I genitori possono essere chiamati a rispondere dei danni causati dall'illecito del figlio incapace di intendere e di volere maggiorenne
06 Maggio 2025
La responsabilità civile per il danno causato da persona incapace di intendere e di volere, secondo le disposizioni di cui all'art. 2047 c.c., è in capo a chi è tenuto alla sorveglianza dell'incapace. Il codice non fa alcun distinguo in merito all'età del soggetto che ha causato il danno: conseguentemente, sarà responsabile chi era tenuto alla sorveglianza dello stesso a prescindere dalla minore o maggiore età dell'incapace. I genitori, quindi, non potranno essere chiamati a rispondere civilmente dei danni causati dal figlio maggiorenne incapace di intendere e volere solo in virtù della filiazione. Gli stessi, infatti, per incorrere nella responsabilità di cui all'art. 2047 c.c. devono essere tenuti alla sorveglianza del maggiorenne incapace al momento del danno causato. Pertanto, la responsabilità ricadrà su colui che si è assunto volontariamente l'obbligo di sorveglianza e non solamente sui genitori in quanto tali. In virtù di quanto disposto dall'art. 2046 c.c., chi non aveva la capacità di intendere e volere al momento in cui ha commesso il fatto non risponde delle conseguenze dannose. L'incapace, quindi, non risulta essere imputabile per i danni causati. Quella di cui all'art. 2047, comma 1, c.c. è una responsabilità per fatto altrui, perché il sorvegliante risponde dei danni materialmente causati da un altro soggetto ma, sotto il profilo dell'omessa vigilanza, la responsabilità sussiste anche per un fatto proprio dal momento che lo stesso sorvegliante è responsabile anche per c.d. culpa in vigilando, ravvisabile nella non diligente sorveglianza dell'incapace. Il sorvegliante, infatti, al fine di non incorrere in responsabilità deve fornire la prova di essersi adoperato nell'adottare tutte le cautele idonee per evitare il danno, in relazione soprattutto allo stato e alle condizioni dell'incapace. Il fatto deve essere, quindi, inevitabile a prescindere anche dall'adozione di adeguate cautele. Al primo comma dell'art. 2047 c.c., a tal proposito, si fa espressamente richiamo alla prova liberatoria: colui che ha l'obbligo di sorveglianza, invero, può essere esonerato dal rispondere dei danni causati dall'incapace se riesce a provare di «non aver potuto impedire il fatto». Per il soggetto danneggiato dovrebbe essere sufficiente dimostrare che il danno sia stato causato dal soggetto incapace mentre il sorvegliante dovrà dimostrare, per contro, che il fatto si sarebbe comunque verificato anche esercitando la dovuta sorveglianza. È utile confrontare il contenuto dell'art. 2047 c.c. con il disposto di cui all'art. 2048 c.c. che riguarda, invece, la responsabilità del minore capace di intendere e volere che abbia commesso un fatto illecito. In questo caso, secondo la giurisprudenza, i genitori rispondono del danno perché la responsabilità non si esaurisce nella culpa in vigilando, come nel caso della responsabilità civile per il danno causato dall'incapace, ma si compone anche della c.d. culpa in educando. I genitori, quindi, sarebbero civilmente responsabili sulla base di una duplice presunzione di colpa in qualità di vigilanti e di educatori dei figli. In questo caso, la prova liberatoria che devono fornire i genitori deve superare entrambe le presunzioni, dovendo dimostrare di aver vigilato sul minore e anche di averlo educato correttamente in relazione alle condizioni sociali e familiari, oltreché in relazione alla sua età, al carattere e all'indole. Potrebbe essere questo considerato un caso di probatio diabolica in quanto spesso, alla presenza di un illecito di particolare gravità, l'inadeguatezza dell'educazione impartita viene ricavata in base alle modalità in cui è avvenuto il fatto illecito. Per tale motivo, parte della dottrina configura tale fattispecie come una vera e propria responsabilità oggettiva. Ad ogni modo, presupposto per la responsabilità in questo caso è la coabitazione tra i genitori e il minore, dato che è condizione essenziale per l'esercizio di vigilanza. Da quanto osservato sinora, il criterio distintivo tra l'art. 2048 c.c. e l'art. 2047 c.c. è allora il requisito dell'imputabilità del soggetto che causa il danno. Sull'argomento, Cass. civ., sez. III, 26 gennaio 2016, n. 1321 si è pronunciata sul particolare caso di responsabilità dei genitori di un maggiorenne incapace di intendere e volere che aveva commesso un omicidio. Nel caso di specie era accaduto che la madre non era più in grado di arginare il comportamento aggressivo del figlio maggiorenne ma incapace, vedendosi, così, costretta a chiedere aiuto al padre del giovane, dal quale era separata da tempo. Il padre, allora, aveva deciso di portare con sé il figlio a vivere in campagna, anche a fronte della pericolosità sociale di quest'ultimo. Il ragazzo, però, lasciato senza idonea sorveglianza, aveva ucciso un uomo: in sede penale veniva assolto perché incapace di intendere e di volere al momento della commissione del fatto, ma i genitori in primo grado venivano condannati in solido a risarcire i danni patiti dal fratello della vittima. A seguito della condanna la madre aveva deciso di proporre appello e la Corte nel secondo grado di giudizio aveva riformato la decisione, affermando che la responsabilità fosse in capo al padre in virtù dell'obbligo di sorveglianza a cui quest'ultimo non aveva correttamente adempiuto, ma che comunque aveva volontariamente assunto. Avverso la decisione della Corte d'appello veniva presentato ricorso in Cassazione, ma con la citata sentenza esso veniva respinto e il padre veniva considerato responsabile civilmente del fatto illecito commesso dal figlio, poiché non aveva ottemperato al dovere di sorveglianza che volontariamente aveva assunto. La Corte nel caso di specie prestava particolare attenzione all'obbligo di sorveglianza al momento del fatto, a prescindere dall'ipotetica culpa in educando dei genitori. Invero, per la responsabilità civile di cui all'art. 2047 c.c., la Corte non riteneva che fosse da prendere in considerazione la figura del genitore in quanto tale, rilevando piuttosto chi fosse il sorvegliante dell'incapace nel momento dell'omicidio. L'obbligo di sorveglianza sull'infermo di mente maggiorenne può incombere su un soggetto solo per effetto di una sua libera e volontaria scelta. La responsabilità per i danni commessi dall'incapace psichico presuppone che un soggetto, consapevole delle sue condizioni e dei rischi connessi, abbia accolto liberamente l'incapace presso di sé, assumendo sia il compito di accudirlo sia quello di prevenire od impedire che il comportamento di questi possa arrecare danno ad altri (cfr. Cass. civ., sez. III, 12 maggio 1981, n. 3142 e Cass. civ., sez. III, 1° giugno 1994, n. 5306). I genitori di persona maggiore di età inferma di mente non sono allora obbligati ad esercitare la sorveglianza sul figlio e non sono di per sé responsabili per i danni provocati a terzi, a meno che non vi sia stata spontanea assunzione di responsabilità. Infatti, il raggiungimento della maggiore età dell'incapace fa venir meno sia il presupposto della responsabilità genitoriale sia il rapporto di rappresentanza legale e quindi il dovere di sorveglianza, alla base della responsabilità civile ex art. 2047 c.c., può sorgere solo per effetto della libera scelta di accogliere l'incapace nella propria sfera personale e familiare. La Corte di Cassazione nella sentenza in esame specificava, inoltre, che nel dismettere l'obbligo di sorveglianza è altresì necessario valutare la nuova situazione di convivenza e la verifica deve essere effettuata ex ante, secondo un giudizio prognostico-ipotetico sulla idoneità della nuova situazione. Nel caso specifico il trasferimento del giovane adulto infermo in un luogo isolato dove il padre lavorava aveva posto in essere condizioni astrattamente idonee all'esercizio del dovere di sorveglianza, addirittura preferibili a quanto era stata in grado di offrire fino a quel momento la madre del ragazzo. L'organizzazione della vita del padre era dunque idonea in senso astratto a mettere il figlio nelle condizioni di non arrecare danno a terzi. Avendo, quindi, il padre assunto volontariamente l'obbligo di sorveglianza del figlio ed essendo la nuova situazione di convivenza idonea a evitare danni per i terzi, la madre non era da considerarsi civilmente responsabile per l'operato del figlio. Peraltro, nel caso in cui il soggetto tenuto alla sorveglianza non sia in grado di risarcire il danno, il secondo comma dell'art. 2047 c.c. ammette che il giudice, considerate le condizioni economiche delle parti, possa condannare l'autore del danno al versamento di un'equa indennità, anche se incapace. La norma, quindi, deroga al principio della irresponsabilità dell'incapace affinché possa venire garantita un'indennità al terzo danneggiato quando l'azione nei confronti del sorvegliante sia stata infruttuosa. Si tratta di una c.d. responsabilità “sussidiaria”, perché la responsabilità principale è del sorvegliante, ma anche “eventuale” perché subordinata ad un apprezzamento equitativo del giudice. In definitiva, la responsabilità civile di cui all'art. 2047 c.c. si rivolge a chi svolge effettivamente un ruolo di sorveglianza al momento del fatto commesso dall'incapace da cui è derivato un danno. Risulta dirimente a tal proposito che l'obbligo di sorveglianza sia stato assunto volontariamente e coscientemente, senza che sia necessario un vincolo contrattuale, mentre lo stato di figlio dell'incapace non ha esclusivo rilievo ai fini della sussistenza della responsabilità civile. Ex art. 2047 c.c. è allora preminente la menzionata culpa in vigilando, mentre assume un'importanza residuale la culpa in educando che, invece, viene presa in considerazione nel caso in cui il fatto sia commesso dal minore capace di intendere e volere ai sensi dell'art. 2048 cc. |