Il principio della bigenitorialità ed il criterio dell’accesso. Questioni dibattute
Stefano Celentano
14 Aprile 2025
Il principio di bigenitorialità, per come ampiamente elaborato e riempito di contenuti concreti dalla elaborazione giurisprudenziale, rappresenta al tempo stesso un obiettivo, un metodo di organizzazione delle relazioni familiari ed un criterio di riscontro della capacità genitoriale. La sua applicazione peculiare, costituita dal dovere di ogni adulto di consentire l’agevole e paritario accesso dell’altro genitore alla vita del figlio, rappresenta un dovere di promozione relazionale su cui più volte la giurisprudenza si è soffermata, ribadendone la piena corrispondenza all’interesse del minore.
Premessa
Uno sguardo critico e consapevole sulle dinamiche della giurisdizione nella materia della famiglia, non può che registrare le tracce di una singolare anomalia, rappresentata talvolta da un non completo confronto con la giurisprudenza di legittimità da parte del giudice di merito; tale anomalia, che non ha comunque dimensioni di particolare rilievo pur essendo diffusa, si inserisce nella patologica tendenza a quel graduale fenomeno di “deprocessualizzazione” della intera materia come il più deleterio degli effetti conseguenti all’entrata in vigore della c.d. Riforma Cartabia, alla filosofia della “sommarietà” che molti giuristi le hanno riconosciuto, e a quell’ approccio falsamente risolutivo che si vuole attribuire al processo, rispetto a quello regolativo che gli è proprio. E così, l’approccio degli operatori del settore (avvocati e magistrati) diventa gradualmente quello di cercare soluzioni, spesso affidate al buon senso o a una lettura della contingenza su cui confluiscono modelli personali di interpretazione delle dinamiche familiari, e non quello di regolare invece le situazioni, di disegnare architetture e paradigmi sulla base dei principi, confrontandosi con la giurisprudenza di legittimità e sovranazionale. Tale anomalia di questa materia rispetto al’ampio ed eterogeneo contenzioso civile, non rappresenta un vantaggio perché contribuisce a degiurisdizionalizzarla e a farne terreno di arbitrio interpretativo e di scontro. Le soluzioni che si affidano alla eccessiva elasticità interpretativa nell’ottica esclusiva della risoluzione pro futuro, diventano terreno fertile per gli scontri e per una dinamica processuale e decisionale che da fluida (come è giusto che sia) diventa invece artigianale ed informe. A tale tendenza non risulta immune l’interpretazione e l’applicazione pratica, nel quotidiano delle questioni dibattute dinanzi ai giudici di prima istanza, anche dei macroprincipi del diritto di famiglia, primo fra tutti il principio della bigenitorialità.
L'inquadramento normativo
La l. n. 54/2006, entrata in vigore dal 16 marzo 2006, ha introdotto rilevanti novità rispetto alla precedente disciplina. Si tratta della riforma più importante del diritto di famiglia dopo quella del 1975, poiché con essa si è introdotto il principio della “bigenitorialità”, che costituisce – come noto sulla base della esatta cognizione della sua portata sostanziale - un diritto naturale del figlio ad avere rapporti continuativi con entrambi i genitori. La disciplina relativa all'affidamento condiviso – divenuto regime generale di applicazione, derogabile solo in presenza di valide giustificazioni - prevede il diritto del figlio, anche in caso di separazione personale dei genitori, a mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno di essi, di ricevere cura, educazione e istruzione da entrambi e di conservare rapporti significativi con gli ascendenti ed i parenti di ciascun ramo genitoriale. I livelli di garanzia offerti dal regime dell'affidamento condiviso rispetto al macroprincipio della bigenitorialità operano dunque in 3 direttrici: a) il rapporto equilibrato e continuativo con ognuno dei due adulti; b) il ruolo paritetico di entrambi nella cura, educazione ed istruzione; c) l' integrazione nella famiglia dei due nuclei di provenienza genitoriale, laddove il concetto di “integrazione” negli eterogenei legami familiari connessi alla fase dello sviluppo del minore, è il più importante e proficuo dei paradigmi relazionali. Il principio della bigenitorialità, monitorato nella sua concreta applicazione dalla preferenza del legislatore accordata al regime dell'affidamento condiviso, trova ulteriori forme di validazione nell'art. 30, comma 1 Cost., secondo cui: “È dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori dal matrimonio”, dovendosi tale principio accordare a qualsiasi forma di genitorialità, a seguito della entrata in vigore della l. 10 dicembre 2012 n. 219, che ha introdotto, come noto, lo status unitario di figlio (concetto a cui, specularmente, pare dunque corrispondere quello di status unitario di genitore); analoga conferma della valenza normativa del principio in parola è data dalla disciplina di cui all'art. 337-ter c.c.., secondo cui il figlio «ha diritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori» e il giudice deve valutare «prioritariamente la possibilità che i figli minori restino affidati a entrambi i genitori», nonché da quella ex art. 337-quater c.c., che stabilisce che: «il genitore cui sono affidati i figli in via esclusiva, salva diversa disposizione del giudice, ha l'esercizio esclusivo della responsabilità genitoriale su di essi, egli deve attenersi alle condizioni determinate dal giudice. Salvo che non sia diversamente stabilito, le decisioni di maggiore interesse per i figli sono adottate da entrambi i genitori. Il genitore cui i figli non sono affidati ha il diritto ed il dovere di vigilare sulla loro istruzione ed educazione e può ricorrere al giudice quando ritenga che non siano state assunte decisioni pregiudizievoli per il loro interesse».
Trattasi, dunque, di un sistema normativo ordinato e chiaro, che fa di un principio – la bigenitorialità – un paradigma preferenziale, se non una regola difficilmente derogabile se non in casi eccezionali, rispetto a scelte che privilegino una asimmetria tra i due adulti nella relazione con il minore e nel concreto esercizio della responsabilità genitoriale, opzioni che pertanto devono rimanere praticabili solo in una sorta di “seconda linea”, e in presenza di valide, concrete ed espresse giustificazioni da valutare con estremo rigore. Solo per inciso, e poiché di assoluta pertinenza al tema in dibattito, occorre ricordare l'estrema valenza del principio del rispetto della bigenitorialità, per come ben sancito in modo inequivoco dalla giurisprudenza nazionale, che ha più volte affermato che «va assicurato il rispetto del principio della bigenitorialità, da intendersi quale presenza comune dei genitori nella vita del figlio, idonea a garantirgli una stabile consuetudine di vita e salde relazioni affettive con entrambi, nel dovere dei primi di cooperare nell'assistenza, educazione ed istruzione» (Cass. n. 9764/2019). Così come va ricordato che la giurisprudenza sovranazionale ha poi ulteriormente accentuato la valenza generale e preponderante del principio in esame. La Corte EDU, chiamata a pronunciarsi sul rispetto della vita familiare di cui all'art. 8 CEDU, pur riconoscendo all'autorità giudiziaria ampia libertà in materia di diritto di affidamento di un figlio di età minore, ci ricorda che bisogna operare un rigoroso controllo sulle "restrizioni supplementari", ovvero su quelle apportate dalle autorità al diritto di visita dei genitori, e sulle garanzie giuridiche destinate ad assicurare la protezione effettiva del diritto dei genitori e dei figli al rispetto della loro vita familiare, di cui all'art. 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo, onde scongiurare il rischio di troncare le relazioni familiari tra un figlio in tenera età ed uno dei genitori (Corte EDU, 9 febbraio 2017, Solarino c. Italia). La Corte, dunque, ha invitato più volte le Autorità nazionali ad adottare tutte le misure atte a mantenere i legami tra il genitore e i figli, affermando che "per un genitore e suo figlio, stare insieme costituisce un elemento fondamentale della vita familiare" (Kutzner c. Germania, n. 46544/99, CEDU 2002) e che "le misure interne che lo impediscono costituiscono una ingerenza nel diritto protetto dall'art. 8 della Convenzione" (K. E T. c. Finlandia, n. 25702/94, CEDU 2001). Sul punto, fondamentale è un passaggio secondo cui la Corte ha precisato che, “in un quadro di osservanza della frequentazione tra genitore e figlio, gli obblighi positivi da adottarsi dalle autorità degli Stati nazionali, per garantire effettività della vita privata o familiare nei termini di cui all'art. 8 della Convenzione EDU, non si limitano al controllo che il bambino possa incontrare il proprio genitore o avere contatti con lui, ma includono l'insieme delle misure preparatorie che, non automatiche e stereotipate, permettono di raggiungere questo risultato, nella preliminare esigenza che le misure deputate a ravvicinare il genitore al figlio rispondano a rapida attuazione, perché il trascorrere del tempo può avere delle conseguenze irrimediabili sulle relazioni tra il fanciullo e quello dei genitori che non vive con lui”(Corte EDU, 29 gennaio 2013, Lombardo c. Italia). E poi, occorre ricordare le acute osservazioni del Giudice nazionale (Cass. ord. 25339/2021), il quale - intervenendo proprio sul dibattito spesso enfatizzato nell'opinione pubblica sulla valenza o meno delle condotte manipolanti e della loro ascrivibilità all'ampio tema della sindrome di alienazione parentale - ha chiarito che è questione di marginale rilievo l'approfondimento della fondatezza scientifica o meno della PAS poiché ciò che è rilevante per il giudice, nell'esame delle dinamiche relazionali all'interno della famiglia, è la verifica delle condotte attive (e negative) che producono estraneazione o ingiustificato allontanamento del minore dall'altro genitore, atteso che questo dato oggettivo è un dato sufficientemente pregiudizievole su cui è fatto obbligo al giudice di valutarne gli estremi, essendo tale comportamento di per sé un danno per il minore, e come tale sempre censurabile, poiché lesivo della bigenitorialità, principio a presidio primario del suo interesse. Volendo dunque fornire al macroprincipio della bigenitorialità un concreto valore nella architettura delle relazioni tra minore e adulto, si può dunque conclusivamente affermare che esso opera su 3 livelli: è principio, nonché ratio legis, anche dell'affido condiviso, che è rivoluzione culturale e di civiltà giuridica e relazionale; è metodo, perché rappresenta il paradigma su cui parametrare l'architettura dei provvedimenti inerenti l'esercizio della responsabilità genitoriale, e di quelli a tutela delle condotte patologiche rispetto al suo rispetto; è criterio di valutazione delle condotte dell'adulto rispetto al patrimonio di concetti e all'insieme dei comportamenti concreti su cui viene osservata, valutata e monitorata la capacità genitoriale, concetto oggi normato dall'art. 473-bis.25 c.p.c., a cui va assicurato un contenuto, apparendo come un largo contenitore da riempire in relazione a specifiche funzioni genitoriali.
La giurisprudenza sulla applicazione pratica della bigenitorialità
In un sintetico sguardo di insieme, e prima di affrontare la questione più pregnante dell'accesso genitoriale, è utile ripercorrere, seppure in estrema sintesi, lo stato dell'arte della giurisprudenza di legittimità in relazione ad alcune singole questioni, estrapolate nella ampia casistica maggiormente ricorrente nelle decisioni di merito, che attengono alla concreta applicazione del principio della bigenitorialità, utilizzato proprio come criterio di valutazione e decisione.
La prima delle questioni, sicuramente molto ricorrente, è quella relativa alla conflittualità estrema tra i due genitori, talvolta prospettata come fondamento in fatto a giustificazione di una necessaria deroga al regime di affido condiviso. Sul punto, la giurisprudenza è oscillante: si registrano pronunce contrarie alla deroga anche in astratto (Cass. n. 21591/12) e pronunce invece favorevoli (Cass. n. 12308/2010 - Cass. n. 17191/2011); va tuttavia evidenziato che, laddove la giurisprudenza legittimi la deroga all'affido condiviso per ragioni che risiedano nella conflittualità tra i due adulti, richiede che tale conflittualità sia cronica, consolidata, irreversibile, e ben osservabile poiché estrinsecata con modalità accentuate e manifeste. Sotto tale aspetto, più recenti pronunce hanno infatti chiarito che la mera conflittualità non preclude il ricorso al regime preferenziale dell'affidamento condiviso dei figli, ove si mantenga nei limiti di un “tollerabile disagio per la prole”, mentre può assumere connotati ostativi alla relativa applicazione, ove si esprima in forme atte ad alterare e a porre in serio pericolo l'equilibrio e lo sviluppo psicofisico dei figli, e dunque tali da pregiudicare il loro interesse (Cass. n. 31571/2024; Cass. n. 6535/2019). Va altresì evidenziato, quale considerazione di merito, che il tema della conflittualità è particolarmente scivoloso, perché spesso lo si applica in modo automatico, dando quasi un rapido e defaticante giudizio di pari e spalmata responsabilità di entrambi gli adulti nella esasperazione del conflitto. Un buon processo invece chiarisce le cause del conflitto, e ne pesa il singolo contributo dei due adulti, provvedendo di conseguenza su tutto ciò che riguarda la responsabilità genitoriale, perché alimentare il conflitto o non saperlo gestire se non in modo di incentivarlo e cronicizzarlo, può essere indice di manifesta incapacità genitoriale, e come tale può essere valutato.
Altra frequente questione è quella relativa al cambio di residenza del minore, connesso alla richiesta in tal senso formulata dal genitore presso il quale ha domicilio prevalente. La giurisprudenza ci ricorda che il trasferimento – in quanto oggettivamente lesivo dei tempi di frequentazione con l'altro genitore che rimarrà lontano dal minore - può giustificarsi solo ove sia necessitato da ragioni di lavoro connesse quindi al mantenimento del minore (Cass. n. 4796/2022 – n. 9633/2015). Da qui, l'importanza e la necessità di vagliare al meglio la situazione concreta e le esigenze prospettate, perché il diritto del minore (e del genitore non collocatario) a godere di una relazione caratterizzata da modalità e tempi adeguati è fortissimo e, per essere sacrificato, va controbilanciato in modo altrettanto rilevante. Occorrerà dunque operare, da parte del giudice di merito, una attività istruttoria per accertare, in capo al soggetto che richiede la autorizzazione a trasferirsi con il minore, le eventuali occasioni di lavoro rinunciate nel luogo dell'attuale domicilio, le situazioni reali e concrete di inserimento lavorativo nel luogo in cui intenda trasferirsi, e dunque le proposte concrete già ricevute, nonché le garanzie offerte rispetto alla frequentazione con l'altro adulto, che dovranno essere attentamente valutate, al fine di predisporre un regime di incontri periodici, con preferenziale divisione tra i due adulti dei costi per gli spostamenti. È circostanza ovvia quella per cui, nel rispetto del principio della bigenitorialità, il trasferimento unilaterale, non concordato e non autorizzato va invece sempre censurato, perché è sintomatico di un'idea proprietaria del minore, del tutto lesiva della bigenitorialità, oltreché sintomatica di una percezione disfunzionale del proprio ruolo genitoriale.
Questione meno dibattuta è invece quella relativa al tema del disinteresse dell'adulto rispetto a qualsiasi dinamica ed esigenza di vita del minore. Sotto tale aspetto, deve segnalarsi che la giurisprudenza ha da sempre chiarito – ed in ultimo lo ha ribadito con la pronuncia Cass. n. 31571/2024 – che l'affido esclusivo ha natura residuale ed è riservato alle situazioni di maggiore gravità, quali, a titolo esemplificativo, il completo disinteresse di un genitore verso il figlio, il mancato mantenimento, l'ostacolo e la paralisi nelle decisioni dettate dalla assenza. Trattasi di decisione, quella sul disinteresse, in cui il Giudice del merito è chiamato davvero ad operare solo una mera presa d'atto di una situazione cronica, cronicizzata, ormai non più in itinere, ma cristallizzata, trattandosi di una delle poche ipotesi in cui non c'è davanti a sé una dinamica relazionale in movimento, bensì un assetto di rapporti asfittico e gravemente patologico, con la conseguenza che la decisione di derogare al principio della bigenitorialità non apporta alcuna nuova lesione ai danni del minore, trattandosi di fatto di dare veste giuridica – attraverso la statuizione dell'affido esclusivo, se non addirittura di un provvedimento de potestate a carico del genitore “inesistente” – ad una situazione reale ormai già cronicizzata e stabile, e basata sulla mera osservazione di un comportamento che è indice di una relazione inesistente.
Il criterio dell'accesso e il dibattito sulla PAS
L' “accesso genitoriale” è' una delle più importanti espressioni della capacità genitoriale da valutare in sede di disgregazione del nucleo familiare. In diverse linee guida e protocolli istituzionali adottati dai Tribunali in relazione alle CTU in materia di famiglia e minori, tale aspetto rientra a pieno nei criteri di valutazione della capacità genitoriale (cfr. Linee di indirizzo per le CTU in materia di famiglia e minori del Tribunale di Napoli). Può senz'altro affermarsi, come considerazione di principio, che l'accesso non è “mero non ostruzionismo” ma è invece un comportamento attivo richiesto in capo ad entrambi i genitori (e con maggior forza in capo al genitore collocatario) che garantisce la bigenitorialità più di ogni cosa, ragion per cui diventa sterile e del tutto insufficiente il richiamo del genitore omissivo rispetto a questo criterio in relazione ad una presunta volontà del minore di non frequentare l'altro genitore, laddove non emergano dinamiche disfunzionali nella relazione con lo stesso, e dunque non invece ove tale “rifiuto” non sia giustificato o giustificabile da situazioni concrete a valenza patologica nella relazione con il genitore oggetto di rifiuto. L'accesso impone infatti un comportamento attivo e favorente, una sorta di “dovere di promozione relazionale” dell'altro genitore, e tale elemento va ribadito con forza, perché è un aspetto che si inserisce a pieno nell'ampio spettro delle funzioni genitoriali. La giurisprudenza ha da sempre dato grande risalto al criterio dell'accesso. A solo titolo esemplificativo può citarsi la pronuncia Cass. n. 3331/2016, con cui la Suprema Corte ha previsto il collocamentopredominante del figlio presso il genitore che è in grado di garantire meglio la bigenitorialità, ovvero il rispetto della dell'altro genitore ed il mantenimento dei rapporti con quest'ultimo, atteso che - secondo quanto affermato nella pronuncia - va considerato come elemento determinante per la scelta della collocazione prevalente del minore, la maggiore capacità del genitore di garantire continuità di rapporto con entrambi i genitori.
Da tempo, quello sulla c.d. PAS (sindrome di alienazione parentale) è uno dei dibattiti più sentiti, a cui partecipano da consapevoli attori comprimari, tanto le pronunce della Suprema Corte, quanto – con differenti e contrapposte prospettazioni – il mondo della psicologia forense, dell'età evolutiva e della neuropsichiatria infantile. Come tutti i temi particolarmente sentiti nella coscienza professionale, spesso la forza contrappositiva delle diverse idee ha causato un ristagno nella crescita proficua del dibattito, e - peggio ancora - l'utilizzo del tema con modalità propagandistiche o sensazionaliste. Nel tentativo di ricercare un approccio di metodo al tema in questione, non si può che partire dalla necessità di affermare che il tema della disfunzionalità delle relazioni tra minore ed adulto (e degli effetti sul primo delle condotte patologiche del secondo), al pari di molte altre questioni dibattute nel diritto di famiglia, ha valenza prettamente multidisciplinare, poiché soltanto una corretta e sana osmosi tra principi di diritto e approdi delle scienze sociali (in primis la psicologia), può contribuire ad un approfondimento del tema e ad una sua esatta e consapevole delimitazione che possa qualificare al meglio le situazioni in concreto che si presentano dinanzi al giudice, al fine di consentirgli la adozione dei più opportuni provvedimenti, solo dopo aver ben compreso la reale portata delle condotte disfunzionali, il grado eventualmente patologico delle stesse, la potenzialità lesiva sul minore, e gli strumenti per ovviare ai danni eventualmente già procurati in termini di maggiore o minore irreversibilità. Se questo sembra dunque essere il migliore e più laico approccio al tema in questione – che è strettamente connesso al macroprincipio della bigenitorialità ed a quello dell'accesso – non può non rilevarsi come, invece, in una sorta di degenerazione semplificatrice del ragionamento, il dibattito di superficie ha spesso proposto un errato corollario di sistema, così sintetizzabile: poiché la giurisprudenza ha più volte affermato che la PAS non è teoria scientificamente dimostrata, ciò porta a concludere che resterebbero confinate ad un valore minimale, se non addirittura prive di qualsiasi rilievo, tutte le ipotesi in cui – al netto del dibattito sulla PAS - sia invece accertata una condotta escludente e ostruzionistica a carico di uno dei due adulti, contraria tanto al criterio dell'accesso, quanto al macroprincipio della bigenitorialità. In estrema semplificazione, si afferma pertanto, con modalità a dir poco scorrette e superficiali che, poiché la PAS non esiste, vuol dire che parimenti non esistono le condotte manipolative e ostruzionistiche, e ciò a pericolosa autoassoluzione dei tanti adulti che invece sono quotidianamente protagonisti di tali condotte a danno dei minori. Nulla di più falso. Per una esatta comprensione del tema, occorre prendere le mosse da quanto da ultimo riferito dalla Suprema Corte, con la pronuncia Cass. n. 9691/2022, secondo cui “il richiamo alla PAS e ad ogni suo più o meno evidente, anche inconsapevole, corollario, non può dirsi legittimo. La teoria si basa infatti sul concetto di abuso psicologico che appare indeterminato e vago, e di incerta pregnanza scientifica, insuscettibile di essere descritto secondo i parametri diagnostici della scienza medica. La PAS perviene a risultati valutativi non agevolmente suscettibili di verifiche empiriche e di riscontri univoci e condivisi dalla comunità internazionale”. La portata di tale pronuncia è dunque evidente nella parte in cui ritiene che il richiamo alla PAS non sia legittimo, per i limiti e l'incerta pregnanza scientifica su cui tale teoria si basa, ma certamente nulla si afferma, in termini parimenti negativi, circa la doverosa attenzione che va comunque offerta laddove siano accertate, a carico dell'adulto – e dunque a prescindere dal loro effetto sul minore, in termini di non riscontrabile “sindrome” - condotte contrarie al criterio dell'accesso favorente dell'altro genitore, realizzate con plurime forme di coercizione, ostruzionismo, allontanamento e, talvolta, manipolazione. La lettura di altre importanti pronunce di legittimità dà perfettamente conto di quanto ora espresso. Con una recentissima pronuncia, la Corte ha infatti affermato che “Qualora sia accertata la violazione del diritto alla bigenitorialità mediante condotte che integrino gravi forme di abuso psicologico, i rimedi adottati devono comunque essere diretti a salvaguardare l'esigenza di evitare traumi allo sviluppo psico-fisico del minore (Cass. n. 19103/2024). E nel medesimo segno si inserisce il principio espresso dalla Suprema Corte con le pronunce Cass. n. 14668/2024 e n. 29814/2023, secondo cui “qualora un genitore denunci comportamenti dell'altro, affidatario o collocatario, di allontanamento morale e materiale del figlio da sé, il giudice di merito è tenuto ad accertare la veridicità del fatto dei suddetti comportamenti, utilizzando i comuni mezzi di prova”. Ed infine, la nota ordinanza Cass. n. 25339/2021, citata in precedenza, ha testualmente affermato che: ““secondo la giurisprudenza di questa Corte, in tema di affidamento di figli minori, qualora un genitore denunci comportamenti dell'altro genitore, affidatario o collocatario, di allontanamento morale e materiale del figlio da sé, indicati come significativi di una sindrome di alienazione parentale (PAS), ai fini della modifica delle modalità di affidamento, il giudice di merito è tenuto ad accertare la veridicità del fatto dei suddetti comportamenti, utilizzando i comuni mezzi di prova, tipici e specifici della materia, incluse le presunzioni, ed a motivare adeguatamente, a prescindere dal giudizio astratto sulla validità o invalidità scientifica della suddetta patologia, tenuto conto che tra i requisiti di idoneità genitoriale rileva anche la capacità di preservare la continuità delle relazioni parentali con l'altro genitore, a tutela del diritto del figlio alla bigenitorialità e alla crescita equilibrata e serena (Cass. n. 6919/2016). È chiaro, dunque, il percorso argomentativo della Corte. A prescindere dalla validità o invalidità scientifica della sindrome di alienazione parentale (rispetto alla quale i più recenti arresti giurisprudenziali paiono propendere per un giudizio negativo e di “incerta pregnanza giuridica”), il raggio di osservazione del giudice è esclusivamente quello della verifica in concreto delle condotte dell'adulto, e della censura, sempre ed in ogni caso, delle condotte disfunzionali rispetto al criterio dell'accesso, comunque poste in essere, e ciò a prescindere dal fatto che le stesse abbiano potuto o meno produrre un danno nel minore, che oltre alla lesione specifica del suo diritto alla bigenitorialità, possa essere ricompreso in specifiche sindromi psicologiche. Condotte escludenti, denigratorie, ostruzioniste, manipolanti rispetto alla necessità ed all'obbligo di garanzia della relazione tra il minore e l'altro genitore, vanno sempre e comunque sanzionate, atteso che la lesione del rapporto tra un minore ed il genitore, anche in termini di quantità e qualità della frequentazione, è una lesione dei diritti del minore, che diviene giustificabile solo in presenza di specifiche, concrete e riscontrate esigenze di tutela dello stesso da condotte patologiche e dannose dell'adulto. Ma vi è di più. Lo stesso tenore dell'art. 473-bis.6 c.p.c. - che delimita il perimetro di azione laddove emerga il rifiuto del minore a relazionarsi con uno dei genitori – statuisce che. “Quando il minore rifiuta di incontrare uno o entrambi i genitori, il giudice procede all'ascolto senza ritardo, assume sommarie informazioni sulle cause del rifiuto e può disporre l'abbreviazione dei termini processuali. Allo stesso modo il giudice procede quando sono allegate o segnalate condotte di un genitore tali da ostacolare il mantenimento di un rapporto equilibrato e continuativo tra il minore e l'altro genitore o la conservazione di rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale”. Dunque, è lo stesso legislatore – nel secondo comma dalle norma in esame - a prospettare la frequente ipotesi di condotte genitoriali che mirino ad ostacolare il rapporto del minore con l'altro genitore, e ad immaginare che, in presenza di indizi in tal senso, il processo debba caratterizzarsi con una potenziale abbreviazione dei termini, finalizzata ovviamente ad accertare tali condotte disfunzionali e a porvi rimedio, e ciò al pari di quanto previsto anche nei procedimenti caratterizzati da allegazioni di violenzaex art. 473-bis.40 e ss. C.p.c. Dunque, volendo offrire uno sguardo critico e di sintesi rispetto a quanto sin qui esposto, può senza dubbio ritenersi che - al netto delle affermazioni della giurisprudenza di legittimità sul tema del valore scientifico da attribuirsi o meno alla PAS – le condotte di ostruzionismo e manipolazione con finalità escludente, rappresentino spesso un lavoro sottile, a volte inconsapevole, ma dannosissimo, ed integrante una delle forme di violenza “bianca” ma estrema sui minori, ragion per cui deve affermarsi che forme ascrivibili alla chiara manipolazione affettiva (che è ciò che è all'origine dell'effetto escludente ai danni del minore e dell'altro genitore) sono sempre un comportamento gravemente negativo, che va censurato e tenuto ai margini delle dinamiche relazionali, potendosi ipotizzare una giustificata lesione del rapporto bigenitoriale solo laddove dinamiche estreme, assolute, certe e riscontrate in concreto – come le forme di accertata violenza domestica, ove non semplicemente allegata con modalità generiche e aspecifiche – comportino esigenze di tutela del minore da condotte disfunzionali dell'adulto, che senza dubbio prevalgono, quanto meno temporaneamente, sulla applicazione del principio della bigenitorialità. Al netto del dibattito sulla PAS – di cui sono noti ed acquisiti gli arresti giurisprudenziali - l'asse del discorso si sposta dunque sulla verifica e sull'accertamento del comportamento pressorio, escludente, ostruzionista e manipolativo nella sfera affettiva del minore, senza per questo arrivare a dire che tali comportamenti provocano una sindrome patologica ritenuta allo stato non adeguatamente dimostrata, ma fermandosi ad annotare, in coerenza con tutti i principi CEDU, che tali condotte dell'adulto hanno oggettiva valenza gravemente negativa, rappresentando spesso una operazione pervicace e dannosissima sui minori. Non è infine superfluo ricordare, quanto alle conseguenze delle condotte disfunzionali sotto il profilo del mancato accesso, che, secondo la Suprema Corte. “Gli atteggiamenti ostruzionistici di un genitore che ostacolano il rapporto padre-figlio ledono il diritto alla bigenitorialità del minore e possono comportare una decadenza dalla responsabilità genitoriale” (Cass. ordinanza n. 28723/2020). E ciò a riprova ulteriore, anche per le conseguenze sanzionatorie sull'adulto, della valenza estrema del criterio dell'accesso come uno dei predicati di maggior rilievo del principio di bigenitorialità. Coerente, infine, con quanto sin qui espresso, è una ulteriore affermazione della Suprema Corte, in tema al rapporto tra le garanzie dell'accesso non fornite dal genitore collocatario, e le dichiarazioni rese dal minore nel corso del suo ascolto; la Corte ha infatti statuito che “L'ascolto del minore, anche quando ricorrano elementi tali da ritenere che le dichiarazioni siano espresse con maturità e consapevolezza, non può costituire l'esclusivo elemento in base al quale valutare il superiore interesse del minore ad assumere la decisione richiesta, in un quadro di rapporti conflittuali , nell'ambito dei quali siano stati accertati comportamenti apertamente ostativi, ostruzionistici e manipolativi da parte di un genitore, atti a limitare consistentemente l'esercizio della bigenitorialità dell'altro, comportamenti risultati recessivi solo a seguito della differente collocazione del minore”(Cass. ord. n. 2947/2025). In altri termini, l'accertamento delle condotte ostruzionistiche, ostative e manipolative a carico di un genitore è elemento di giudizio prevalente nelle scelte che deve adottare il giudice rispetto al collocamento del minore, anche laddove rispetto a tale scelta sia espressa una diversa volontà del minore, che ha dunque valenza recessiva – proprio per il suo interesse – rispetto alla esigenza del rispetto della bigenitorialità, e della efficace neutralizzazione delle condotte manipolanti.
Conclusioni
Il quadro normativo e giurisprudenziale delineato, anche con riferimento a specifici sottotemi inerenti l'esercizio concreto della responsabilità genitoriale, induce a ritenere che qualunque sia il dibattito odierno sulla valenza contenutistica della l. 54/2006, esso non può non partire da una conquista di civiltà giuridica e relazionale nella architettura dei rapporti familiari tra adulti e minori, conquista ben rappresentata dal macroprincipio della bigenitorialità, che è principio, metodo e criterio di azione di ogni buon paradigma genitoriale. Chiunque metta in crisi o esponga a critiche contingenti la valenza di tale principio, propone un pericoloso passo indietro nella elaborazione e nella maturità dei contenuti acquisiti come odierna identità del diritto di famiglia. Alcune disordinate voci riferibili a sparuti gruppi interdisciplinari di operatori e operatrici del settore, sventolando una confusiva congerie di concetti e di istanze sociali, spesso uniti in un contenitore informe, prospettano un suggestivo e pernicioso cortocircuito secondo il quale, laddove in un qualsiasi provvedimento giudiziario si attribuisca un giudizio negativo e disfunzionale rispetto alla capacità genitoriale di un adulto, soprattutto sotto il profilo dell'accertamento dei comportamenti ostativi e ostruzionistici, si innesca automaticamente un violento e falsato dibattito, per cui il giudice starebbe dando applicazione concreta alla teoria della PAS, operando una non meglio qualificata “vittimizzazione secondaria” dell'adulto destinatario del giudizio negativo - concetto evidentemente invocato in modo non pertinente soprattutto laddove non vi sia nel caso in esame alcuna ipotesi di violenza domestica accertata – con la conseguenza che la applicazione del principio della bigenitorialità, provocando tale danno, andrebbe rimodulata, ripensata, se non rimossa. E tale falsato dibattito si alimenta di task force, pressioni mediatiche, interrogazioni parlamentari, spesso articolate su dati falsati o su narrazioni di specifiche vicende comunque non comprese nella loro effettiva portata ed esteriorizzate con approcci parziali ed intrisi di pregiudizi. Un cortocircuito che danneggia il dibattito professionale, mistificandone i dati oggettivi di partenza. Serenità, laicità, equidistanza e irrilevanza del genere sessuale dell'adulto sono le regole del buon processo di famiglia. La testimonianza più importante che si possa fare in questo periodo storico, in cui il diritto di famiglia, anche grazie alle recenti riforme, è divenuto strumento di regole superficiali, emotive e deprocessualizzate, è quella di rispedire al mittente queste mistificazioni, interpretare i principi di diritto e le loro ricche e coerenti elaborazioni giurisprudenziali nazionali e sovranazionali, dare per fermi gli approdi e i contenuti della cultura sociale e giuridica, richiamando il processo, nella sua dinamica interna, alle regole e ai principi di diritto sostanziale.
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Sommario
L'inquadramento normativo
La giurisprudenza sulla applicazione pratica della bigenitorialità