Decreto di archiviazione per intervenuta prescrizione e giudizio di colpevolezza dell’indagato

22 Aprile 2025

Abnormità del provvedimento emesso prima dell'entrata in vigore dell'art. 115-bis c.p.p.

Massima

In tema di impugnazioni, è abnorme il decreto di archiviazione per intervenuta prescrizione che riporti valutazioni circa la fondatezza della notitia criminis e, dunque, sulla colpevolezza dell'indagato, qualora emesso prima dell'entrata in vigore del rimedio previsto dall'art. 115-bis c.p.p.

Il caso

La Corte di cassazione è stata chiamata a pronunciarsi sulla base di un reclamo ex art. 410-bis c.p.p. avverso un provvedimento di archiviazione disposto dal Giudice per le indagini preliminari che, prima di sancire il decorso del termine prescrizionale, ha riconosciuto la fondatezza della notizia di reato per cui si procedeva.

Precisamente, la vicenda trae origine da dichiarazioni rese da un imprenditore che ha accusato il reclamante – nel caso de quo un magistrato – di aver percepito denaro in cambio della risoluzione in senso favorevole di diverse controversie che il primo aveva con l'Agenzia delle Entrate.

Da tali dichiarazioni sono derivati due distinti procedimenti penali: il primo vede il reclamante come soggetto indagato per i delitti di corruzione in atti giudiziari (art. 319-ter c.p.) e traffico di influenze illecite (art. 346-bis c.p.); nel secondo il magistrato è persona offesa-denunciante per il delitto di calunnia ipotizzato a carico dell'imprenditore.

Nel procedimento penale a carico, la Procura ha formulato richiesta di archiviazione per entrambi i capi di incolpazione. Da un lato, ha accertato l'intervenuta prescrizione del reato di corruzione in atti giudiziari in quanto i fatti risalivano agli anni 2010-2011; dall'altro, con riferimento al traffico di influenze illecite, ha affermato l'assenza di riscontri individualizzanti idonei a sostenere l'accusa in giudizio. Il G.i.p. ha accolto integralmente la richiesta del Pubblico ministero che, nonostante il decorso del termine prescrizionale, aveva formulato valutazioni sostanziali sulla sussistenza di elementi di prova a carico dell'indagato per cui non vi era «la possibilità di giungere ad una archiviazione con una formula diversa che attinga il merito della vicenda».

Come previsto dal codice, richiesta di archiviazione e decreto di accoglimento non sono stati notificati all'indagato. Tuttavia, quest'ultimo è comunque venuto a conoscenza di tale esito grazie all'avviso della richiesta di archiviazione - notificato ai sensi dell'art. 408, comma 2, c.p.p. - nel procedimento avviato per calunnia nei confronti dell'imprenditore.

Preso atto dell'intervenuta prescrizione e delle valutazioni contenute nel provvedimento, dopo aver infruttuosamente comunicato al Pubblico ministero e al G.i.p. la propria volontà di rinunciare alla prescrizione per tutti i reati ipotizzati, il magistrato ha proposto reclamo, ai sensi dell'art. 410-bis c.p.p., avverso il provvedimento di archiviazione dinanzi al Tribunale di Lecce in composizione monocratica. In particolare, il reclamante ha richiesto l'annullamento del decreto di archiviazione - limitatamente alla contestazione relativa alla corruzione in atti giudiziari - adducendo la violazione del proprio diritto “al processo” nonché del principio costituzionale di presunzione di innocenza.

Nel vagliare la fondatezza del reclamo, il Tribunale di Lecce ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 411, comma 1-bis, c.p.p., in riferimento agli artt. 3,24, comma 2, e 111, commi 2 e 3, Cost., «nella parte in cui non prevede che, anche in caso di richiesta di archiviazione per estinzione del reato per intervenuta prescrizione, il pubblico ministero debba darne avviso alla persona sottoposta alle indagini e alla persona offesa, estendendo a tale ipotesi la medesima disciplina prevista per il caso di archiviazione disposta per particolare tenuità del fatto, anche sotto il profilo della nullità del decreto di archiviazione emesso in mancanza del predetto avviso e della sua reclamabilità dinanzi al Tribunale in composizione monocratica».

La Corte costituzionale, con la sentenza n. 41 del 2024, ha dichiarato infondate le questioni sollevate. Tuttavia, pur non entrando nel merito dell'individuazione del rimedio esperibile, ha fornito importanti indicazioni e statuizioni di principio in ordine alla necessità di assicurare un rimedio effettivo contro provvedimenti contenenti indebite valutazioni di colpevolezza dell'indagato, assunti in assenza di contraddittorio.

Ricevuti nuovamente gli atti, il Tribunale di Lecce ha riqualificato il reclamo in termini di ricorso per cassazione per abnormità del decreto di archiviazione, trasmettendo gli atti alla Corte di cassazione.

La questione

Per inquadrare la questione sottoposta alla Corte di cassazione, occorre prima soffermarsi sulla pronuncia della Corte costituzionale.

Con essa, la Corte costituzionale ha affrontato il tema del delicato equilibrio tra la “neutralità” della fase delle indagini preliminari e la necessità di garantire all'indagato una piena ed effettiva tutela in presenza di provvedimenti che si spingano indebitamente a formulare giudizi impliciti – o talora espliciti – sulla sua colpevolezza.

Il tema riguarda l'esistenza: i) di un diritto dell'indagato a ottenere un giudizio sul merito delle contestazioni mosse nei suoi confronti e ii) di rimedi adeguati con i quali opporsi a valutazioni di merito inopportune contenute in un atto che, per funzione, dovrebbe limitarsi a constatare la sussistenza di cause estintive del reato.

Secondo la Corte costituzionale, il diritto a rinunciare alla prescrizione non può estendersi all'indagato, in quanto quest'ultimo si trova in una fase del procedimento in cui l'azione penale non è ancora stata esercitata e il giudice non è stato investito della potestà di decidere nel contraddittorio. L'iscrizione nel registro delle notizie di reato, che apre formalmente il procedimento, è infatti considerata un atto dovuto, per definizione “neutro”, privo di implicazioni pregiudizievoli per l'indagato come previsto dall'art. 335-bis c.p.p. Analogamente, l'archiviazione rappresenta il semplice contraltare dell'iscrizione: un atto - parimenti neutro - che chiude il procedimento in assenza di presupposti per l'esercizio dell'azione penale.

Per tali ragioni - prosegue la Corte - non è individuabile un diritto alla rinuncia alla prescrizione durante le indagini preliminari, in quanto dovrebbe riconoscersi il potere dispositivo dell'indagato di provocare l'instaurazione di un processo penale che, in questa fase, è strutturalmente incompatibile con la facoltà del pubblico ministero di richiedere comunque l'archiviazione e con la possibilità per il G.i.p. di accoglierla con relativo provvedimento.

Non riconoscendo un diritto costituzionale dell'indagato a “difendersi provando”, la Corte costituzionale ha dunque confermato l'insussistenza dell'obbligo del pubblico ministero di notificare all'indagato l'avviso della richiesta di archiviazione per intervenuta prescrizione formulata nei suoi confronti.

Tuttavia, tale mancanza non può comportare l'abbandono del soggetto al rischio di una stigmatizzazione indebita.

Le richieste o i decreti di archiviazione che si espongono anche sulla fondatezza della notitia criminis, non limitandosi a constatare il decorso del termine di prescrizione, violano il principio di presunzione di non colpevolezza oltreché il diritto di difesa del soggetto indagato.

Pertanto, conclude la Corte, «il mancato riconoscimento alla persona sottoposta alle indagini di un diritto a provocare un accertamento negativo della notitia criminis nell'ambito di un giudizio penale non è costituzionalmente illegittimo soltanto in quanto l'ordinamento sia in grado – per altra via – di assicurare un rimedio effettivo contro ogni eventuale violazione, da parte dell'autorità giudiziaria, del diritto fondamentale della persona medesima a non essere presentata come colpevole senza avere potuto difendersi e presentare prove a proprio discarico».

A seguito della sentenza della Corte costituzionale, la Corte di cassazione, chiamata ad esprimersi sul ricorso per abnormità avverso il decreto di archiviazione, si è trovata a ripercorrere le indicazioni fornite in tale pronuncia, cercando di individuare il rimedio concretamente esperibile nel caso di specie.

Le soluzioni giuridiche

La S.C. ha ritenuto fondato il ricorso per abnormità e, per l'effetto, ha annullato il decreto di archiviazione emesso dal G.i.p., disponendo il rinvio a un diverso magistrato dello stesso ufficio per una nuova valutazione della richiesta del Pubblico ministero.

La motivazione dell'annullamento si fonda su una considerazione preliminare: l'inapplicabilità del rimedio previsto dall'art. 115-bis c.p.p., disposizione successiva al provvedimento impugnato.

Introdotta dal d.lgs. 8 novembre 2021, n. 188 in attuazione della direttiva (UE) 2016/343, la disposizione in questione ha inteso offrire uno strumento di tutela per i casi in cui un provvedimento dell'autorità giudiziaria – che non sia volto alla decisione in merito alla responsabilità penale del soggetto – attribuisca all'indagato la qualità di colpevole, non limitandosi a riportare le sole indicazioni necessarie a soddisfare i requisiti richiesti per l'adozione del provvedimento. Si tratta, come noto, di una norma che consente la rimozione delle espressioni lesive del principio di presunzione di innocenza da parte del giudice procedente.

Tuttavia, nel caso di specie, tale strumento non ha potuto trovare applicazione. In assenza di una disciplina transitoria ha, invero, trovato applicazione il principio tempus regit actum, per cui l'indagato non ha potuto avvalersi del rimedio previsto dall'art. 115-bis c.p.p. perché entrato in vigore solo dopo l'emissione del decreto di archiviazione oggetto di censura.

Pertanto, la S.C. ha riaperto la strada della riqualificazione del decreto nei termini di provvedimento abnorme (così come avveniva prima dell'introduzione dell'art. 115-bis c.p.p.), in quanto rimedio residuale rispetto ai mezzi di impugnazione specificamente predisposti dal legislatore (Cass. pen., sez. VI, 6 novembre 2024, n. 1276).

La sentenza in commento, infatti, rileva che il provvedimento impugnato non si è limitato a registrare l'intervenuta estinzione del reato per prescrizione – come avrebbe dovuto –, ma si è spinto ad accreditare, sulla scorta della richiesta del pubblico ministero, una ricostruzione sostanzialmente colpevolista dei fatti, formulando un giudizio di responsabilità privo di accertamento in contraddittorio.

Un simile provvedimento travalica i confini fisiologici dell'archiviazione e si traduce in uno “sviamento dalla funzione giurisdizionale”, rispetto al quale l'ordinamento non prevede alcun rimedio esperibile stante, come detto, l'inapplicabilità del reclamo ex art. 410-bis c.p.p. al di fuori delle ipotesi di nullità previste dal medesimo articolo.

Pertanto, tale deviazione dallo schema legale legittima, in linea con quanto affermato dalle Sezioni Unite (Cass. pen., sez. un., 26 marzo 2009, n. 25957, Toni), l'esperibilità del ricorso per abnormità.

A conferma della bontà dell'impostazione, si rammenta un precedente significativo (Cass. pen., 18 marzo 1999, n. 1560), in cui si è considerato abnorme un provvedimento di archiviazione per amnistia che conteneva valutazioni nel merito del fatto-reato, ritenute lesive del diritto alla presunzione di innocenza.

Più di recente, con riferimento all'abnormità del decreto di archiviazione, la S.C. ha avuto modo di esprimersi in merito al rapporto funzionale tra pubblico ministero e giudicante, talvolta rilevando proprio un pregiudizio per il diritto di difesa dell'indagato.

In particolare, sono ormai ben definiti i confini tra il potere dell'organo di accusa e il potere di controllo del G.i.p. (C. cost., 8 luglio 2002, n. 349; C. cost., 10 maggio 1999, n. 176; C. cost., 26 gennaio 1994, n. 34; C. cost., 22 dicembre 1993, n. 478; Corte cost., 6 novembre 1991, n. 417; C. cost., 23 maggio 1991, n. 263; C. cost., 28 gennaio 1991, n. 88).

Sulla scorta di tale ripartizione, la S.C. ha considerato abnormi sia l'ordine d'imputazione coatta emesso nei confronti di un soggetto non indagato, sia quello emesso nei confronti dell'indagato per fatti diversi da quelli per i quali il pubblico ministero ha richiesto l'archiviazione, dovendo, in queste ipotesi, il G.i.p. limitarsi ad ordinare l'iscrizione nel registro di cui all'art. 335 c.p.p. (Cass. pen., sez. un., 28 novembre 2013, n. 4319/14, Rv. 257786).

Tale orientamento assume particolare rilievo nel caso di specie in quanto, oltre a focalizzarsi sul riparto funzionale tra pubblico ministero e giudice nel procedimento di archiviazione, fonda le ragioni dell'abnormità anche sulla lesione del diritto di difesa del soggetto che si trova imputato per effetto del provvedimento, senza mai avere potuto interloquire, da indagato, sul fatto contestato (si veda anche Cass. pen., sez. un., 22 marzo 2018, n. 40984; Cass. pen., sez. V, 28 settembre 2021, n. 44926; Cass. pen., sez. II, 20 aprile 2021, n. 16779).

A ciò si aggiunga anche il principio secondo cui non è applicabile nella fase delle indagini preliminari la disposizione di cui all'art. 129, comma 2, c.p.p., per cui il G.I.P. nell'emettere il decreto di archiviazione non deve motivare sulla insussistenza di prove favorevoli alla persona sottoposta alle indagini (Cass. pen., sez. 6, 19 ottobre 1990, n. 2702).

Seguendo il tracciato giurisprudenziale, la S.C. ha dunque considerato affetto da abnormità il provvedimento impugnato.

La conclusione si pone in linea con la decisione della Consulta, la quale ha evidenziato l'irrinunciabile esigenza di prevedere strumenti idonei a contrastare provvedimenti che, in assenza di contraddittorio, attribuiscano indebitamente all'indagato una valutazione di colpevolezza. La tutela della presunzione di innocenza, d'altronde, non può essere limitata alla fase dibattimentale, ma deve estendersi a tutto l'arco del procedimento, specialmente quando il rischio di stigmatizzazione deriva da atti che si presentano come “neutri” ma da cui discendono, nella sostanza, conseguenze pregiudizievoli.

Osservazioni

La sentenza in commento prende le mosse dal diritto dell'imputato a rinunciare alla prescrizione.

Il diritto in questione affonda le proprie radici nella giurisprudenza costituzionale. Nello specifico, nella sentenza n. 275 del 31 maggio 1990 con cui la Corte ha profondamente riconsiderato la natura dell'istituto prescrizionale. Precisamente, la Corte abbandonava la distinzione tra amnistia – ritenuta rinunciabile in quanto frutto di valutazioni discrezionali del legislatore – e prescrizione, allora considerata effetto automatico del decorso del tempo, giungendo a riconoscere che, pur in assenza di discrezionalità normativa, anche la prescrizione si presenta, sul piano applicativo, come un istituto fortemente influenzato da dinamiche processuali non sempre dominabili dall'imputato.

In altri termini, se prima di tale pronuncia si considerava prevalente l'interesse generale di non perseguire più reati «rispetto ai quali il lungo tempo decorso dopo la loro commissione abbia fatto venire meno, o notevolmente attenuato, insieme al loro ricordo, anche l'allarme della coscienza comune» (C. cost., 10 dicembre 1971, n. 202; si veda anche C. cost., 14 luglio 1971, n. 175 con riferimento alla rinuncia all'amnistia), successivamente si è iniziato a considerare prevalente l'interesse del singolo ad ottenere dal giudice una sentenza di assoluzione nel merito.

Ciò in quanto si ritiene quest'ultimo come il riflesso del diritto inviolabile di difesa previsto dall'art. 24, comma 2, Cost.

La vicenda esaminata dalla Corte di cassazione con la sentenza in commento, a distanza di oltre vent'anni da quella pronuncia, offre dunque l'occasione per riflettere sulla persistente attualità di tali principi, e sul modo in cui il sistema processuale debba preservare la loro efficacia anche nella fase delle indagini preliminari.

Sebbene, come ha ribadito la Corte costituzionale, il diritto a rinunciare alla prescrizione spetti all'imputato e non all'indagato, non può trascurarsi la necessità di assicurare, anche a quest'ultimo, una tutela effettiva quando il provvedimento che chiude il procedimento già nella fase delle indagini travalica la sua funzione fisiologica.

La patologia evidenziata nel caso concreto è quella dei decreti di archiviazione che, anziché limitarsi a constatare l'intervenuta estinzione del reato, si spingono in valutazioni di merito, recependo senza filtri le ricostruzioni dell'accusa, fino a formulare, più o meno esplicitamente, una valutazione di fondatezza della notizia di reato.

Simili provvedimenti finiscono inevitabilmente per produrre effetti pregiudizievoli sul piano personale e reputazionale, in aperto contrasto con il principio sancito nell'art. 27, comma 2, Cost. e del diritto di difesa. L'indagato, infatti, si trova etichettato come colpevole senza essere stato mai posto nella condizione di replicare, confutare, argomentare, talvolta persino senza avere contezza dell'esistenza del procedimento stesso.

Proprio tale violazione, più che il vizio formale, fonda il concreto e attuale interesse del singolo, per come inteso dalla S.C. (si veda Cass. pen., sez. un., 22 marzo 2018, n. 40984), necessario per la legittimazione ad impugnare il decreto per abnormità. Ebbene, nel caso di specie, il pregiudizio è tutt'altro che ipotetico: le espressioni contenute nel decreto sono idonee a produrre – soprattutto se conosciute da terzi – effetti gravemente lesivi per la reputazione, la vita privata e quella professionale dell'indagato, senza che quest'ultimo abbia potuto far valere in alcun modo le proprie ragioni.

Da qui la necessità di rimuovere tali provvedimenti attraverso il ricorso per abnormità, da intendersi quale strumento residuale esperibile esclusivamente nei confronti degli atti adottati prima dell'entrata in vigore del rimedio previsto dall'art. 115-bis c.p.p.

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