Morte del dipendente Ilva: l’Italia avrebbe dovuto condurre ulteriori indagini

La Redazione
02 Aprile 2025

Secondo la Corte EDU le autorità giudiziarie italiane avrebbero dovuto condurre indagini ulteriori per accertare la sussistenza o meno del nesso causale tra la morte del lavoratore per cancro polmonare e l'attività lavorativa da questi svolta presso uno stabilimento Ilva esposto a sostanze altamente nocive.

La vicenda inizia con la morte di un ex dipendente dell'Ilva, azienda specializzata nella produzione di tubi in ghisa e acciaio, a causa di un tumore ai polmoni nel 2010 e dopo che tra il 1980 e il 2004 era stato sottoposto ad amianto ed altre sostanze inquinanti nello svolgimento della propria attività lavorativa.

Nel 2015 i parenti avevano sporto denuncia per omicidio colposo, ma tanto la querela quanto il successivo gravame erano stati archiviati.

Come riportato da un'analisi condotta da SPESAL (servizio specializzato per la prevenzione e la sicurezza sul lavoro dell'ASL) era impossibile dimostrare la natura professionale del tumore del dipendente, in quanto le aziende coinvolte si erano rifiutate di fornire le informazioni necessarie sulle mansioni da lui svolte e sulle misure di sicurezza adottate, nonostante quanto previsto da d.m. 10 ottobre 2014, che individuava i tumori polmonari tra le patologie per le quali, in caso di esposizione all'amianto, l'origine professionale era considerata altamente probabile.

Oltre all'analisi di SPESAL, i familiari presentavano diversi studi a riprova del fatto che l'esposizione prolungata a tali sostanze avesse determinato un elevato fattore di rischio di contrarre il tumore polmonare e ribadendo l'elevata probabilità di un nesso causale tra l'attività presso lo stabilimento Ilva e i casi di tumore ai polmoni.

Tuttavia, la stessa Cassazione aveva respinto i tentativi di opporsi all'archiviazione, accogliendo la c.d. teoria della dose correlata (Cass. n. 34341/2020) che esclude la punibilità qualora risulti impossibile determinare il momento preciso di induzione della malattia a causa della molteplicità di potenziali responsabili nel periodo di interesse.

Con ricorso n. 30336/2022, i familiari del lavoratore si rivolgevano alla Corte europea dei diritti dell'uomo.

Innanzitutto, la Corte ribadisce come sia dovere di un sistema giudiziario efficace, in casi come quello di specie, fornire ai parenti delle vittime la possibilità di ricorrere al giudice (civile o penale) per l'accertamento di ogni responsabilità, anche in vista di risarcimento. La responsabilità per non aver tutelato il diritto alla vita tramite indagini effettive ed efficaci può essere imputata anche a persone fisiche e giuridiche, oltre che alle autorità interne, per cui avrebbero dovute essere fornite spiegazioni adeguate sull'impossibilità, evidenziata dalla perizia, di fornire i dati necessari a individuare il nesso causale tra attività lavorativa e malattia del lavoratore.

Nel caso di specie è riscontrabile una violazione dell'art. 2 CEDU nella misura in cui le autorità nazionali investigative italiane non hanno compiuto gli sforzi ulteriori necessari per accertare se vi fosse un nesso causale tra la morte del lavoratore e la lunga esposizione a sostanze nocive nel corso della sua attività lavorativa. Vista la rilevanza del caso, le indagini avrebbero dovuto essere dettagliate e scrupolose, mentre l'archiviazione si è basata solo sulla difficoltà di attribuire a ciascun soggetto coinvolto il proprio grado di responsabilità, mancando in questo modo il perseguimento del fine ultimo dell'attività investigativa e giudiziaria.