini italiani sono esentati dal visto. Inevitabilmente, allora, dove non arriva il buon senso (il principio di discendenza non è, infatti, fine a sé stesso, ma diretto ad assicurare la continuità della comunità nazionale) si attivano gli “anticorpi” che l’ordinamento vigente è comunque in grado di produrre: essi hanno assunto, nel caso de quo, la forma di una ben motivata ordinanza di remissione alla Consulta per non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale del criterio “puro” e senza limiti della discendenza o filiazione ai fini del riconoscimento della cittadinanza italiana (Trib. Bologna, Sez. Immigrazione, protezione internazionale e libera circolazione cittadini UE, ord. 26 novembre 2024; G. Spadaro, G. Gallo, Sulla legittimità costituzionale della cittadinanza italiana iure sanguinis, in Ius Famiglie, 2024). Un criterio, del resto, che, se affondava originariamente le proprie radici in politiche di sostegno degli italiani all’estero in un’epoca che non conosceva la facilità di trasporti e di comunicazione anche digitale dell’era attuale, non potrebbe oggigiorno che condurre a nuove prospettive, come ha dimostrato l’esplosione di ricorsi giurisdizionali depositati direttamente in Italia da chi è in grado di affrontare una difesa tecnica in un altro continente, con una evidente discriminazione su base economica. Ci si deve pertanto domandare se – alla luce del fenomeno della globalizzazione, della facilità dei trasporti e delle comunicazioni per mezzo della rete – il riconoscimento della cittadinanza a decine di milioni di persone prive di effettivo collegamento con l’Italia possa costituire una inammissibile alterazione della stessa nozione di popolo su cui si fonda l’ordinamento costituzionale. Il fondamento giuridico della cittadinanza coincide, infatti, con l’elemento personale dell’ordinamento e con il concorso nella determinazione della volontà dello Stato, dimodoché l’estensione che viene data all’elemento personale incide profondamente sulla qualità dello stesso processo democratico (sia con riguardo ai processi legislativi ordinari che con riguardo ai processi di revisione della stessa Costituzione), in quanto i modi di acquisto della cittadinanza possono influenzare, determinando anche delle distorsioni, il funzionamento dei meccanismi istituzionali, finendo nel concreto col compromettere lo stesso diritto dei cittadini a determinare la politica nazionale. Inoltre, la smisurata dilatazione del numero di cittadini che non hanno alcun collegamento con la Repubblica, interferisce (oltre che con i principi dell’ordinamento internazionale ed europeo) con l’esercizio della sovranità popolare, sia per la possibilità di iscrizione presso le liste elettorali interne, sia per l’incidenza sul quorum previsto per il referendum popolare dall’articolo 75, quarto comma della Costituzione (per cui hanno diritto di voto tutti i cittadini chiamati ad eleggere la Camera) sia per l’interferenza con l’operatività del referendum costituzionale di cui all’articolo 138 della Costituzione. Un tratto di penna del legislatore e intere biblioteche vanno al macero: il d.l. 28 marzo 2025, n. 36 Si tramanda che basta «un tratto di penna del legislatore e intere biblioteche vanno al macero» (Julius Von Kirchmann). E, così, nel panorama normativo e giurisprudenziale brevemente delineato (vale a dire in considerazione del fatto che le disposizioni in materia di cittadinanza sono state finora interpretate nel senso di accordare alle persone nate all'estero una facoltà di chiedere il riconoscimento della cittadinanza senza alcun limite temporale o generazionale, né oneri in ordine alla dimostrazione della sussistenza o mantenimento di vincoli effettivi con la Repubblica), si inserisce – nelle more dell'approvazione di una riforma organica delle disposizioni in materia di cittadinanza – la disciplina particolarmente restrittiva di cui al decreto legge 28 marzo 2025, n. 36. Quest'ultimo (introducendo l'art. 3 bis, l. n. 91/1992), in deroga alle disposizioni vigenti ed in ragione della straordinaria necessità ed urgenza di introdurre limitazioni nella trasmissione automatica della cittadinanza italiana a persone nate e residenti all'estero, condizionandola a chiari indici della sussistenza di vincoli effettivi con la Repubblica, sancisce che è considerato non avere mai acquistato la cittadinanza italiana chi è nato all'estero anche prima della data di entrata in vigore del presente articolo ed è in possesso di altra cittadinanza: la cittadinanza, del resto, richiede comunanza di linguaggio, tradizioni culturali e storiche, sintetizzabili nella nozione di nazionalità. E, tuttavia, la norma – che, in ogni caso scongiura ipotesi di apolidia e determina il mantenimento della cittadinanza italiana e, conseguentemente, europea in capo alle persone nate e residenti all'estero alle quali lo stato di cittadini è già stato validamente riconosciuto – fa salve, alternativamente, alcune ipotesi: 1) Lo stato di cittadino dell'interessato è riconosciuto o è accertato giudizialmente, nel rispetto della normativa applicabile al 27 marzo 2025, a seguito di domanda, corredata della necessaria documentazione, presentata all'ufficio consolare o al sindaco competenti ovvero al Tribunale competente non oltre le 23:59, ora di Roma, della medesima data; pertanto, continuerà ad applicarsi la normativa sostanziale previgente alle controversie giurisdizionali e ai procedimenti amministrativi instaurati in data anteriore alla deliberazione del Consiglio dei ministri del decreto legge (e non già di entrata in vigore dello stesso); 2) Un genitore o adottante cittadino è nato in Italia. 3) Un genitore o adottante cittadino è stato residente in Italia per almeno due anni continuativi prima della data di nascita o di adozione del figlio. 4) Un ascendente cittadino di primo grado dei genitori o degli adottanti cittadini è nato in Italia. Dal punto di vista probatorio, inoltre, si prevede che salvi i casi espressamente previsti dalla legge, nelle controversie in materia di accertamento della cittadinanza italiana non sono ammessi il giuramento e la prova testimoniale e che il richiedente l'accertamento della cittadinanza è tenuto ad allegare e provare l'insussistenza delle cause di mancato acquisto o di perdita della cittadinanza previste dalla legge. La nuova normativa, in attesa di una organica riforma della materia, evita allora un eccezionale e incontrollato afflusso di domande di riconoscimento della cittadinanza (da parte di soggetti che, peraltro, sono prevalentemente legati ad altri Stati da vincoli profondi di cultura, identità e fedeltà), tale da impedire l'ordinata funzionalità degli uffici consolari all'estero, dei comuni e degli uffici giudiziari; ed ancora, pone un argine al riconoscimento di un così importante status in capo a quanti (e che ben potrebbero raggiungere una consistenza pari o superiore alla popolazione residente nel territorio nazionale) non hanno vincoli effettivi con la Repubblica, e limita un fattore di rischio serio ed attuale per la sicurezza nazionale oltre che degli altri Stati membri (in virtù dell'appartenenza dell'Italia all'Unione europea) e dello Spazio Schengen. In conclusione La cittadinanza, quale «naturale sviluppo del vincolo che per sua natura l’uomo assume verso la società familiare» (C. Iannaccone, Considerazioni e limiti del diritto fondamentale dell’uomo alla cittadinanza, cit., pp. 668 ss.) – si è detto e ripetuto presentando il decreto legge –, è una cosa seria perché richiede «la sussistenza o il mantenimento di vincoli effettivi con la Repubblica» (Decreto Legge 28 marzo 2025, n. 36) e si esplica nella partecipazione alla vita della comunità e alle decisioni che la riguardano. Per effetto di quel legame sorgono diritti ed obblighi reciproci fra il cittadino e lo Stato, sicché vi possono essere motivi per i quali la privazione (o il diniego) della cittadinanza da parte dell’ordinamento può non essere arbitraria ed anzi presentarsi legittima e doverosa, come quando si tratta di tutelare i diritti fondamentali (tra cui la sicurezza) degli altri componenti la società che in esso si organizza, ovvero il funzionamento della democrazia e dei meccanismi istituzionali o, ancora, l’esercizio della sovranità popolare. Ne deriva che «l’acquisto di convenienza egoistica della cittadinanza di altro Stato» da parte dell’individuo al fine di «procurarsi così ambiente più conveniente alle sue ambizioni o alla sua avidità di guadagno» non potrebbe che porsi in contrasto con quella concezione di Stato che «s’identifica con la patria e cioè la istituzione, che, come la famiglia, costituisce fondamentale società nella quale per natura è destinata ad esplicarsi la socialità dell’uomo e a comporsi per i suoi destini l’umanità» (C. Iannaccone, Considerazioni e limiti del diritto fondamentale dell’uomo alla cittadinanza, cit., pp. 660 ss.). |