Giustizia riparativa: le prime risposte della giurisprudenza
09 Aprile 2025
Giustizia riparativa in assenza dei Centri La prassi appare divisa sulla possibilità di avviare la giustizia riparativa anche in assenza dell'istituzione dei Centri previsti dalla riforma “Cartabia”. Al riguardo presso la Corte di Appello di Milano il 1° agosto 2023 è stato sottoscritto uno Schema operativo per la giustizia riparativa e in tale protocollo si stabilisce che i casi possono essere inviati al Centro per la Giustizia riparativa del Comune di Milano in attesa dell'attuazione della ricognizione dei centri esistenti ad opera della Conferenza Locale (art. 92 d.lgs. n. 150/22). Il protocollo in esame stabilisce che il magistrato di sorveglianza possa inviare le parti al Centro per la giustizia riparativa “senza particolari formalità”, e che l'approvazione del programma di trattamento ai sensi dell'art. 69 ord. penit. legittimi l'Ufficio di sorveglianza a trasmettere il fascicolo al Centro per la giustizia riparativa. Tale previsione sembra porsi in contrasto con la ratio sottesa alla disposizione dell'art. 129-bis c.p.p. e foriera di una deriva burocratica che rischia di innescare una “banalizzazione” dei percorsi riparativi, a detrimento non solo della qualità degli esiti ma della credibilità complessiva della nuova disciplina. Essa appare, inoltre, allo stato inattuabile per l'assenza dei Centri per la giustizia riparativa previsti dal d.lgs. n. 150/2022 e dunque, dall'eventuale attività di invio di condannati e internati a istituti che si occupano di mediazione non accreditati non potranno conseguire gli effetti favorevoli previsti dalla riforma. In questo senso, del resto, si esprime la Circolare del Capo Dipartimento della giustizia minorile e di comunità del 7 dicembre 2023 che espressamente vieta agli UEPE ogni coinvolgimento in protocolli o attività che riguardino la giustizia riparativa in assenza del completamento dell'iter di accreditamento dei mediatori esperti e dell'istituzione dei Centri. La giurisprudenza sembra in prevalenza orientarsi per condividere la linea più rigorosa, ritenendo che i programmi di giustizia riparativa cui si riferisce la disposizione normativa citata, introdotta con d.lgs. n. 150/2022, sono quelli organizzati, gestiti ed erogati dai Centri per la giustizia riparativa, strutture pubbliche previste dalla stessa legge 150/2022 e che a tutt'oggi i Centri non sono ancora operativi e pertanto non è possibile disporre alcun invio ai sensi dell'art. 15 ord. penit. e in conformità alla disciplina prevista dalla legge 150 del 2022. Nella fase esecutiva della pena, inoltre, si è ritenuto che «l'invio da parte del Magistrato di Sorveglianza è discrezionale e verrà valutato in relazione alle finalità previste dall'art. 43 comma 2 ord. penit., acquisite opportune informazioni a tempo debito dall'area educativa e, in ogni caso, l'invio sarà ad un Centro accreditato» e che «la richiesta di un percorso di giustizia riparativa non rientra tra i presupposti indefettibili per la concessione dei benefici di legge e il mancato invio, allo stato non possibile per le ragioni esposte, nulla preclude al detenuto in relazione alla possibilità di fruire di eventuali benefici premiali» (Mag. sorv. Padova, decreto dd.05.09.2024). Al di là della valutazione del giudice ex art. 129-bis c.p.p. l'imputato può in ogni caso prendere parte autonomamente ad un programma di giustizia riparativa e può farlo, evidentemente, anche su suggerimento di terzi o del suo difensore, in qualunque fase del processo. Lo stesso giudice, come anche in passato, può quindi suggerire all'imputato di rivolgersi ad uno dei centri per la giustizia riparativa esistenti ed operanti in molte Regioni e può altresì valutare l'eventuale percorso effettuato dall'imputato in precedenza nel determinare l'entità della pena ai sensi dell'art. 133 c.p., sempre che l'affidabilità del Centro glielo consenta. La compatibilità della giustizia riparativa con la fase di esecuzione della pena La Cassazione, con la sentenza 7 novembre 2024, n. 41133, segna un passo falso nel già difficile percorso di attuazione della disciplina organica della giustizia riparativa introdotta con il d.lgs. n. 150/2022. Nell'accogliere il ricorso della parte pubblica avverso la decisione del tribunale di sorveglianza che, riformando la decisione del magistrato monocratico, aveva autorizzato un detenuto, sottoposto allo speciale regime di cui all'art. 41-bis l. n. 354/75, a svolgere colloqui preliminari ad un percorso di giustizia riparativa, la Suprema Corte ha affermato che – alla luce del disposto di cui al comma 2 dell'art. 44, d.lgs. n. 150/2022 (« ai programmi di giustizia riparativa “si può accedere in ogni stato e grado del procedimento penale, nella fase esecutiva della pena e della misura di sicurezza, dopo l'esecuzione delle stesse…») – trovandosi il ricorrente detenuto in esecuzione di pena, « egli non può essere ammesso ad alcun programma di giustizia riparativa sintantoché la pena sarà in esecuzione, indipendentemente dal regime a cui è sottoposto». Benché allo stato attuale l'art. 7 del d.l. n. 92/2024, ha integrato il comma 2-quater dell'art. 41-bis ord. penit. con una lettera f-bis che preclude l'accesso ai programmi di giustizia riparativa ai detenuti sottoposti allo speciale regime detentivo ivi disciplinato, sicché la problematica avrebbe ragione di porsi, semmai, nei termini di una probabilmente fondata questione di legittimità costituzionale della disposizione introdotta dal decreto di urgenza, la richiamata pronuncia enuncia un principio che, se dovesse trovare un effettivo seguito, produrrebbe un impatto fortemente negativo sulla nascente esperienza della giustizia riparativa nel nostro ordinamento. L'interpretazione adottata dai supremi giudici appare, infatti, in contrasto non solo con il tenore letterale del comma 2, art. 44 d.lgs. n. 150/2022 (le virgole presenti nella evocata disposizione non sono state, evidentemente, intese quali segni che scandiscono le singole ipotesi in cui può essere dato accesso ai programmi riparativi), ma è tale da generare, altresì, un'insuperabile aporia all'interno della norma stessa, laddove la sua prima parte consentirebbe, appunto, l'accesso alla GR «in ogni stato e grado del procedimento penale», mentre la seconda ne vieterebbe invece, contraddittoriamente, lo svolgimento nella fase esecutiva per il soggetto detenuto o sottoposto a misura di sicurezza. Al contrario, come emerge anche dalla relazione del Massimario, la norma, nella prospettiva del più ampio accesso alla giustizia ripativa, intende favorire l'accesso alla restorative justice non solo nel corso della fase esecutiva ma anche successivamente alla conclusione della vicenda penale. Le conseguenze più gravi si colgono, tuttavia, sul piano sistematico: a seguire l'interpretazione adottata dalla Cassazione, infatti, si renderebbero prive di senso le disposizioni introdotte dalla riforma Cartabia (art. 78 d.lgs. n. 150/2022) proprio per favorire lo sviluppo della GR nella fase di esecuzione della pena e proprio in favore dei condannati detenuti e internati. A tale convergente obiettivo si rivolgono, infatti, la previsione che nei piani di trattamento dei detenuti vengano favoriti i programmi di giustizia riparativa (art. 13, comma 4, ord. penit.); alla disposizione di nuovo conio (art. 15-bis ord. penit.) espressamente dedicato alla giustizia riparativa nella fase di esecuzione della pena, ove è stabilito che la partecipazione di condannati e internati a programmi di giustizia riparativa e l'eventuale esito riparativo sono valutati ai fini dell'assegnazione al lavoro all'esterno, della concessione di permessi premio e delle misure alternative alla detenzione e della liberazione condizionale nonché alla disposizione in materia di estinzione della pena in esito alla positiva esecuzione dell'affidamento in prova che, ai fini del giudizio conclusivo del tribunale di sorveglianza, consente di valutare anche «lo svolgimento di un programma di giustizia riparativa e l'eventuale esito riparativo» (comma 12, art. 47 ord. penit.) La stessa nuova formulazione dell'art. 4-bis ord. penit., introdotta con il d.l. n. 162/2022, stabilisce che il giudice di sorveglianza accerti tra l'altro, nei confronti dei detenuti o internati per taluno dei delitti, la sussistenza di iniziative del condannato a favore delle vittime, sia nelle forme risarcitorie che in quelle della giustizia riparativa. Tutte disposizioni, quelle appena indicate, che non avrebbero evidentemente alcun senso se si accedesse all'interpretazione adottata dalla sentenza in esame che, ci si augura, non troverà seguiti nella giurisprudenza di legittimità. I parametri di valutazione dell'esito riparativo Particolarmente delicato è il profilo dei criteri da utilizzate nella valutazione dell'esito riparativo, in assenza di parametri normativi oggettivi. Quanto all'esito simbolico l'art. 56 d.lgs. n.150/2022 stabilisce che l'esito simbolico è caratterizzato da “dichiarazioni”, da “scuse formali”, “impegni comportamentali pubblici o rivolti alla comunità”, “accordi relativi alla frequentazione di persone o luoghi”. Quanto all'esito materiale di cui parla l'art. 56 comma 3 del richiamato decreto, esso è costituito da una prestazione, da un “dare”, da un “fare” o da un “non fare”, anziché da un “dire”. È probabile che la prassi si orienterà su un giudizio comparativo che ponderi la gravità dell'offesa rispetto ai risultati riparativi che si sono conseguiti. In tale prospettiva, appare problematico stabilire i termini nei quali la valutazione del giudice sarà vincolata dall'esito riparativo raggiunto e dal contenuto della relazione che i mediatori invieranno all'autorità giudiziaria. In altri termini occorre chiarire il significato da attribuire alla disposizione dell'art. 57 d.lgs. n. 150/2022, ove si stabilisce che, al termine del programma di giustizia riparativa, il Centro invia all'autorità giudiziaria una relazione «contenente la descrizione delle attività svolte e dell'esito riparativo raggiunto». È molto probabile, infatti, che, pur non potendosi ritenere che il giudice sia vincolato a quanto espresso dai mediatori, il parere di tali professionisti non potrà che influenzare significativamente l'orientamento dei giudicanti. In tale prospettiva, si pone la secondaria questione del contenuto della relazione dei mediatori, se cioè debba limitarsi ad una laconica comunicazione dell'esito riparativo raggiunto ovvero se possa/debba contenere ulteriori informazioni sullo sviluppo del percorso riparativo, sulle posizioni espresse dalle parti e sulle modalità con le quali sia stato raggiunto l'accordo. L'autorizzazione del giudice sull'invio delle parti al centro per la giustizia riparativa La Cassazione ha analizzato il contenuto della valutazione del giudice affermando che «l'opzione circa la sollecitazione del procedimento riparativo è dettata da una serie di valutazioni che attengono alla tipologia del reato, ai rapporti tra l'autore e la persona offesa, all'idoneità del percorso riparativo a risolvere le questioni che hanno determinato la commissione del fatto». Nello specifico ambito dell'esecuzione penale, la valutazione del giudice di sorveglianza sulla “utilità per la risoluzione delle questioni derivanti dal fatto” dovrebbe essere intesa alla luce della peculiare fase in cui il magistrato si pronuncia, nel senso di “utilità per la responsabilizzazione del condannato” e il “pericolo per la vittima” dovrebbe essere valutato dal punto di vista essenzialmente cautelare, trattandosi di fase che si colloca post rem iudicatam. Quanto ai profili rilevanti per l'autorizzazione 129-bis c.p.p., i criteri sono tre: utilità della mediazione, pericolo per la prova in dibattimento, pericolo per i diretti interessati. Quest'ultimo è l'aspetto più delicato. L'impressione è che il pericolo sia valutato sotto il profilo “fisico” quindi pericolo a es. di aggressioni, minacce, etc. Il pericolo però dovrebbe invece essere legato anche alla valutazione dei rischi di vittimizzazione secondaria, che può essere generato anche da una situazione di umiliazione, di discomfort che non attinga il livello di sofferenza fisica. Nell'ordinanza sul caso Carol Maltesi, il Tribunale di Busto Arsizio ha autorizzato l'invio al centro di giustizia riparativa, nonostante l'avviso contrario delle parti e tutti gli elementi che avrebbero dovuto indurre a ritenere il pericolo di vittimizzazione. Il giudice di Busto aveva giustificato tale decisione con la considerazione che il figlio di 7 anni della vittima sarebbe stato al riparo da rischi perché si poteva ricorrere alla vittima surrogata. Va tuttavia rilevato che la direttiva europea in materia afferma che il soggetto minore è per definizione un soggetto a rischio di vittimizzazione. Con riguardo all'autorizzazione di cui all'art. 129-bis c.p.p., si pone la questione se l'accesso alla GR costituisca un “diritto” o no e, dunque, se il rifiuto o il mancato pronunciamento del giudice sulla GR incida su una posizione soggettiva qualificabile appunto nei termini di un diritto soggettivo. La Cassazione afferma che non si tratta di un diritto, poiché l'accesso alla GR è normativamente indicato come “facoltà”, non come un “diritto”. Tale configurazione, tuttavia, non implica affatto che non possa configurarsi in capo all'interessato la facoltà di impugnare il provvedimento di diniego dell'invio al centro di giustizia riparativa. La giurisprudenza di legittimità, su tale profilo, ha prodotto un'elaborazione che, pur con successivi passaggi e correzioni di rotta, è giunta ad ammettere l'impugnabilità della decisione di diniego dell'invio delle parti ad un centro per la giustizia riparativa, assunta dal giudice con l'ordinanza pronunciata ai sensi dell'art. 129-bis c.p.p. Si tratta di un profilo cruciale della disciplina processuale che la Corte aveva già affrontato con la sentenza n. 24343 del 20 giugno 2024, con la quale, confermando un indirizzo già avviato con precedenti pronunce (si veda Cass. pen., 14 febbraio 2024, n. 6595), aveva affermato il carattere discrezionale, non gravato da alcun onere motivazionale, della decisione dell'autorità giudiziaria sull'invio della parte a un centro di mediazione (si veda anche Cass. pen., 9 maggio 2023, n.25367), giustificandosi la non impugnabilità del provvedimento con il quale il giudice non accolga l'istanza della parte di invio a un Centro di giustizia riparativa, alla luce della natura non giurisdizionale della giustizia riparativa e, dunque, della non operatività della garanzia di cui all'art. 111, comma 7, Cost. Per tale primo indirizzo, pertanto, sarebbe inammissibile il ricorso per cassazione avverso il provvedimento di cui all'art. 129-bis c.p.p., considerato che lo stesso non avrebbe natura giurisdizionale (Cass. pen., sez. II, 7 novembre 2024, n. 46018; Cass. pen., sez. III, 4 giugno 2024, n. 24343; Cass. pen., sez. II, 12 dicembre 2023, n. 6595). Tuttavia, già con la sentenza n. 33152 del 7 giugno 2024, la Cassazione aveva operato un primo revirement, confermando il divieto di autonoma impugnazione dell'ordinanza di cui all'art. 129-bis c.p.p. in forza del principio della tassatività dei mezzi di impugnazione (art. 586 c.p.p.) e dell'estraneità della stessa alla materia della libertà personale (art. 111 Cost.), ma ammettendo – nei soli procedimenti relativi a reati procedibili a querela suscettibile di rimessione - l'impugnazione differita del provvedimento unitamente alla sentenza che definisce il grado di giudizio. La pronuncia ammette l'impugnazione, ai sensi dell'art. 586, comma 1, c.p.p., dell'ordinanza con la quale viene respinta l'istanza ex art. 129-bis c.p.p.«emessa durante il compimento degli atti preliminari o nel corso del dibattimento (ovvero nel corso del giudizio di appello)». Questo, tuttavia, purché «la richiesta risulti avanzata dall'imputato e riguardi reati procedibili a querela suscettibile di remissione, trattandosi del solo caso in cui il suo eventuale accoglimento determina la sospensione del processo». Con la sentenza 26 novembre 2024, dep. 3 gennaio 2025, n. 131/2025, la Corte amplia ulteriormente tale orizzonte interpretativo, individuando nell'ordinanza pronunciata ex art. 129-bis c.p.p. un atto endoprocedimentale adottato nelle forme tipiche del processo penale (art. 125 c.p.p.), nei cui confronti deve, pertanto, ammettersi la facoltà di impugnativa, alla luce delle importanti ricadute sul piano del trattamento sanzionatorio e nella fase esecutiva generate dalla giustizia riparativa, ricordando che la giustiziabilità dei provvedimenti in materia di restorative justice è prevista anche dalla Raccomandazione del Consiglio d'Europa del 2018. Per tale orientamento, dunque, è ricorribile per cassazione, unitamente alla sentenza che definisce il grado di giudizio ai sensi dell'art. 586 c.p.p., «l'ordinanza reiettiva della richiesta di accesso ai programmi di giustizia riparativa pronunciata dal giudice su istanza dell'imputato, senza alcuna distinzione tra reati procedibili a querela suscettibile di remissione e reati procedibili d'ufficio». L'importante principio così affermato viene esteso dalla sentenza 131/2025 in rassegna alle ordinanze con cui il giudice nega l'invio ai programmi di giustizia riparativa anche nel caso si proceda per reati diversi da quelli rimettibili a querela, alla luce della ricordata fonte europea, che non opera distinzioni tipologiche, e del disposto dell'art. 44 d.lgs. n. 150/2022 che, parimenti, non contiene alcuna preclusione con riferimento alle fattispecie di reato, con l'importante differenza che – nell'ipotesi di reati diversi da quelli perseguibili a querela rimettibile - l'istanza non sospende il processo e rinvenendo la ragione di una siffatta distinzione nel fatto che, nei reati procedibili a querela rimettibile, l'esito riparativo estingue il reato, così che il tempo di sospensione ex lege del procedimento è “compensato” dall'effetto deflativo connesso alla anticipata definizione del processo, in linea con le esigenze di ragionevole durata del processo. Non vi sono, in definitiva, motivi per escludere dall'operatività della previsione generale di cui all'art. 586 c.p.p. l'ordinanza pronunciata nel contesto dibattimentale (o in limine allo stesso) in merito alla richiesta di invio al centro per la giustizia riparativa. Ritiene, infatti, la Cassazione che «escludere la impugnazione differita dell'ordinanza in esame ai sensi dell'art. 586 c.p.p. si tradurrebbe nella assenza di confronto con i principi che disciplinano il sistema processuale, ma anche con le ulteriori indicazioni legislative che collegano significative ricadute di natura sostanziale all'accesso ai programmi di giustizia riparativa». Con una recente decisione, infine (Cass. pen., sez. V, ud. 28 marzo 2025, Pres. Pistorelli, Rel. Francolini - notizia di decisione), la quinta Sezione della Cassazione, chiamata a pronunciarsi sulla questione «se, per quali motivi e in quali ipotesi sia ricorribile per cassazione il provvedimento con cui il giudice del merito rigetta la richiesta di invio al centro per la giustizia riparativa di riferimento per l'avvio di un programma di giustizia riparativa ai sensi dell'art. 129-bis c.p.p.», ha ritenuto di rimettere la questione alle Sezioni unite. In attesa del pronunciamento della Corte riunita, resta il dubbio, sul piano applicativo, delle modalità con cui possa esercitarsi tale facoltà di impugnazione nella fase dell'esecuzione della pena. Una prima soluzione era stata affacciata con l'ordinanza del Tribunale di Sorveglianza di Lecce del 30 novembre 2023 (dep.12 dicembre 2023), che aveva ritenuto applicabile, alla fattispecie in esame, la disposizione dell'art. 35-bis ord. penit. A tale soluzione pare, tuttavia, frapporsi il dato testuale per cui lo strumento dell'art. 35- ord. penit. è applicabile nei confronti della lesione di “diritti” nascenti dalla legge di ordinamento penitenziario o del regolamento di esecuzione, mentre la GR non è costruita come un diritto bensì come una facoltà. Un'ipotesi alternativa potrebbe guardare al modello di cui all'art. 69-bis ord. penit., che è il modello processuale utilizzato per veicolare l'impugnazione delle decisioni del magistrato di sorveglianza (in questo caso si tratterebbe del diniego di autorizzazione all'invio delle parti alla GR) al tribunale di sorveglianza. Giustizia riparativa e attenuanti nel processo di merito Le prime applicazioni della GR nel processo di merito fanno registrare alcune aperture nella concessione della nuova circostanza attenuante di cui all'art. 62, n. 6, ultima parte, inserita dalla riforma “Cartabia” (d.lgs. n. 150/2022) in relazione alla partecipazione a programmi di giustizia riparativa con la vittima del reato, conclusisi con esito riparativo. La nuova attenuante comune, applicabile a qualsiasi figura di reato, presuppone «l'avere partecipato a un programma di giustizia riparativa con la vittima del reato, conclusosi con un esito riparativo. Qualora l'esito riparativo comporti l'assunzione da parte dell'imputato di impegni comportamentali, la circostanza è valutata solo quando gli impegni sono stati rispettati». Deve rilevarsi che la concessione di tale attenuante è avvenuta all'esito di un percorso di GR attivato non già presso un Centro per la giustizia riparativa accreditato ai sensi del d.lgs. n. 150/2022, bensì presso il Centro per la Giustizia Riparativa del Comune di Milano (G.u.p. Milano, sent. 25.03.2024, che ha riconosciuto la detta attenuante nei confronti di imputati per delitti di pornografia minorile e di corruzione di minorenne). Inoltre, il programma riparativo non è consistito in una mediazione con la persona offesa, per il rifiuto opposto da quest'ultima, bensì in un'attività riparativa indiretta realizzata dagli autori con l'assistenza dei mediatori che – alla luce della relazione finale – ha fatto ritenere che fosse stato raggiunto l'obiettivo della responsabilizzazione delle persone indicate come autori dell'offesa e il riconoscimento della vittima, così come previsto dall'art. 42 del d.lgs. n. 150/2022, realizzando un esito riparativo simbolico. Giustizia riparativa e riforma dell'accesso ai benefici penitenziari dei condannati per taluni delitti “ostativi” Nel quadro delle prime applicazioni della giustizia riparativa, si collocano anche le prime decisioni assunte dalla magistratura di sorveglianza nella fase dell'esecuzione penale. Si riportano, per comodità del Lettore, le osservazioni già svolte in un precedente contributo [Fiorentin F., Giustizia riparativa nella fase esecutiva della pena, in IUS Penale 20 Novembre 2024]. Una delle questioni affrontate riguarda il rapporto tra la giustizia riparativa e la disciplina di accesso ai benefici penitenziari dei condannati per i particolari delitti “ostativi” indicati nell'art. 4-bis ord. penit., anche in assenza di positiva collaborazione con la giustizia ai sensi dell'art. 58-ter ord. penit., come da ultimo modificata dal d.l. 31 ottobre 2022, n. 162, conv. con mod., dalla l. 30 dicembre 2022, n. 199. Il rapporto tra le due fonti non è, infatti, privo di tensioni. La più delicata questione attiene al problema interpretativo concernente l'obbligatorietà, o no, dell'attività riparativa da parte dell'autore del reato ai fini dell'accesso ai benefici penitenziari. I commi 1-bis e 1-bis.1. dell'art. 4-bis ord. penit., come novellato dall'evocato d.l. n. 162/2022 stabiliscono, infatti, che, ai fini della concessione dei benefici penitenziari ai condannati per particolari delitti, anche in assenza di collaborazione con la giustizia ai sensi dell'articolo 58-ter ord. penit. il giudice «accerta altresì la sussistenza di iniziative dell'interessato a favore delle vittime, sia nelle forme risarcitorie che in quelle della giustizia riparativa». Il dubbio ermeneutico riguarda, precisamente, la natura di tale previsione: se essa, cioè, introduca un vero e proprio requisito di ammissibilità dell'istanza di accesso ai benefici penitenziari ovvero costituisca un mero elemento di valutazione in ordine alla meritevolezza del soggetto. Occorre, in altri termini, chiedersi se la giustizia riparativa possa configurarsi nei termini di onere per il condannato non collaborante, che qualora non assolto, determini la preclusione dell'accesso ai benefici penitenziari. La questione nasce dalla ambigua formulazione della richiamata disposizione degli evocati commi 1-bis e 1-bis.1. dell'art. 4-bis ord. penit., che, delineando le condizioni di accesso ai benefici penitenziari menziona non più solo elementi che attengono al piano dell'ammissibilità della domanda ma anche fattori che rilevano sul piano della meritevolezza (in particolare, la revisione critica e, appunto, l'atteggiamento nei confronti delle possibili azioni di riparazione), con conseguente rischio di sovrapposizione e confusione tra i correlati momenti valutativi. È fuor di dubbio che al profilo della riparazione deve essere data particolare attenzione e il giusto rilievo, soprattutto nel caso dei delitti di mafia, alla luce della precisa indicazione della direttiva 2012/29/UE che, all'art. 22, comma 3, prescrive — in materia di tutela della vittima — che debba essere rivolta particolare attenzione « alle vittime che hanno subito un notevole danno a motivo della gravità del reato, alle vittime di reati motivati da pregiudizio o discriminazione che potrebbero essere correlati in particolare alle loro caratteristiche personali, alle vittime che si trovano particolarmente esposte per la loro relazione e dipendenza nei confronti dell'autore del reato. In tal senso, sono oggetto di debita considerazione le vittime del terrorismo, della criminalità organizzata, della tratta di esseri umani, della violenza di genere, della violenza nelle relazioni strette, della violenza o dello sfruttamento sessuale o dei reati basati sull'odio e le vittime con disabilità». Tuttavia, secondo un'opinione, «pare comunque opportuno, se non necessario, considerare queste iniziative [riparative, n.d.R.] come fattori meramente eventuali, valutabili solo se presenti, a meno di non voler ignorare il fondamento di qualsiasi percorso riparativo che consiste nel libero consenso dei soggetti coinvolti» (Moro). Nella stessa prospettiva si pone chi osserva che la nuova disciplina prevede che «il giudice tenga conto anche di eventuali iniziative, di tipo risarcitorio o riparativo, assunte dal detenuto a favore delle vittime dei reati ostativi» (Metrangolo). Altra autorevole posizione pone, invece, la questione in termini problematici, non ravvisando allo stato elementi decisivi per propendere per l'una o l'altra soluzione interpretativa (Ricci). Certamente, il tenore letterale della disposizione e la collocazione della disposizione insieme ai requisiti di ammissibilità della domanda costituiscono elementi ermeneutici che indurrebbero a ritenere le iniziative di giustizia riparativa comprese nel contenuto essenziale dell'istanza che il condannato o l'internato formula per la concessione di un beneficio penitenziario. In concreto, è comunque sufficiente, come precisa il disposto normativo, che si tratti, appunto, di “iniziative” dell'interessato, non essendo richiesto che il percorso si concretizzi effettivamente in un percorso riparativo (la vittima, infatti, potrebbe opporre il proprio legittimo rifiuto) né — a maggior ragione — che vi sia un esito riparativo. Una tale soluzione interpretativa non appare in contrasto con le fonti internazionali che, infatti, escludono effetti negativi derivanti dal mancato avvio ovvero dal mancato esito di un programma di giustizia riparativa. Inoltre, come ha bene chiarito la dottrina, ai fini delle iniziative di GR non è richiesta la spontaneità del consenso, bensì la mera volontarietà del medesimo, che non potrebbe ritenersi esclusa nella fattispecie in esame (è, invero, volontaria anche un'iniziativa riparativa mossa dalla prospettiva di un'utilità processuale). Una lettura sistematica, che tenga conto della disciplina introdotta con la riforma “Cartabia” e con i suoi principi (artt. 42 e ss., d.lgs. n. 150/2022), potrebbe, invece, avvalorare la collocazione delle iniziative riparative da parte condannato — non importa quanto spontanee purché volontarie — nel novero di quegli indici di meritevolezza che, qualora sussistenti, sono valutati in favore dell'interessato ma che, se non sussistenti, non possono giustificare di per sé una decisione sfavorevole all'interessato, analogamente a quanto dispone, in tema di accesso alle misure alternative, la disciplina generale della legge di ordinamento penitenziario. Secondo tale prospettiva, l'accertamento del giudice dovrebbe riguardare l'atteggiamento del condannato, sotto il profilo del suo interesse a svolgere un programma riparativo e la verifica che egli abbia effettivamente svolto quella “riflessione” sulle conseguenze prodotte “in particolare per la vittima” e “sulle possibili azioni di riparazione” prevista dalla legge penitenziaria (art. 13, comma 3, ord. penit.). La scelta tra l'una o l'altra delle soluzioni interpretative sopra delineate può essere più agevole qualora si guardi alla ratio della disposizione in analisi. Quest'ultima, infatti, è stata introdotta anche in seguito ad una proposta della Fondazione Falcone intesa a tutelare le ragioni delle vittime di mafia a vedersi riconosciuta la propria dignità di fronte a condannati per delitti di matrice mafiosa, che spesso negano l'esistenza stessa del fenomeno criminale mafioso dicendosi criminali comuni, così operando una ulteriore vittimizzazione delle persone colpite dalle conseguenze dei gravi delitti da loro commessi. Per gli autori di reati connessi al fenomeno mafioso si pone, dunque, con maggiore rilevanza, l'esigenza che la persona condannata pervenga al riconoscimento dei “fatti essenziali” della vicenda criminale sotto il profilo della materialità e della natura “mafiosa” del reato commesso, delle conseguenze prodotte nei confronti delle vittime e del proprio coinvolgimento nella vicenda. La dizione normativa, riferendosi a “iniziative” del condannato nella prospettiva della giustizia riparativa, consente di esigere certamente dal condannato uno sforzo in direzione della vittima, anche se non necessariamente un risultato riparativo, così rispondendo pienamente ai principi generali dettati dal d.lgs. n. 150/2022 in materia di giustizia riparativa. Alla luce della ratio della disciplina in esame deve, in definitiva, ritenersi che tale elemento connesso al “riconoscimento” della vittima quale “vittima di mafia” debba pur sempre rappresentare una parte indefettibile del percorso di recupero sociale connotato dalla fruizione dei benefici penitenziari extramurari, così da consentire che la risocializzazione del condannato non rappresenti per la vittima non riconosciuta una vittimizzazione secondaria. In senso contrario si è pronunciato qualche magistrato di sorveglianza, assumendo che «la stessa formulazione letterale della disposizione consenta di escludere la natura del requisito come presupposto per la concessione del beneficio, interpretazione questa che porterebbe necessariamente a dubitare della legittimità costituzionale della normativa alla luce dei principi europei e internazionali della materia come del resto recepiti nella disciplina organica di cui alla legge n. 150 del 2022» (Mag. Sorv. Padova, decreto dd.13.09.2024). Secondo il magistrato padovano, ad interpretare la sussistenza di iniziative di giustizia riparativa quale presupposto indefettibile della fattispecie «si verrebbe a snaturare la giustizia riparativa, che si fonda sul “… partecipare liberamente, in modo consensuale attivo e volontario, alla risoluzione delle questioni derivanti dal reato” (art. 42 lett. a legge n. 150/2022), e sul presupposto che “l'autorità giudiziaria, per le determinazioni di competenza, valuta lo svolgimento del programma, anche ai fini di cui all'articolo 133 del codice penale, l'eventuale esito riparativo. In ogni caso, la mancata effettuazione del programma, l'interruzione dello stesso o il mancato raggiungimento dell'esito riparativo non producono effetti sfavorevoli nei confronti della persona indicata come autore dell'offesa” (art. 58 comma 2): E' di tutta evidenza che interpretare l'iniziativa di giustizia riparativa come passaggio obbligato per accedere ai benefici significa trasformarla in un obbligo, in contrasto con il principio del consenso e della volontarietà se non un onere, con conseguenze negative in caso di mancato assolvimento». Aggiunge la richiamata decisione che «se la disciplina organica dell'art. 4-bis, nella parte dedicata ai reati di prima fascia, è tesa a porre limiti e condizioni di accesso ai benefici, la cui essenza va ravvisata nella forza dimostrativa dell'avvenuta rescissione del vincolo associativo, allora l'inserimento tra tali limiti e condizioni di un elemento (percorso di giustizia riparativa) che poco o nulla può indicare su tale avvenuta rescissione appare operazione interpretativa di dubbia percorribilità», concludendo «che, anche in un'ottica di preferire una interpretazione costituzionalmente orientata, l'iniziativa di giustizia riparativa possa e debba essere considerata semplicemente come un elemento che arricchisce la valutazione sulla fondatezza della richiesta del detenuto». In conclusione Il panorama della prima giurisprudenza formatasi in materia di giustizia riparativa restituisce l'impressione di un quadro tuttora frastagliato e non univoco. Alcune linee di tendenza sembrano tuttavia gradualmente emergere: in primo luogo la tendenza ad assimilare le procedure restorative alla sfera del processo penale, applicando ad esse istituti e garanzie propri di quest'ultimo, con il riconoscimento del diritto all'impugnazione dei provvedimenti emessi dal giudice ai sensi dell'art. 129-bis c.p.p.; si registrano, inoltre, aperture nella direzione della concessione dell'attenuante di cui all'art. 62, n.6 c.p. in relazione a percorsi riparativi effettuati presso Centri non ancora accreditati. Per converso, sembrano invece emergere tendenze alla svalutazione della GR che, soprattutto con riferimento alla fase dell'esecuzione penale, resta confinata ad un elemento ancillare e poco pregnante forse espressione di quell'alone di diffidenza che tuttora circonda la restorative justice, per il paventato rischio che le ragioni della vittima possano incidere su quelle del recupero sociale del condannato. Riferimenti
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