Il d.d.l. sul femminicidio: buone intenzioni e scelte operative di problematica attuazione

Cesare Parodi
04 Aprile 2025

Il d.d.l. 7 marzo 2025 in tema di femminicidio si contraddistingue per una serie di disposizioni dirette a integrare il sistema di tutela delle persone offese dei reati di violenza domestica e di genere già delineato dalla l. n. 69/2019 e dalla l. n. 168/2023. Al di là delle possibili questioni ermeneutiche derivanti dalle nuove disposizioni, motivi di preoccupazione sorgono dalla previsione della concreta applicazione dei principi contenuti nel d.d.l. nel sistema.

Premessa

Non vi possono essere dubbi sulle intenzioni di fondo che caratterizzano il d.d.l. in oggetto: una precisa volontà di completare il quadro di tutela delle vittime di reati particolarmente odiosi, percepiti come espressivi di una criticità sociale diffusa e inquietante, con costante frequenza- purtroppo- al centro della scena sui media nazionali. Un problema generale sul territorio nazionale e trasversale sul piano dell'analisi dei costumi e delle modalità di manifestazione delle criticità relazionali, comune a molte (troppe) culture. Un problema che impone, pertanto, risposte puntuali, esaustive ed efficaci. Per il comunicato del Governo «L'intervento si inserisce anche nel quadro degli obblighi assunti dall'Italia con la ratifica della Convenzione di Istanbul e nel solco delle linee operative disegnate dalla nuova direttiva (UE) 1385/2024 in materia di violenza contro le donne, nonché delle direttive in materia di tutela delle vittime di reato».

Il d.d.l. interviene su una serie di aspetti – di natura sostanziale e procedurale - affermando in astratto principi condivisibili, in quanto in vario modo funzionali ad aumentare il livello di tutela delle vittime di questi reati. In questo senso certamente condivisibili sono le numerose disposizioni che aumentano il coinvolgimento delle persone offese nella dinamica processuale, stabilendo obblighi di informativa e di interlocuzione con le stesse.

In particolare, il d.d.l.

  • introduce specifici obblighi informativi in favore dei prossimi congiunti della vittima di femminicidio;
  • prevede il parere, non vincolante, della vittima in caso di patteggiamento per reati da codice rosso e connessi obblighi informativi e onere motivazionale del giudice;
  • introduce, in favore delle vittime di reati da codice rosso, un diritto di essere avvisate anche dell'uscita dal carcere dell'autore condannato, a seguito di concessione di misure premiali.

Su altri aspetti si impone una doverosa premessa: il nuovo delitto di femminicidio (e le nuove aggravanti modulate sugli elementi caratterizzanti tale fattispecie) che il d.d.l. intende introdurre è stato già oggetto di critiche alla luce di potenziali criticità ermeneutiche (in questo senso G. Fiandaca Cari prof. di diritto penale, è ora di protestare contro il delitto di femminicidio 14.3.2025, in sistemapenale.it; M: Pelissero Nuovo reato di femminicidio, le criticità del disegno di legge, 12 marzo 2025, otto.unito.it).

Indubbiamente, inoltre, possono sorgere dubbi sulla effettiva necessità di inserire la nuova fattispecie in un sistema che - in base al combinato disposto degli artt. 575, 577 comma 1 n.1, già prevede la pena dell'ergastolo per vicende che possono essere ricondotte al delitto di cui all'art. 577-bis c.p.

Ci sarà tempo e modo di analizzare le criticità della nuova formulazione e il rapporto con il delitto di omicidio, come di consueto accade a fronte della previsione di ipotesi di reato che potenzialmente si inseriscono nelle pieghe di fattispecie preesistenti, a volte accavallandosi con le stesse: la S.C. saprà certamente fornirci in breve tempo indicazioni preziose.  Non mancheranno anche le polemiche sulla previsione, nei casi in cui sussistano esigenze cautelari, dell'applicazione sostanzialmente vincolata della misura della custodia cautelare in carcere o degli arresti domiciliari: anche su questo molte recenti disposizioni normative di analoga impronta sono state oggetto di censura da parte della Corte Costituzionale.

E, allo stesso modo, non sarà questa la prima legge che trova la propria ragione di essere anche nella necessità socio-politica di riaffermare e ribadire l'attenzione dello Stato di fronteggiare fenomeni criminali già stigmatizzati negativamente dal sistema, per i quali si avverte l'esigenza di sottolineare e chiarire una volontà di repressione funzionale alla tutela di specifici interessi. Anche in questo senso, nihil sub sole novi.

Il vero principale problema - tuttavia - è soprattutto di natura pratico-organizzativo: vi è un timore diffuso tra gli operatori del settore che l'applicazione di alcuni principi essenziali - potremmo dire fondanti - del d.d.l. potrebbero non essere concretamente applicabile e anzi - per certi aspetti - ove applicarli, potrebbero peggiorare la situazione. Vediamo in quali termini.

L'introduzione di nuove ipotesi di competenza collegiale

I problemi pratici che potrebbero in qualche modo non consentire alla nuova legge di avere una corretta e completa applicazione sono due.

Lo spirito della nuova legge – come già la l.n. 168/2023 - è indubbiamente quello di fornire una tutela rapida ed effettiva alle persone offese dei reati in oggetto. Prova ne è che la l.n. 168/2023 ha previsto un termine entro il quale il pubblico ministero deve provvedere sulla richiesta di misura cautelare e uno per il giudice per decidere sulla stessa (come è noto, rispettivamente 30 e 20 giorni). Una previsione non riscontrabile in altri settori, che impone di ritenere la assoluta centralità del problema “tempo” in un'ottica generale di tutela.

Purtroppo, nel momento in cui il d.d.l. estende la competenza collegiale per un numero elevatissimo di reati è inevitabile - ma per un fattore oggettivo - che i tempi dei procedimenti e dei processi saranno enormemente e progressivamente dilatati.

Se per un numero elevato di processi sarò competente il Tribunale in composizione collegiale si creerà un “intasamento” di ardua gestione nei Tribunali medio- piccoli e rilevante anche in quelli di maggiori dimensioni. Avremo, per forza di cose, decisioni di primo grado che arriveranno sempre più a distanza rispetto ai fatti oggetto di accertamento.

La scelta del d.d.l. di privilegiare la competenza collegiale appare indubbiamente motivata dalla preoccupazione di demandare la valutazione sulla libertà personale a un organo in grado di fornire le massime garanzie. Una valutazione, per altro, che ha suscitato in dottrina in passato anche autorevoli perplessità, laddove si è ritenuto che la collegialità «stimola un metabolismo dialettico molto utile, quale antidoto agli errori, ma talvolta abbassa l'impegno intuitivo e raziocinante dei singoli componenti» considerando anche che «il rischio è più alto dove le premesse della decisione, emessa sulle carte, non emergano da avvenimenti vissuti nel dibattimento; al relatore compete una leadership talvolta acriticamente subita» (così F. Cordero, Guida alla procedura penale”, Torino, 1986, 109).

Tale scelta, tuttavia, sposta in avanti (e, ripeto, in termini progressivi ingravescenti) le decisioni. Ciò, senza dimenticare le criticità di organico di numerosi sedi giudiziarie, i cui dirigenti che potrebbero dover affrontare situazioni in concreto di problematica risoluzione.

Si rileva, inoltre, che la competenza collegiale rende impossibile la presenza in udienza di magistrati onorari, che nei casi più semplici possono sostituire per questi reati i P.M. togati avanti al Tribunale in composizione monocratica (si consideri che molti casi ad es. di atti persecutori sono fondati su prove testimoniali e documentali che rendono di non particolare complessità la gestione del dibattimento). Inutile dire che se un procedimento è “istruito” in modo corretto e completo, il ruolo del P.M. di udienza è meno rilevante: e le indagini possono essere coordinate e gestite solo da P.M. togati (ovviamente). Si tratta di un dato certamente “empirico” ma non semplice da confutare.

A fronte di un aumento significativo dei reati di competenza collegiale (in assenza di incrementi di organico nei Tribunali), è, pertanto, certo che vi sarà una progressiva inevitabile dilatazione del tempo intercorrente tra l'udienza preliminare e la celebrazione del dibattimento. In questo modo non potrà essere fornita una risposta adeguata in termini temporali ai problemi dei nuclei familiari coinvolti in questo settore. Non solo: fissazioni con questa prospettiva potranno porre problemi rispetto ai termini di fase delle misure cautelari, con il rischio, pertanto, di cessazione delle misure prima della celebrazione dei processi. Inutile dire che in molti casi questo potrebbe essere un problema molto serio per la tutela in concreto delle persone offese.

La previsione dell'audizione necessaria da parte del P.M.

Vi è, tuttavia, un problema ancora più grave dal punto di vista operativo, che riguarda l'introduzione nell'art. 362, comma 1-ter c.p.p. della seguente disposizione: «Il pubblico ministero provvede personalmente alla audizione quando la persona offesa abbia avanzato motivata e tempestiva richiesta in tal senso».

Anche questo è uno splendido principio astratto: lo Stato è fin dal primo momento presente, nella persona del P.M., per ascoltare le ragioni della vittima di questi reati. Chi potrebbe dubitare della elevata valenza simbolica di questo principio? Un principio trasponibile in vari settori: pensiamo, ed es. all'importanza, nel caso di gravi infortuni sul lavoro dell'intervento del P.M. sul luogo del fatto, anche quando si tratta di una scelta sostanzialmente inutile sul piano investigativo. La testimonianza della presenza dello Stato, nella persona del P.M., assume un significato di assoluto rilievo.

Purtroppo, i numeri parlano da soli: l'assoluta maggioranza delle Procure sono gravate da un carico di lavoro in tema di maltrattamenti, atti persecutori, lesioni “intrafamiliari” violenze sessuali e abusi su minori elevatissimo, spesso già ora tale da impegnare incessantemente un elevato numero di sostituti. Rileva, in questo senso, la tipologia di impegno richiesto: il P.M. deve esaminare in un breve arco temporale tutte le notizie di reato, assicurare l'impulso alle indagini, chiedere e gestire incidenti probatori, occuparsi delle richiese di misure cautelari e soprattutto partecipare ai dibattimenti (che spesso non sono brevi: anche un “normale” maltrattamento può richiedere due udienze per tutto l'intera procedura). Il P.M. deve, pertanto, dividere il suo tempo fra le attività di indagini, la predisposizione delle richieste di misure e la partecipazione alle udienze preliminare e dibattimentali. 

Per tale ragione, sono stati delineati, dopo anni di esperienza, modelli organizzativi in base ai quali dopo la presentazione delle querela/denuncia la p.o. viene immediatamente sentita a fondo dalla P.G. specializzata, su delega del P.M., per chiarire tutti gli aspetti della vicenda, di modo che il P.M. sia in grado di valutare in tempi brevissimi la necessità di richiedere una misura cautelare o di disporre gli atti di indagini integrativi necessari per una valutazione sul punto. Significativi investimenti sono stati effettuati sulla formazione della P.G.: un verbale completo sul piano formale e sostanziale può richiedere ore di lavoro. Non solo, nei casi nei quali in una serie di ipotesi, la p.o. non viene sentita nei termini di legge, tale scelta fa seguito a un decreto motivato: si pensi al caso della persona offesa minorenne, per la quale si cerca di disporre un'assunzione da opera di P.G. specificamente formata e con l'assistenza di psicologi, oppure ai casi nei quali vi sia esigenza di disporre atti a sorpresa o laddove la persona offesa non sa più reperibile

Il sistema si regge su questa divisione del lavoro: se il P.M. dovesse provvedere personalmente a sentire tutte le p.o. non potrebbe dedicarsi a tutti gli aspetti non delegabili ma indispensabili per predisporre una rapida ed efficace tutela, specie in relazione alla richiesta tempestiva di misura cautelare, la cui redazione di certo non può essere demandata alla P.G.

Un sistema che deve essere valutato non in astratto, quanto considerando la qualità e la quantità del “prodotto finito”, e funzionale a fare in modo che in un tempo breve il materiale probatorio sia sufficiente per la valutazione cautelare e - ovviamente - per successivo sviluppo per l'esercizio dell'azione penale.

Questo è il quadro: se dovesse affermarsi la necessità di una generalizzata diffusione dell'audizione delle p.o. nei tre giorni da parte del pubblico ministero (a parità ovviamente di organico come è prevedibile) gli uffici requirenti non saranno, con elevata verosimiglianza, in grado di adempiere tempestivamente a tali incombenti. Si tratta, semplicemente, di prendere atto che il tempo è limitato e che, conseguentemente, il lavoro deve essere organizzato in modo tale da consentire che nella maggior parte dei procedimenti (anche in quelli nei quali non vi è difensore che tutela specificamene la p.o.: sono molti, ovviamente) ci sia una risposta puntuale a tutte le istanze di giustizia.

Vi sono due ulteriori aspetti da considerare. La P.G. svolge un'attività capillare sul territorio. È in grado di “arrivare” prima alla p.o.; in molti casi, anche solo trasferire la p.o. presso la Procura può determinare un appesantimento delle attività. Non solo: molte persone offese non vogliono essere sentite se l'autore della violenza può venire a conoscenza della denuncia. Solo la P.G. territoriale può organizzare l'audizione organizzando la stessa in termini di “sicurezza” per la vittima del reato, ossia senza che il coniuge/compagno maltrattante sia allertato della denuncia.

Infine, è indispensabile considerare il problema della vittimizzazione secondaria. Se la persona offesa presenta la denuncia e subito dopo viene sentita a sommarie informazioni, su delega del P.M. dal medesimo U.P.G., la reiterazione della narrazione dei fatti- molte volte dolorosa -può essere metabolizzata in termini migliori rispetto alla necessità di ripetere a breve distanza di tempo le stesse circostanze a un soggetto diverso. A volte interviene una sorta di rifiuto e spesso di sofferenza nella reiterazione del racconto: anche in questo senso il sistema attuale fornisce, di fatto, migliori garanzie. La convenzione di Istanbul impone di evitare per quanto possibili il rischio della vittimizzazione secondaria, al quale sino ad oggi in generale si è fatto fronte anche con l'audizione diretta da parte della P.G. che riceve la querela.

Il sistema sopra delineato è possibile non trovi piena e puntuale attuazione ovunque. Questo può essere un problema – spesso legato a criticità contingenti o addirittura strutturali di singoli uffici- ma occorre fare in modo che le prassi virtuose, efficaci e osservanti della legge e del suo spirito che si sono formate- con fatica, ma in termini positivi - siano diffuse ovunque. Questa, in effetti, potrebbe essere una risposta in grado di coniugare le esigenze di tutti.

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