Il danno alla persona da trattenimento illegittimo: diritti inviolabili e diritto al risarcimento
20 Maggio 2025
Premessa: le questioni L'ordinanza delle sezioni unite della Corte di cassazione che oggi si commenta (Cass. civ., sez. un., 6 marzo 2025, n. 5992) pone delicate questioni di diritto, sostanziale e processuale, che meriterebbero ben altro approfondimento rispetto alle brevi e giocoforza incomplete riflessioni che seguiranno. Omesso ogni commento sulle conclusioni scritte depositate dalla Procura generale della Cassazione in vista dell'adunanza camerale delle Sezioni Unite, tra i tanti, possibili temi che andrebbero esaminati funditus, alcuni risultano di particolare interesse per le conseguenze giuridiche e per i risvolti pratici che li caratterizzano. Si tralascerà di soffermarsi, per ovvi motivi di limiti del presente scritto, sulle questioni di giurisdizione e di legittimazione ad agire (rectius, di titolarità del diritto controverso, contrariamente a quanto sostenuto in sede di discussione dall'avvocatura dello Stato), su quelle relative sia alla violazione della normativa internazionale sull'obbligo di soccorso in mare, sia alla violazione del diritto alla libertà e sicurezza di cui all'art. 5 CEDU (violazione rappresentata dal trattenimento a bordo di persone migranti non ancora identificate, molte delle quali potenziali richiedenti asilo ex art. 10, comma 3, Cost.). Non ci si soffermerà sulla nozione di “atto politico” ipoteticamente sottratto al sindacato giurisdizionale, né sulla qualificazione giuridica della condotta (argomento su cui si tornerà in un prossimo contributo) né sui provvedimenti dell'autorità governativa – questioni, tutte, assai brillantemente e del tutto condivisibilmente risolte dalla sentenza che si commenta. Meritevoli di qualche ulteriore riflessione appaiono invece le tematiche:
L'analisi sarà condotta volgendo lo sguardo ai possibili esiti del futuro giudizio di rinvio dinanzi a quella stessa Corte territoriale che già ritenne di dover rigettare qualsiasi istanza risarcitoria di persone migranti forzosamente confinate a bordo di una nave, e così private per giorni della loro libertà (a tacere della loro dignità). Il diniego di autorizzazione a procedere penalmente La competente Giunta delle Elezioni e delle Immunità Parlamentari, con propria relazione comunicata alla Presidenza il 21 febbraio 2019, proporrà all'Assemblea il diniego della richiesta «attesa la sussistenza nel caso di specie dell'esimente del perseguimento del preminente interesse pubblico nell'esercizio della funzione di governo di cui all'articolo 9, comma 3, della legge costituzionale n. 1 del 1989». Il voto del Senato del successivo 20 marzo nega, così, l'autorizzazione, ponendo fine al procedimento penale. Alla fine di febbraio dell'anno seguente verrà depositata, presso il Tribunale Civile di Roma, una richiesta di risarcimento danni da parte di quarantuno migranti costretti a rimanere a bordo della nave, con conseguente lesione della loro libertà personale. Risolte le questioni di giurisdizione, di qualificazione dell'atto (asseritamente “politico”) emanato dall'autorità governativa e di legittimazione ad agire (rectius, e più correttamente, di titolarità del diritto sostanziale) delle persone migranti, l'indagine sulla legittima configurabilità di un illecito civile postula(va), in limine litis, una accurata analisi della natura giuridica del diniego opposto dal Senato in termini di antigiuridicità (o meno) della condotta dell'allora Ministero degli interni. Sul tema, accese dispute dottrinarie si sono attestate, da un canto, sul fronte della natura di esimente del diniego, ossia di causa di giustificazione (oscillante, quest'ultima, a seconda degli autori, tra lo stato di necessità, l'esercizio di un diritto e l'adempimento di un dovere) di una condotta di per sé integrante ipotesi di reato che, attratta nell'orbita delle scriminanti penalistiche, «non potrebbe mai essere considerata antigiuridica» (Elia; Cerri, che discorre di «una causa di giustificazione extra ordinem»; Dell'Anno, che, considerando il diniego «una scriminante autonoma», si chiede poi, retoricamente, «cosa autorizzi a ritenere che una condotta posta in essere da un ministro e finalizzata alla tutela delle situazioni descritte nell'art. 9 della legge costituzionale 1/1989 possa rendersi meritevole di una sanzione civile», sembrando così ignorare il lungo, faticoso, impervio e contrastato itinerario di pensiero - non soltanto giuridico - che, a far data dalla sentenza Corte Cost., 11 luglio 2003, n. 233 (sulla quale amplius, infra) e dalla pronuncia Cass. civ., sez. un., 11 gennaio 2008, n. 576, ha finalmente consentito l'approdo alla definitiva separazione delle sorti del giudizio civile da quello penale - come confermato dal recente (e si spera tombale) suggello apposto al crisma dell'autonomia dalla Corte costituzionale (Corte Cost., 30 luglio 2021, n. 182) e dalle sezioni unite penali della cassazione (Cass. pen., sez. un., 28 gennaio 2021, n. 22065), la cui lettura, benché poco attenta, dovrebbe tranquillizzare chiunque si mostri ancora allarmato «sulla possibilità che l'ordinamento possa consentire e contestualmente negare il medesimo fatto senza sostanzialmente rinnegarsi» (ancora il Dell'Anno); dall'altro predicandone (assai più correttamente) la natura di pura e semplice condizione di procedibilità» (Di Raimo, che ritiene, conseguentemente, del tutto legittima una domanda di risarcimento «del danno anche morale»; Scaccia, che discorre «di limitato effetto dell'intervento parlamentare, che non pretende di negare l'esistenza del reato, ma si accontenta di impedire l'ulteriore corso del procedimento e la possibile applicazione di una sanzione penale», onde la permanenza dell'antigiuridicità «legittima il danneggiato civilmente ad agire per il risarcimento del danno, anche morale, ingiustamente patito»; nello stesso senso, sul versante penalistico, Masera, Sistema penale 3/2025). È opinione di chi scrive (del tutto consonante con la linea di pensiero sposata dalle Sezioni Unite nella sentenza in commento) che il tenore letterale della norma, e prima ancora la stessa ratio legis che fonda la novella costituzionale del 1989, implichino che la sottrazione all'Autorità giudiziaria del suo compito istituzionale di controllo della legalità debba essere rigorosamente circoscritto a quanto espressamente disciplinato extra ordinem e, dunque, non possa estendersi oltre il sindacato del giudice penale. L'assoluta indifferenza, rispetto alla diversa dimensione della responsabilità civile, della pronuncia del Parlamento (che attesta in modo «insindacabile» la presenza di un «preminente» interesse pubblico), così come predicata dalle Sezioni Unite della Corte di legittimità, lungi dall'apparire contraddittoria, distonica, o ancora non conforme a razionalità di sistema, è, di converso, l'inevitabile, imprescindibile, irrinunciabile precipitato di una chimica costituzionale scandita dal rispetto del principio di divisione dei poteri dello Stato. La decisione di un organo politico, pertanto, non può mai estendersi, funzionalmente, al di là del sindacato penale, così che il giudice civile potrà (come sempre) valutare autonomamente l'esistenza di tutti gli elementi di struttura dell'illecito come descritti nella norma primaria di fattispecie dell'art. 2043 c.c. (condotta colpevole, dolosa o colposa; nessi di causalità, materiale e giuridica; lesione ingiustamente dannosa di un interesse tutelato; conseguenze dannose risarcibili), per poi pronunciare una eventuale condanna al risarcimento dei danni. La cristallina motivazione della sentenza delle Sezioni Unite, sia pur in una (non cercata e non voluta) dimensione di eterogenesi dei fini, non può non rammentarci che il principio della separazione dei poteri è linfa vitale di ogni Stato che pretenda di dirsi democratico: «e quel principio postula la piena indipendenza della magistratura, minacciata da pulsioni illiberali sempre più visibili nelle nostre democrazie» (così, del tutto condivisibilmente, Savino e Trimarchi). Siamo al cospetto di un valore che va gelosamente preservato e difeso, specie in oscure stagioni nelle quali i suoi confini sembrano talvolta offuscarsi, perdendo il loro originario nitore, se si pensa che un autorevolissimo rappresentante delle istituzioni giudiziarie, nel suo discorso pronunciato in occasione dell'inaugurazione dell'anno giudiziario in Cassazione nell'anno 2024, ha ritenuto di poter affermare che, oggi, il giudice dovrebbe sentirsi soggetto non più soltanto alla legge, ma anche alla volontà popolare (affermazione che indusse chi scrive a consultare in tutta fretta una copia della Costituzione italiana per controllare se, dall'art. 101, fosse stato nottetempo espunto l'avverbio «soltanto»). Concludendo sul punto con le parole di un illustre processualcivilista (Scarselli), «in uno Stato di diritto, nemmeno gli atti politici possono porsi in violazione dei diritti fondamentali dell'uomo, e se infrange un diritto fondamentale quell'atto, a prescindere dalla sua natura, deve in ogni caso sottostare al controllo dell'autorità giudiziaria, in quanto una soluzione contraria attribuirebbe al potere esecutivo una libertà da ancien régime inaccettabile in una democrazia», volta che, conclude l'autore «la natura politica di una violazione di diritti fondamentali e/o costituzionali costituisce un'aggravante e non esimente, perché, se volgiamo lo sguardo in più parti del mondo, ancor oggi vengono commesse le più aberranti ignominie proprio in ragione della politica». Coerenza e autonomia del sottosistema civilistico Nella sua dimensione strutturale, l'illecito civile si caratterizza, tra l'altro (sugli ulteriori elementi costitutivi della complessiva morfologia dell'illecito civile ci si soffermerà di qui a breve), per gli speculari profili dell'antigiuridicità della condotta e dell'ingiustizia del danno. Sono fin troppo note le (ormai quasi secolari, e mai del tutto sopite) dispute dottrinarie sul tema della struttura dell'illecito, modellato dal legislatore del '42 sul fatto doloso o colposo, e non sul suo autore (come invece è avvenuto negli ordinamenti francese e tedesco: art. 1383 code civil: qui cause…; § 823 BGB: Wer verletz…), che non possono, ovviamente, essere in alcun modo ricordate in questa sede. Basti soltanto rammentare che la categoria dell'antigiuridicità (nella sua duplice dimensione del contra ius e del non iure, e dunque della illiceità: così, tra gli altri, Bianca), non per tutti ha rappresentato un elemento costitutivo dell'illecito (Franzoni), illecito che, in realtà, non si nutrirebbe d'altro che di un criterio di imputazione (per tutti, Castronovo, secondo il quale il legislatore del 1942 si sarebbe limitato a postulare il solo requisito dell'ingiustizia al fine di qualificare l'illecito e il danno, di tal che le eventuali cause di giustificazione di cui agli artt. 2044 - come riformato nel 2019 - e 2045 c.c. si porrebbero in guisa di fattispecie impeditiva, e non costitutiva, della responsabilità civile). Al di là delle dispute teoriche, l'aspetto che maggiormente rileva ai fini del presente scritto è rappresentato dalla ricerca e dalla individuazione di attendibili criteri che costituiscano il predicato dell'ingiustizia. Alcuni tra i più autorevoli studiosi della responsabilità civile, fin dagli anni '70 (Trimarchi; Alpa; ma già nel 1964, Rodotà, nella sua indimenticabile monografia Il problema della responsabilità civile), hanno proposto, nel tempo, sia pur con non lievi diversità di sfumature, un criterio generale di valutazione comparativa (ovvero, in altri termini, di bilanciamento) fra l'interesse leso (o minacciato) dalla condotta dell'agente e lo speculare interesse da lui perseguito - bilanciamento calato in una dimensione anche diacronica, come insegnano le Sezioni Unite della cassazione (Cass. civ., sez. un., 22 luglio 2019, n. 19681 in tema di conflitto tra diritto di cronaca e diritto all'oblio) - da condurre, a dispetto di non poche critiche (alcune assai pregnanti, altre assai poco conferenti e caratterizzate soprattutto da maldestri tentativi di originalità), nel prisma comparato dei diritti inviolabili, dei diritti fondamentali, dei diritti non altrimenti qualificati ed infine degli interessi/valori tutelati in Costituzione (oggi, anche dalle Carte sovranazionali). Tutto ciò con particolare riguardo, da un canto, ai doveri di solidarietà sociale evocati dalle quattro sentenze delle Sezioni Unite della Cassazione del 2008 sul danno non patrimoniale; dall'altro (Busnelli; Navarretta) al divieto di abuso del diritto ed al principio di effettività della tutela giurisdizionale (Bianca – Cass. civ., sez. III, 17 settembre 2013, n. 21255), tutti rappresentativi di un giudizio caratterizzato dalla necessaria elasticità e dall'altrettanto necessaria “relazionalità” ricostruita in base all'ingiustizia del danno, senza peraltro tracimare (osserva acutamente Libertini) «nell'attribuzione al giudice di un potere incontrollabile» (come ancor oggi temono gli epigoni post-weberiani dell'attività giurisdizionale intesa come applicazione rigida ed acritica della norma, e non come interpretazione pulsante di un tessuto normativo in continua evoluzione). «I criteri di soluzione dei conflitti» (osserva, per concludere, l'Autore da ultimo citato) «possono e devono ben essere ispirati a valutazioni di interesse generale, che devono fungere da guida alla decisione del giudice e potranno fondare anche un sindacato di legittimità della decisione stessa, dovendo il giudice dirimere un conflitto concreto fra interessi» in tesi astrattamente legittimi entrambi in termini generali ed astratti. L'esigenza di bilanciamento (e la ricerca dei criteri per realizzarlo) è particolarmente avvertita (Navarretta, che richiama ancora le categorie della correttezza e del divieto di abuso) segnatamente nell'ambito della tutela dei diritti inviolabili (la libertà personale, il domicilio, la corrispondenza, il diritto di difesa) e dei diritti fondamentali (la salute), il che conduce ad esaminare le ulteriori questioni poste dall'ordinanza in commento sul tema dei rapporti tra giudizio penale e giudizio civile (letti nel prisma della causalità) della lesione di diritti costituzionalmente tutelati, della reale morfologia del danno non patrimoniale e della sua risarcibilità, dei principi processuali posti a presidio della prova presuntiva in seno al processo civile. Su di un piano più generale, appare particolarmente efficace e condivisibile l'adozione di un criterio composito (sicuramente applicabile nella valutazione della vicenda della nave Diciotti), come recentemente ed autorevolmente proposto in dottrina (Ambrosini), volto a coniugare «l'individuazione di limiti invalicabili, dati dalla salvaguardia di diritti non comprimibili, con il principio del minimo mezzo», che si sostanzia, secondo l'Autrice, «nella necessità di contenere la compressione del diritto altrui nei limiti di quanto è strettamente necessario al raggiungimento dello scopo o finalità dell'azione confliggente», e ciò alla luce di «una serie di fondamentali indicatori: il principio di solidarietà sociale, espresso dall'art. 2 della Costituzione; il principio di ragionevolezza, espresso dalla costante giurisprudenza costituzionale» (al pari di quella di legittimità); «il principio del divieto di abuso, che, pur non presente in una norma di carattere generale, si ritiene vigente in un sistema giuridico complesso, ed appare espressamente richiamato dalla Carta dell'UE (art. 54); il principio di proporzionalità dettato dall'art. 52 della medesima Carta, che considera possibili le limitazioni ai diritti fondamentali solo laddove siano necessarie e rispondano a finalità di interesse generale o all'esigenza di proteggere i diritti e le libertà altrui». Qualora la compressione sia possibile, conclude del tutto condivisibilmente l'Autrice, «dovrà in ogni caso essere osservato il parametro del minimo mezzo al fine di operare la comparazione o il bilanciamento degli interessi confliggenti», mentre dovrà ritenersi sempre e comunque esclusa «la possibilità di incidere su diritti» (a tutela costituzionale rafforzata, va aggiunto) «la cui compressione comporti la loro lesione irreversibile». Per concludere sull'argomento, non può essere dimenticato lo storico arresto di una illuminata e illuminante Corte Costituzionale (Corte Cost., 10 aprile 2001, n. 105), là dove stigmatizza —nella diversa, ma contigua ipotesi a quella di specie, del trattenimento illegittimo — «quella mortificazione della dignità dell'uomo che si verifica in ogni evenienza di assoggettamento fisico all'altrui potere e che è indice sicuro dell'attinenza della misura alla sfera della libertà personale. Né potrebbe dirsi che le garanzie dell'articolo 13 della Costituzione subiscano attenuazioni rispetto agli stranieri, in vista della tutela di altri beni costituzionalmente rilevanti. Per quanto gli interessi pubblici incidenti sulla materia della immigrazione siano molteplici e per quanto possano essere percepiti come gravi i problemi di sicurezza e di ordine pubblico connessi a flussi migratori incontrollati, non può risultarne minimamente scalfito il carattere universale della libertà personale, che, al pari degli altri diritti che la Costituzione proclama inviolabili, spetta ai singoli non in quanto partecipi di una determinata comunità politica, ma in quanto esseri umani». Giudizio penale e civile: la questione dei nessi di causa «Omissis (...) Sicché può dirsi che, anche sotto l'aspetto della complessiva coerenza del sistema, la tesi che alla parola “reato” attribuisce il significato di fatto (solo) astrattamente previsto come tale dalla legge risulta certamente non estranea alla stessa giurisprudenza, pur richiamata dal rimettente a sostegno della contraria opinione. Né, d'altro canto, potrebbe ancora invocarsi, quale argomento a favore della tesi opposta, una asserita prevalenza della giurisdizione penale rispetto a quella civile. L'art. 75 cod. proc. pen. ha definitivamente consacrato il principio di parità delle giurisdizioni, cosicché perfino la possibilità di giudicati contrastanti in relazione al medesimo fatto, ai diversi effetti civili e penali, costituisce evenienza da considerarsi ormai fisiologica». Fu così che si espresse la Corte costituzionale (con parole che sembrano ancor oggi scolpite nella stele del tempo, anche se troppo spesso ignorate dai tanti giuristi ancora preda di improbabili nostalgie dell'età dell'oro del panpenalismo) al punto 3.3. della sentenza n. 233 (Corte Cost., 11 luglio 2003, n. 233, sulla quale si tornerà nell'esaminare la morfologia del danno non patrimoniale), in un felice giorno di luglio del 2003. La questione dei rapporti tra giudizio penale e giudizio civile sembrò definitivamente risolta all'indomani di una pronuncia del giudice delle leggi che non lascia(va) spazi a dubbi di sorta: le strade del processo civile e di quello penale si erano definitivamente separate ed era (definitivamente?) tramontata quella pretesa auctoritas delle decisioni penali cui tributare ossequio da parte del giudice civile. Eppure, quella (dolorosa?) separazione ricorda da presso, a non pochi studiosi di diritto penale (e non senza qualche eccezione tra gli stessi civilisti), il folgorante monologo di Aristofane che, nel Simposio, narra di una antica unità dell'essere poi dolorosamente divisa, di tal che i due corpi separati a metà ancora si cercano nel mondo per riunirsi ancora in un disperato anelito di unità ritrovata. L'indagine sui nessi di causa in sede civile (e sulla relativa prova per presunzioni) può prendere le mosse (prima ancora che dall'esame del contenuto delle presunte “regole” che disciplinano la causalità) da quanto l'autorevole estensore della sentenza Franzese scrisse, in un essenziale passaggio della motivazione, a proposito dei principi di causalità penalmente rilevante, ritenendoli «applicabili anche nel distinto settore della responsabilità civile, a differenza di quanto avviene per il diritto anglosassone e nordamericano». Se l'evoluzione della giurisprudenza civile non è apparsa consonante a questa autoreferenziale estensione di principi fin dalla sentenza Cass. civ., sez. III, 4 marzo 2004, n. 4400 - che riconobbe altresì cittadinanza, nel nostro ordinamento, sia pur in via interpretativa, alla enigmatica fattispecie della perdita di chance - non è poi certo che tale dissonanza debba perpetuarsi all'infinito, se si pensa che, ancora nel 2008, le sezioni unite civili della Corte di legittimità ancora eleveranno a dignità di regole di causalità gli artt. 40 e 41 c.p., per poi applicare (con scarsa consequenzialità logica, e soprattutto senza dare conto alcuno delle relative ragioni) una diversa “regola” (soltanto) funzionale: «ciò che muta rispetto al diritto penaleè la regola probatoria». Radicata nel tempo la diffusa persuasione che la disciplina civilistica fosse destinata ad una inevitabile subalternità rispetto agli itinerari di pensiero propri del diritto penale, era in questo territorio dell'ordinamento che si rinvenivano, secondo la generale opinione (anche dei civilisti), le vere ed uniche regole della causalità. Ma una sempre meno appagante disomogeneità di criteri e di riflessioni si rivelerà (talvolta latente) nelle pieghe della stessa giurisprudenza civile di legittimità, sempre più spesso chiamata a risolvere, in materie assai delicate come l'infortunistica o la responsabilità professionale (quest'ultima efficacemente definita, per quel che riguarda la malpractice medica, un vero e proprio “sottosistema” di responsabilità civile, caratterizzato da un regime del tutto peculiare e trans-tipico, dove sempre più evanescenti apparivano confini e frontiere tra i concetti classici di obbligazione di mezzi e di risultato, di colpa, di prova, di danno ingiusto), singole quanto complesse vicende, umane prima che processuali, le cui specificità mal sopportavano architetture monolitiche, simbolo di ingannevoli unità e di poco probabili consonanze di giudizi. Di qui il contrasto, non solo apparente, e assai più che fisiologico, tra decisioni recenti della stessa Corte di legittimità, tuttora espressione non univoca di soluzioni meritevoli di ben più ampio respiro, e l'esigenza di un confronto (che si dipani non soltanto sul terreno meramente funzionale della prova) tra criteri di “accertamento” del nesso di causa nel diritto civile e in quello penale, alla luce della mai sufficientemente esplorata inesistenza di una regola causale in seno all'ordinamento italiano (e non solo), tale non potendosi ritenere la locuzione, contenuta nell'art. 40 c.p., «conseguenza della sua azione od omissione». È allora compito dell'interprete ripercorrere regioni e ragioni di pensiero che possano condurre a una (forse) più soddisfacente reductio ad unum delle coordinate teoriche entro le quali muoversi in tema di nesso causale (e della sua prova) quando si è di fronte al tema della responsabilità civile, pur senza cedere ad un improvviso anelito di silenziosa diserzione dall'esprit de géométrie caro al giuspositivismo logico, e senza indulgere alla sconsolata affermazione di due celebri autori anglo-sassoni, secondo cui, nell'universo del torto civile, causation is a peg on which the judge can hang any decision he likes. L'analisi giuridica del nesso causale ricostruisce dunque, nella sua dimensione strutturale e poi probatoria, attraverso un'indagine inevitabilmente diversa da quella di matrice scientifica, una realtà fenomenica in termini di esistenza/inesistenza, secondo quella che la dottrina anglosassone definisce the all or nothing rule, sulla base di criteri potenzialmente dissonanti (il “non essere” può tramutarsi inopinatamente in “essere”, nella dialettica tra giudice penale e giudice civile) nell'ambito della medesima dimensione sovrastrutturale del diritto, a seconda dei sotto-settori in cui si opera. È già assai difficile accettare, nella destrutturazione e ricomposizione a fini valutativi di una realtà fenomenica, che l'operatore del diritto, diversamente dallo scienziato e dall'uomo comune, pervenga talvolta a negare l'essere affermando il non-essere, lasciando perplesso chi è avvezzo ad interrogarsi soltanto sulle spiegazioni dei fatti - mentre al giurista, e più di ogni altro al giudice, accade sovente di dover procedere a un'analisi destinata a dipanarsi attraverso una più complessa operazione di pensiero scandita dalla sequenza "cognizione - valutazione - spiegazione - decisione". Inquietante, e a prima vista non accettabile, è l'immagine del giudice penale che manda assolto un imputato per difetto di nesso causale tra la condotta e l'evento mentre il giudice civile, chiamato a valutare la stessa vicenda, la medesima realtà fenomenica ormai divenuta realtà processuale, condanna l'autore del fatto al risarcimento del danno, ritenendo che quel nesso di causa esista. Il problema della oggettività dell'analisi e dello “scarto di verità” nella dimensione meta-fenomenica del processo, che si avverte con maggiore intensità sul piano della prova, è questione assai delicata. Alla dissonanza tra la verità del fatto e il fatto processualmente provato è sicuramente avvezzo il giurista che operi, rispettivamente, nel territorio del diritto penale e in quello del diritto civile. Lo scarto di verità tra la realtà e la sua attrazione nella dimensione del giuridicamente rilevante è rivisitazione di fatti sul piano della prova, precipitato di una chimica di rielaborazione del reale piegato alle regole sintattiche proprie del processo - senza per questo scivolare nella negazione del reale per far posto ad una supposta coerenza narrativa di fatti al di là della sua corrispondenza alla loro verità. Ma nell'analisi, strutturale e probatoria, del nesso causale, la stessa speculare dimensione della sua esistenza/inesistenza sconta l'apparente aporia logica per la quale un fatto è stato già esaminato da un giudice (penale), ed un altro giudice si rende artefice di una nuova verifica, trasformando il non essere (il giudice penale assolve per difetto di prova sul nesso causale) in essere (il giudice civile condanna al risarcimento perché ritiene provato il nesso causale per lo stesso fatto). Se una inquietudine semplice può derivare (ed essere ragionevolmente elaborata) per vicende di ordinaria distonia endoprocessuale (le prove nulle nel processo penale; la simulazione nel processo civile), disarmonie fisiologiche conseguenti alla trasposizione di una realtà fenomenica nella sfera del rilevante giuridico (dal fatto al processo), una inquietudine complessa in tema di causalità nasce invece dalla (inaccettabile?) decostruzione e ricostruzione di un fatto già “giuridicizzato” poiché già valutato “sovrastrutturalmente” da un giudice. Se un fatto è già stato esaminato e valutato da giudice penale - sicché al mondo della realtà sensibile si è già sostituito il mondo del diritto con le sue regole probatorie di conversione - non sembra, a prima vista, seriamente sostenibile che un altro giudice, pur se operante in un diverso sottosistema, si renda legittimo artefice di una nuova verifica che conduca, in ipotesi, ad un risultato di segno opposto. Se pure si abbandonassero per un istante i principi logici di identità e di non contraddizione, la soluzione non sarebbe meno inquietante. Si è già osservato come sia stata la stessa Corte costituzionale ad enucleare, nel 2003, un principio di disomogeneità tra giurisdizioni, certificando così il definitivo tramonto dell'ormai irrealistico panpenalismo domestico. Ebbene, l'accertamento penale non può essere di ostacolo al giudice civile nella rivalutazione del fatto, proprio (e soltanto) in relazione a quel segmento dell'elemento oggettivo dell'illecito, il nesso di causa, che conosce ed obbedisce, nel processo civile, sul piano della prova, a regole sue proprie. In consonanza con i più attendibili dicta dei filosofi della scienza e del diritto, va allora affermato che non esiste una nozione ultima e genuina di causalità, termine il cui significato varia a seconda del contesto storico, onde ciascuna disciplina forgia il concetto di nesso eziologico che maggiormente risponde alle sue esigenze e alle sue finalità. Ed ancora, specularmente, va finalmente affermato, denudando il Re, che non esiste una regola causale nel nostro ordinamento - inesistenza che costituisce l'indispensabile premessa logica per tracciare un legittimo percorso di separazione tra causalità penale e causalità civile, sulla base di principi storicamente elastici e non di (inesistenti) regole di causalità. L'autonomia della causalità civile, premessane la dimensione di ontologica diversità concettuale rispetto a quella penale, si fonda, sul piano funzionale:
Tanto premesso sul piano della struttura della causalità civile, l'interprete potrà finalmente disporsi ad applicare, forse con minore inquietudine, i criteri funzionali (i.e., probatori) della probabilità prevalente (che corrisponde alla formula anglosassone della preponderanza dell'evidenza), e del più probabile che non, sulla imprescindibile premessa secondo la quale non esistono, nel nostro ordinamento (e non solo) regole causali (tale non essendo quella di cui all'art. 40 c.p., contrariamente a quanto coralmente declamato da tempo immemorabile dalla dottrina e dalla giurisprudenza penalistica e civilistica), ma soltanto principi eziologici, dotati di elasticità e flessibilità sotto il profilo tanto storico quanto di politica del diritto. Il criterio probabilistico, nella sua duplice accezione (preponderanza dell'evidenza - probabilità relativa), è oggi, in sede civile, la regola probatoria destinata a coniugarsi con le regole di tipo strutturale poc'anzi ricordate. È evidente che regole di struttura (regolarità causale, rischio tipico e suo aumento, scopo della norma violata, allocazione definitiva del danno) e regola probatoria sono strumenti di analisi processuale che interagiscono tra loro, così che, stabilita, ove possibile, l'astratta relazione eziologica in base alle regole di struttura sul piano della causalità generale (alla luce di regole statistiche, scientifiche, logiche), si passa all'analisi funzionale di quella stessa relazione sul piano del singolo caso concreto: eppure, in mancanza di una “regola di copertura” sul piano della causalità generale, il giudizio non deve necessariamente arrestarsi qualora l'indagine probabilistica applicata con riferimento al caso concreto possa condurre, comunque, a positiva soluzione, in ordine alla predicabilità del nesso eziologico tra condotta ed evento. Il danno non patrimoniale: tra sofferenza e relazione «Omissis (…) Giova al riguardo premettere - pur trattandosi di un profilo solo indirettamente collegato alla questione in esame - che può dirsi ormai superata la tradizionale affermazione secondo la quale il danno non patrimoniale riguardato dall'art. 2059 cod. civ. si identificherebbe con il cosiddetto danno morale soggettivo. In due recentissime pronunce (Cass. civ., sez. III, 31 maggio 2003, nn. 8827 e 8828), che hanno l'indubbio pregio di ricondurre a razionalità e coerenza il tormentato capitolo della tutela risarcitoria del danno alla persona, viene, infatti, prospettata, con ricchezza di argomentazioni - nel quadro di un sistema bipolare del danno patrimoniale e di quello non patrimoniale - un'interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 2059 cod. civ., tesa a ricomprendere nell'astratta previsione della norma ogni danno di natura non patrimoniale derivante da lesione di valori inerenti alla persona: e dunque sia il danno morale soggettivo, inteso come transeunte turbamento dello stato d'animo della vittima; sia il danno biologico in senso stretto, inteso come lesione dell'interesse, costituzionalmente garantito, all'integrità psichica e fisica della persona, conseguente ad un accertamento medico (art. 32 Cost.); sia infine il danno (spesso definito in dottrina ed in giurisprudenza come esistenziale) derivante dalla lesione di (altri) interessi di rango costituzionale inerenti alla persona» (Corte Cost., 11 luglio 2003, n. 233, punto 3.4.) * Ritessere la tela di Penelope del danno alla persona è opera paziente di ricerca di un Senso mentre tante forze di pensiero (?), centrifughe e centripete, si affannano ad alterarne irrimediabilmente (talvolta grossolanamente) la sua dimensione di Realtà al tempo della Costituzione Repubblicana, quando la persona e non il patrimonio assumerà un ruolo centrale nell'universo del tutelabile e del risarcibile, pur se resta amara la consapevolezza che compito del giurista è l'avvilente trasformazione del dolore in denaro. Al di là e a prescindere dalla ricerca di non indispensabili tassonomie, ciò che conta è l'indagine sulla reale fenomenologia del danno alla persona, negando la quale il giudice rischia di incorrere in un errore assai grave, quello di sostituire una sovrastruttura di pensiero annebbiata dalla precomprensione alla realtà ed alla verità della vita umana. Oggetto del processo civile, quando il giudice è chiamato ad occuparsi della persona e dei suoi diritti fondamentali, a prescindere dalla sua provenienza e dal colore della sua pelle, è, nel prisma polimorfo del danno non patrimoniale, la sofferenza umana e le relazioni umane,accertate come conseguenze della lesione di un diritto costituzionalmente protetto - e tali conseguenze non sono mai catalogabili secondo universali quanto vieti automatismi, poiché non esiste una tabella universale della sofferenza. In questa semplice realtà naturalistica si cela la risposta (e la conseguente, corretta costruzione di categorie che non cancellino la fenomenologia attraverso sterili formalismi pseudo-unificanti) all'interrogativo circa la reale natura e la vera, costante, duplice essenza del danno alla persona in tutte le vicende che hanno visto ledere un diritto costituzionalmente protetto:
La questione si sposta così sul piano della allegazione e della prova del danno, la cui formazione in giudizio postula, ancora una volta, la consapevolezza della unicità e irripetibilità della vicenda sottoposta alla cognizione del giudice, altro non significando il richiamo «alle condizioni soggettive del danneggiato» che il legislatore ha opportunamente trasfuso in norma. Prova che, come condivisibilmente rammentato delle sentenze delle sezioni unite del 2008, potrà essere fornita senza limiti, e dunque avvalendosi anche delle presunzioni, delle massime di esperienza e del notorio - se del caso, anche in via esclusiva. Di tali mezzi di prova il giudice di merito potrà disporre alla luce di una ideale scala discendente di valore dimostrativo, volta che essi, in una dimensione speculare rispetto alla gravità della lesione, rivestiranno efficacia tanto maggiore quanto più sia ragionevolmente presumibile, sulla base della gravità della condotta e della “intensità costituzionale” del diritto tutelato, la gravità delle conseguenze, intime e/o relazionali, sofferte dal danneggiato. Il fascino dolente dell'universo del danno alla persona sta nella sua irredimibile “uguaglianza”. Tutti uguali, donne e uomini, di fronte alla sofferenza, senza distinzioni di sesso, di razza, di lingua, di religione, di colore della pelle, di Paesi d'origine. Nella dimensione del processo, c'è da sperare, vorremmo non leggere più, in tante sentenze, che « la parte non ha provato », e poi verificare che, nelle fasi istruttorie, non sono stati ammessi i mezzi di prova richiesti. Esiste, infatti, uno straordinario argomento di prova, l'interrogatorio libero previsto dall'art. 117 del codice di rito, che certamente non può essere sempre utilizzato, ma che, in alcuni casi, può essere di grande efficacia (e di probabile conforto) per chi attende un giudizio e una sentenza: ascoltare la persona, vederla fisicamente, guardarla negli occhi, ascoltarne il narrato, comprenderne il vissuto: poi, decidere. Prova presuntiva e limiti del giudizio di Cassazione Poste le basi del ragionamento probatorio inteso come corrispondenza alla verità relativa della causalità in seno al processo, la questione si sposta sulla individuazione dei limiti e dei criteri che consentano una decisione corrispondente, sia pur per approssimazione, alla realtà/verità del fatto e, più specificamente, con riferimento alla prova del nesso di causa, alla realtà/verità di una relazione ideale tra fatti secondo il modello inferenziale prescelto in un dato momento storico. Va osservato, in premessa, come il termine “indizio”, pur non di rado utilizzato nel lessico civile, sia in realtà normativamente disciplinato dall'art. 192 n. 2 c.p.p., mentre, in ambito civilistico, non sempre assuma connotati precisi - talvolta confondendolo con le presunzioni, a causa del non felice dictum legislativo di cui all'art. 2729 c.c., talaltro identificandolo con il fatto (secondario) che equivalga al fatto noto, fonte di presunzione semplice. Nel tentativo di offrire (anche a futura memoria: infra, par. Il giudizio di rinvio) un maggior rigore terminologico alle singole componenti della prova presuntiva, si potrà attribuire:
Non rilevando, ai fini del presente scritto, le categorie della presunzione legale (assoluta o relativa) e delle finzioni, l'indagine può prendere le mosse dal tipo di collegamento che deve intercorrere tra il fatto noto e il fatto ignoto: se, cioè, deve trattarsi di un nesso di implicazione necessaria (dato un fatto noto, ne discende con certezza l'esistenza del fatto ignoto), ovvero di una relazione di consequenzialità probabile, fondata su massime di esperienza che, pur instaurando una relazione tra categorie di fatti, non comporta l'esistenza necessaria, in ogni singola ipotesi, del fatto ignoto, affermandosene invece l'esistenza nella maggior parte dei casi. Esclusi dal novero delle ipotesi rilevanti, sul piano inferenziale, in sede di accertamento presuntivo del fatto ignoto, i concetti di certezza assoluta (o “morale”) e di semplice possibilità, l'attenzione dell'interprete si volge alla individuazione di una soddisfacente definizione di probabilità e del suo relativo “grado”, a prescindere e al di là dalla sua nozione astratta intesa come «fantomatica categoria intermedia tra il vero e il falso o tra il certo e l'incerto», bensì nell'unica accezione giuridicamente rilevante, e cioè come ipotesi probabilistica tale da costituire una accettabile e argomentabile verità processuale fondata su basi razionali e conoscitive di comprovata solidità logica. L'indagine può proseguire attraverso l'analisi degli elementi caratterizzanti i fatti posti a fondamento del ragionamento presuntivo, e cioè la gravità, la precisione, la concordanza, non senza osservare, in premessa, come tali requisiti, che il legislatore civile attribuisce (impropriamente) alle presunzioni, siano assai più correttamente riferiti, dal legislatore penale, agli indizi da cui dedurre l'esistenza del factum probandum (art. 192, comma 2, c.p.p.). Sul piano logico, mentre i primi due requisiti appaino compatibili con la presenza, in seno al processo, di un unico fatto indiziante, la concordanza indiziaria sembra escludere tale possibilità, volta che l'art. 2729 c.c. elenca congiuntamente e non disgiuntivamente tutti e tre i presupposti della prova presuntiva. La precisione indiziaria è sintagma che sembra deporre nel senso della necessità che il fatto storico da cui muove il ragionamento inferenziale sia certo, e non soltanto probabile o possibile. La gravità indiziaria, che sembra ripetere il proprio significato dalla indicazione contenuta nel già ricordato art. 192, comma 2, c.p.p., va invece riferita alla forza, all'idoneità, alla pertinenza dimostrativa del singolo fatto indiziante - sul presupposto della sua certa esistenza storica - tale da offrire al giudice il necessario grado di attendibilità oggettiva in previsione della successiva valutazione sintetica dell'intero coacervo indiziario. La concordanza indiziaria è il requisito la cui definizione (e la cui stessa predicabilità) appare altamente problematica, da un canto, perché la relativa qualificazione postula un giudizio logico-inferenziale riferibile tanto ai fatti indizianti quanto al ragionamento probatorio presuntivo che, dopo averli collegati tra loro, giunge alla conclusione della esistenza/inesistenza del fatto ignoto; dall'altro, perché non sembra corretto riferirlo, in senso assoluto, a tutti i fatti indizianti, interpretandolo in guisa di necessità che tutti convergano univocamente nella medesima direzione. Più corretto sembra, invece, ritenere sufficiente che alcuni di essi indirizzino verso la medesima conclusione, qualora la forza dimostrativa degli altri non sia tale da attribuire un grado di conferma superiore rispetto ai primi (così orientando erroneamente la decisione nel senso della non esistenza del fatto da provare). Il requisito della concordanza, pertanto, non va inteso in senso assoluto, bensì in termini di prevalenza logica relativa, e può risultare non necessario nei casi in cui, tra i vari fatti indiziari, ve ne sia uno dotato di tale efficacia dimostrativa da attribuire un sufficiente grado di conferma all'ipotesi circa il fatto da provare: si pensi alla perdita violenta di un figlio ed alla gravità ed esaustività di tale factum probans al fine di ritenere accertato il fatto ignoto del danno non patrimoniale, nonostante l'esistenza di altri fatti contrari in seno al processo, ovvero alla privazione della libertà personale per una persona migrante giunta al termine di un viaggio ai confini dell'incubo: in tal caso la concordanza indiziaria può risultare non necessaria, se altri fatti indizianti si caratterizzino per attribuire all'ipotesi contraria un grado di conferma assai debole. Il principio della probabilità logica prevalente consentirà di ritenere provato il fatto ignoto, pur in presenza di fatti - ed inferenze presuntive - dissonanti. Alla luce di queste considerazioni, può affrontarsi e risolversi il discusso tema circa il carattere soltanto eventuale, e non anche necessario, del requisito della concordanza nella prova presuntiva, sostenendosi, specie in giurisprudenza, le legittimità di un'affermazione di verità del fatto da provare conseguita anche sulla base di un unico factum probans. Tale soluzione, meno restrittiva, tanto sul piano logico quanto su quello della razionalità del giudizio, non sembra illegittima (nonostante lo specifico dictum legislativo), non essendovi ragioni per negare che una singola presunzione, purché ritenuta grave e precisa nei sensi poc'anzi indicati, possa attribuire essa sola un grado di conferma tale da farla ritenere sufficiente (e pertanto equivalente) alla prova del fatto - la concordanza riespandendo tout court la propria funzione soltanto quando nessun fatto indiziante sia da solo sufficiente a fornire un'adeguata conferma dell'ipotesi di esistenza del factum probandum. Il giudizio di rinvio Come saranno applicati, in sede di rinvio, i cristallini principi di diritto enunciati dalle Sezioni Unite della Corte di legittimità in uno dei suoi più autorevoli grands arretes degli ultimi anni? Già sembra levarsi, in dottrina, l'eco lontana di accorate perplessità sul tema della legittimazione (rectius, titolarità) ad agire delle persone migranti, dell'accertamento della colpa (senza considerare l'ipotesi di una pur possibile, e ben diversa, caratterizzazione dell'elemento soggettivo dell'illecito), della causalità e, soprattutto, della prova del danno non patrimoniale. Tralasciando altre tematiche, va svolta qualche ulteriore riflessione sui profili risarcitori della vicenda Diciotti. Si paventa, in proposito, che il giudice di legittimità abbia riformato la sentenza della Corte di appello di Roma (le cui inconsistenti motivazioni avrebbero, peraltro, ricevuto una convinta adesione da parte dell'ufficio della procura generale della Cassazione in sede di conclusioni scritte) evidenziandone l'errore di diritto in cui sarebbe incorsa in punto di asserita mancanza di allegazione e prova del danno. Senza ripetere quanto già lungamente esposto in tema di morfologia del danno alla persona e di prova per presunzioni, vale ancora la pena osservare, su di un piano più strettamente processuale, come siano del tutto immaginarie le perplessità sollevate «sul tema della prova del danno, poiché la decisione della Corte sembrerebbe non aver tenuto conto dei limiti circa il controllo della Cassazione della valutazione delle prove posta in essere dal giudice di merito», essendosi le Sezioni Unite addirittura attribuite «margini di intervento normalmente considerati preclusi», pronunciando «in ambiti nei quali normalmente il ricorso per Cassazione è inammissibile» (Scarselli: si citano, a sostegno della tesi dell'inammissibilità del ricorso, due recenti pronunce della Corte di legittimità, la Cass. civ., sez. III, 22 maggio 2024, n. 14207 e la Cass. civ., sez. III, 16 gennaio 2025, n. 1033). Per altro verso, si paventa (Savino - Trimarchi) che i giudici romani in sede di rinvio possano addirittura «ribadire quanto già rilevato in appello, e cioè che, nel caso di specie, gli appellanti non avevano né allegato né provato, nemmeno per presunzioni, i danni subiti», così che «l'astratta risarcibilità del danno affermata dalle Sezioni Unite potrebbe non tradursi, nel caso concreto, in un effettivo risarcimento» (nel qual caso, le Sezioni Unite avrebbero emesso una pronuncia del tutto inutile, sonnecchiando non poco su tale, decisivo aspetto processuale, di per sé ostativo a qualsiasi tipo di accoglimento del ricorso). Quanto «ai margini di intervento normalmente preclusi alla Cassazione in tema di valutazione della prova», i richiamati principi recentemente affermati dalla Corte di legittimità in tema di prova presuntiva con la sentenza Cass. civ., sez. III, 22 maggio 2024, n. 14207, al di là e a prescindere dalla loro integrale condivisibilità (stante la assai discutibile “residualità” delle ipotesi di censura), non sembrano affatto applicabili al caso di specie, che riguarda (come cristallinamente ricordato dalle Sezioni Unite a f. 40 dell'ordinanza che si commenta) non già la valutazione della prova indiziaria, ma la falsa applicazione dei principi affermati dalla stessa Corte di legittimità in tema di prova presuntiva del danno non patrimoniale (a tacere della sostanziale inesistenza della motivazione della sentenza di appello, che si pone ben al di sotto di quel minimo costituzionale evocato dalle Sezioni Unite con la sentenza Cass. civ., sez. un., 7 aprile 2014, n. 8053). La censura di violazione e/o falsa applicazione dell'art. 2729 c.c., ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., difatti, inevitabilmente accolta dal collegio, evidenziava come, nel caso di specie, il ragionamento probatorio non si fosse concretizzato in una diversa ricostruzione delle circostanze fattuali, ovvero nella prospettazione di una inferenza probabilistica diversa rispetto a quella rappresentata dalla parte, ma si fosse precocemente inaridito nella immotivata negazione non tanto del valore di presunzione degli elementi raccolti, quanto addirittura dell'esistenza e consistenza del danno lamentato, senza alcun confronto né con le circostanze di fatto emerse nel corso del giudizio né con i principi più volte predicati dal giudice di legittimità in tema di valutazione della prova presuntiva. Un ragionamento probatorio, in definitiva, totalmente inesistente. Risulta del tutto omesso, in particolare, il procedimento logico che il giudice del merito è obbligato a percorrere in tema di prova per indizi, di cui si è detto in precedenza (supra, par. 6). I principi applicabili in tema di prova presuntiva del danno non patrimoniale sono stati efficacemente scolpiti dalla sentenza Cass. civ., sez. III, 10 novembre 2020, n. 25164, sulla indiscutibile premessa secondo la quale, considerata la dimensione eminentemente soggettiva ed interiore del pregiudizio risarcibile, il perimetro logico di un ragionamento probatorio di tipo presuntivo risulta particolarmente esteso, tanto più per una vicenda dai contorni fattuali chiari come quella della nave Diciotti. Fermo restando l'assoluta incomprensibilità della prima affermazione contenuta nella sentenza della Corte territoriale, secondo la quale sarebbe mancata perfino l'allegazione dei danni scaturenti dai fatti (affermazione che avrebbe potuto condurre il ricorrente - prima della recente ed assai oscura pronuncia delle Sezioni Unite sul travisamento della prova - a lamentare un vizio della sentenza ex artt. 115 e 116 c.p.c. come assai più correttamente interpretati nell'ordinanza di rimessione della terza sezione della Corte Cass. civ., sez. III, 27 aprile 2023, n. 11111), è stata proprio la mancata applicazione dei principi predicati dalla sentenza Cass. civ., sez. III, 10 novembre 2020, n. 25164 a consentire (rectius, ad imporre) l'annullamento della pronuncia della Corte capitolina. Non di valutazione della prova (in ipotesi erronea), che è cosa diversa dalla valutazione del fatto, ma di falsa applicazione di un paradigma probatorio del tutto in contrasto con i principi dettati in tema di prova del danno alla persona – oltre che di totale assenza della motivazione, come rilevato ai ff. 33 e 34 dell'ordinanza in commento – è lecito discorrere, ora per allora, ora e de futuro: come affermato nella più volte citata sentenza Cass. civ., sez. III, 10 novembre 2020, n. 25164: «esiste, difatti, nel territorio della prova dei fatti allegati, un ragionamento probatorio di tipo presuntivo, in forza del quale al giudice è consentito di riconoscere come esistente un certo pregiudizio in tutti i casi in cui si verifichi una determinata lesione - sovente ricorrendosi, a tal fine, alla categoria del fatto notorio per indicare il presupposto di tale ragionamento inferenziale, mentre il riferimento più corretto ha riferimento alle massime di esperienza (i fatti notori essendo circostanze storiche concrete ed inoppugnabili, non soggette a prova e pertanto sottratte all'onere di allegazione). La massima di esperienza, difatti, non opera sul terreno dell'accadimento storico, ma su quello della valutazione dei fatti, è regola di giudizio basata su leggi naturali, statistiche, di scienza o di esperienza, comunemente accettate in un determinato contesto storico-ambientale, la cui utilizzazione nel ragionamento probatorio, e la cui conseguente applicazione, risultano doverose per il giudice, ravvisandosi, in difetto, illogicità della motivazione, volta che la massima di esperienza può da sola essere sufficiente a fondare il convincimento dell'organo giudicante. Tanto premesso, non solo non si ravvisano ostacoli sistematici al ricorso al ragionamento probatorio fondato sulla massima di esperienza specie nella materia del danno non patrimoniale, e segnatamente in tema di danno morale, ma tale strumento di giudizio consente di evitare che la parte si veda costretta, nell'impossibilità di provare il pregiudizio dell'essere, ovvero della condizione di afflizione fisica e psicologica in cui si è venuta a trovare in seguito alla lesione subita, ad articolare estenuanti capitoli di prova relativi al significativo mutamento di stati d'animo interiori da cui possa inferirsi la dimostrazione del pregiudizio patito». Una valutazione calata in una dimensione di senso e di significato complessivamente intesi (quae singula non possunt, collecta iuvant) dovrà seguire, peraltro, un criterio di unitarietà argomentativa e non di sistematico frazionamento, logico e sintattico, del materiale probatorio. Se, considerato isolatamente, ogni frammento probatorio può non essere ritenuto sufficiente a pervenire ad un giudizio complessivo di risarcibilità di un danno non patrimoniale, è l'insieme intrinseco delle connessioni logiche tra fatti a dover formare oggetto di analisi, complessiva e non parcellizzata e/o relativizzata rispetto ad ogni singolo fatto che impedisca di pervenire ad un giudizio che non sia il frutto di una inaccettabile precomprensione in negativo dei fatti. Appare di utile insegnamento, in proposito, il caso Khlaifa v. Italia, non dissimile, per alcuni aspetti, dal caso Diciotti, in esito al quale la Corte EDU, rilevata l'illegittimità del trattenimento di alcuni migranti tunisini a bordo di navi ormeggiate nel porto di Palermo nel 2011, ha condannato l'Italia per violazione dell'art. 5 CEDU, sulla premessa dell'evidente arbitrarietà delle misure restrittive imposte per atto amministrativo. L'applicazione dei principi in tema di ragionamento probatorio del genere sillogistico-deduttivo - ovvero (se si preferisce) della speculare tipologia inferenziale-induttiva - non potrà che condurre il giudice di merito a (ri)considerare tutte le allegate circostanze del caso, tra le quali:
…E poi infine la storia, i trascorsi, le vicissitudini, le atrocità vissute dalle persone migranti, tra cui donne e bambini, forzatamente recluse per giorni e giorni a bordo di una nave dopo giorni e giorni passati in mare, nella lucida, amara, rassegnata consapevolezza di potere perdere la vita in ogni momento per l'inclemenza della natura o per l'insipienza dell'uomo. Si fa fatica ad immaginare come una simile attività valutativa, condotta alla luce delle norme e dei principi dettati in tema di prova presuntiva, possa condurre ad valutazione men che positiva tanto della predicabilità dell'evento di danno (la lesione di un diritto inviolabile costituzionalmente tutelato) nella sua indiscutibile dimensione dell'ingiustizia, quanto delle relative conseguenze dannose, riconducibili a quell'evento (la sofferenza morale nel sentirsi nuovamente prigionieri dopo aver sfidato la morte e prima ancora la tortura, l'incomprensibile impossibilità di potersi muovere liberamente verso una terra finalmente raggiunta, eventualmente al fine di iniziare le procedure per il riconoscimento del diritto di asilo), anche alla luce di quelle circostanze messe opportunamente in luce in dottrina. Una considerazione finale, sulla rilevanza probatoria dei fatti in relazione al tipo di diritto costituzionalmente tutelato del quale si denunci la violazione. Esiste una scala discendente di intensità (ed uno speculare principio di proporzionalità probatoria inversa), dettata dalla Costituzione attraverso la qualificazione di un diritto come inviolabile, fondamentale, ovvero tutelato sic et simpliciter senza ulteriori specificazioni. È evidente che un diritto inviolabile prima (la libertà), un diritto fondamentale poi (la salute), godono di una tutela costituzionale “rinforzata” in caso di lesione: al netto di vicende bagatellari (ritardi di navi, di treni, di aerei; viaggi amicali non andati a buon fine; spaventi da turbolenze aeree) pur talvolta inopinatamente prese in considerazione persino dal giudice di legittimità, la privazione della libertà personale e la violazione della salute di un individuo (che sia un cittadino o che sia un migrante) rappresentano altrettanti vulnera arrecati ad un diritto inviolabile o ad un diritto fondamentale, collocati dal Costituente al vertice di una ideale scala di valori tutelati. Ancor prima di essi, è probabile che un diritto non dichiarato inviolabile né fondamentale, ma caratterizzato da una (laica) Sacralità sia quello di un genitore a non vedersi costretto a sopravvivere al proprio figlio (ed a sé stesso nel mondo), e si ponga addirittura al di sopra di quel vertice. Ma è nel silenzioso confronto (giuridico e non) con tali vicende umane che la sensibilità (giuridica e non) dell'interprete deve attrezzarsi per una valutazione che le consideri talmente significative, talmente espressive, talmente ricolme di una sofferenza non dicibile e non esprimibile, per non poter poi non concludere che la forza dimostrativa della relativa massima di esperienza è tale da non richiedere ulteriori sforzi probatori in capo al danneggiato, pur senza che - si badi - questa attività interpretativa dei fatti del processo si risolva nel riconoscimento mascherato di danni in re ipsa: sarà sempre ammessa, difatti, in capo al danneggiante, la facoltà di offrire al giudice la prova contraria, e cioè la dimostrazione che, in quello specifico, magari unico caso (tutti i casi di violazione di diritti costituzionali sono specifici e magari unici) quelle conseguenze dannose, nonostante la astratta gravità della lesione, non si sono verificate. In mancanza di prova contraria, e nel rispetto dell'istituzionale riparto degli oneri probatori, la domanda risarcitoria non potrà che essere accolta, pur nell'amara consapevolezza, che insegue ogni giudice della responsabilità civile, che il denaro e il dolore sono entità tra loro non fungibili, non comparabili, né tantomeno compatibili. |