Il contrasto al fenomeno della violenza domestica e contro le donne mediante i percorsi di recupero presso i C.U.A.V.

Giuseppe Spadaro
22 Maggio 2025

L’atteso decreto ministeriale del 22 gennaio 2025 e le allegate linee offrono l’occasione di soffermarsi sul tema dei percorsi di recupero nei centri per uomini autori o potenziali autori dei reati di violenza domestica e contro le donne; in particolare, nella consapevolezza che la violazione della legge non può essere impedita da nessuna norma giuridica, il focus cerca di evidenziare le componenti educative e culturali del provvedimento, i cui principi, quindi, non potranno che illuminare anche le più cupe fattispecie.

Premessa

La vita è tendenzialmente influenzata da fattori ambientali e da una serie di agenti di socializzazione, in quanto l’individuo assimila e acquisisce valori, orientamenti, norme, atteggiamenti e comportamenti socialmente condivisi, interiorizzando la cultura (o incultura) della società (o delle società o gruppi) di riferimento.

In ragione di tale consapevolezza, la tutela delle vittime di reati di violenza domestica e di genere postula (oltre alla sanzione) la necessità di intervenire sugli autori di tali condotte, al fine di proteggere le persone vulnerabili e contenere la recidiva: l’obiettivo di arginare il fenomeno criminoso, infatti, può essere raggiunto non solo con azioni repressive, ma anche con azioni positive di tipo educativo e culturale.

È interessante notare, sul punto, come anche gli studiosi del diritto civile hanno auspicato «un serio programma di contrasto alla violenza domestica, che non può prescindere da un significativo investimento, a monte, in termini di formazione socio culturale e, a valle, in strumenti di protezione delle vittime mediante la formazione di personale che a diverso titolo si trova a lavorare e avere rapporti diretti con queste ultime» (C. Irti, Violenza nei confronti delle donne, violenza domestica e processo civile, in Riv. trim dir. proc. civ., 1/2023).

Deve leggersi con favore, pertanto, il Decreto 22 gennaio 2025 (recante «Disciplina dei criteri e delle modalità per il riconoscimento e l’accreditamento degli enti e delle associazioni abilitati ad organizzare percorsi di recupero destinati agli autori dei reati di violenza contro le donne e di violenza domestica» e pubblicato in G.U. Serie Generale n. 73 del 28 marzo 2025), il cui Allegato A delinea le modalità di ingresso dell’interessato nel centro per uomini autori o potenziali autori di violenza domestica e di genere, individua il contenuto e gli obiettivi individuali che il programma di recupero deve comprendere, offre criteri per individuare le figure professionali necessariamente o facoltativamente coinvolte e, infine, detta i requisiti per determinare la valutazione dell’esito del percorso.

Il  quadro normativo: contrasto della violenza sulle donne, domestica e di genere

Il contrasto della violenza sulle donne, domestica e di genere ha origini pressoché recenti ed è legato al superamento della concezione romanistica che vedeva attribuito al pater familias un ruolo di pieno dominio verso i figli e la moglie, nei cui confronti potevano adoperarsi «mezzi violenti, purché moderati» (C. Irti, Violenza nei confronti delle donne, violenza domestica e processo civile, cit.).

Esso può farsi risalire alla «Convenzione sull'eliminazione di tutte le forme di discriminazione nei confronti delle donne» (adottata dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 18 dicembre 1979, ratificata con l. 14 marzo 1985, n. 132), a cui ha fatto seguito la «Dichiarazione sull'eliminazione della violenza contro le donne» (adottata dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite con risoluzione n. 48/104 del 20 dicembre 1993), la dichiarazione n. 19 allegata al TFUE (secondo cui l'Unione Europea «mirerà, nelle sue varie politiche, a lottare contro tutte le forme di violenza domestica» e «gli Stati membri dovrebbero adottare tutte le misure necessarie per prevenire e punire questi atti criminali e per sostenere e proteggere le vittime») e soprattutto la «Convenzione del Consiglio d'Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica» (c.d. Convenzione di Istanbul, ratificata con l. 27 giugno 2013, n. 77), nonché, più recentemente, la Direttiva (UE) 2024/1385 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 14 maggio 2024 sulla lotta alla violenza contro le donne e alla violenza domestica.

Nella medesima prospettiva, nell'ordinamento italiano, i principali interventi di matrice penalistica hanno riguardato dapprima le misure urgenti in materia di sicurezza pubblica, di contrasto alla violenza sessuale e in tema di atti persecutori (di cui al d.l. 23 febbraio 2009, n. 11, convertito dalla l. 23 aprile 2009, n. 38) e, successivamente, l'introduzione di disposizioni urgenti in materia di sicurezza e per il contrasto della violenza di genere (di cui al d.l. 14 agosto 2013, n. 93, convertito dalla l. 15 ottobre 2013, n. 119), la modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e alle altre disposizioni in materia di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere (l. 19 luglio 2019, n. 69, c.d. Codice Rosso), nonché la predisposizione di ulteriori misure per il contrasto della violenza sulle donne e della violenza domestica (l. 24 novembre 2023, n. 168).

Non si tratta, tuttavia, di norme meramente repressive e di rafforzamento punitivo, essendo anche necessaria – per affrontare il «fenomeno della delinquenza domestica e di genere», caratterizzato tanto da una «connotazione marcatamente culturale» quanto dalla complessa personalità dei soggetti agenti (P. Sechi, Autori di violenza domestica e di genere: indicazioni sovranazionali e strumenti normativi interni, in Cass. Pen., 1/2023) – la predisposizione di programmi rivolti agli autori di atti di violenza domestica, per incoraggiarli ad adottare comportamenti non violenti nelle relazioni interpersonali, al fine di prevenire nuove violenze e modificare i modelli comportamentali violenti (art. 16, Convenzione di Istanbul).

Così, da un lato si prevede che la partecipazione positiva a un programma di prevenzione della violenza organizzato dai servizi socio-assistenziali del territorio è valutato dal giudice ai fini della revoca o della sostituzione della misura cautelare con un'altra meno grave (art. 282 quater, comma 1, terzo periodo, c.p.p.); e che, dall'altro, nei casi di condanna per determinati reati (si tratta del delitto previsto dall'articolo 575, nella forma tentata, o dei delitti, consumati o tentati, di cui agli articoli 572, 609 bis, 609 ter, 609 quater, 609 quinquies, 609 octies e 612 bis, nonché agli articoli 582 e 583 quinquies nelle ipotesi aggravate ai sensi degli articoli 576, primo comma, numeri 2, 5 e 5.1, e 577, primo comma, numero 1, e secondo comma, c.p.) la sospensione condizionale della pena è sempre subordinata alla partecipazione, con cadenza almeno bisettimanale, e al superamento con esito favorevole di specifici percorsi di recupero presso enti o associazioni che si occupano di prevenzione, assistenza psicologica e recupero di soggetti condannati per i medesimi reati (art. 165, comma 5, c.p.).

Il riferimento, quindi, è a quei programmi e percorsi di trattamento (anche a sfondo psicologico), che dovrebbero essere in grado di contenere gli impulsi aggressivi dell'autore del reato, passando per un approfondito lavoro (ri)educativo e di reinserimento sociale (F. Filice, La violenza di genere, Milano, 2019); la misura, pertanto, «confida in percorsi di recupero che dovrebbero coinvolgere l'autore del reato al fine di sedare gli impulsi aggressivi generati dal decadimento della relazione» (S. Recchione, Codice rosso. Come cambia la tutela delle vittime di violenza domestica e di genere con la legge 69/2019, in Ius Penale, 2019).

Riconoscimento e accreditamento dei centri per il recupero degli uomini autori di violenza domestica e di genere

In tale contesto, si inseriscono i centri per il recupero degli uomini autori o potenziali autori di violenza domestica e di genere (anche solo «C.U.A.V.» o «Centri») che possono essere costituiti da enti locali (in forma singola o associata) e associazioni (il cui scopo sociale preveda il recupero degli uomini autori di violenza domestica e di genere, e che abbiano al loro interno competenze in materia e personale specificamente formato), anche di concerto o d'intesa tra loro ovvero in forma consorziata (art. 1, comma 663, l. 30 dicembre 2021, n. 234).

In particolare, con l'atteso Decreto 22 gennaio 2025 è stata data attuazione alla norma relativa al riconoscimento e attività degli enti e delle associazioni organizzatori di percorsi di recupero destinati agli autori di reato (art. 18, l. 24 novembre 2023, n. 168), secondo cui il Ministro della giustizia e l'Autorità politica delegata per le pari opportunità stabiliscono, con proprio decreto, i criteri e le modalità per il riconoscimento e l'accreditamento degli enti e delle associazioni abilitati a organizzare percorsi di recupero destinati agli autori dei reati di violenza contro le donne e di violenza domestica e adottano linee guida per lo svolgimento dell'attività dei medesimi enti e associazioni.

Da quest'ultimo punto di vista, il predetto decreto, non può che apprezzarsi in quanto contiene «linee guida per lo svolgimento dell'attività dei medesimi enti e associazioni» riconosciuti e accreditati (art. 1 e Allegato A, Decreto 22 gennaio 2025), che operano in modo integrato con la rete dei servizi socio-sanitari e assistenziali territoriali e con la rete dei servizi antiviolenza.

I percorsi di recupero nelle linee guida allegate al decreto 22 gennaio 2025

I C.U.A.V. elaborano, in generale, varie tipologie di percorsi di recupero, consentendo al giudice di definire quella più adeguata, anche temporalmente, sulla base della violenza commessa e delle esigenze e specificità del caso concreto.

A seguito della presentazione (personalmente o congiuntamente al difensore) della richiesta di accesso al percorso da parte dell’interessato, il Centro svolge i colloqui di valutazione iniziale finalizzati a verificare la sussistenza delle condizioni oggettive e soggettive necessarie per l’attuazione del percorso e per definire gli obiettivi individuali del programma.

La valutazione iniziale è altresì finalizzata ad individuare la qualità ed il livello della motivazione dell’individuo, la presenza di condizioni ostative non trattate (tra le quali dipendenze patologiche, disturbi psichiatrici, deficit psicofisici inabilitanti la soggettività), l’intenzione e la concreta possibilità di partecipare agli interventi proposti per tutta la durata del programma e la valutazione iniziale del rischio.

Sulla base del tipo di reato e di violenza commessa e delle altre esigenze del caso concreto, quindi, viene redatto un programma – evidentemente adeguato rispetto alle indicazioni dell’autorità giudiziaria – che comprende l’indicazione degli obiettivi del percorso e degli strumenti operativi prescelti per il loro raggiungimento; segue, a cura del responsabile dell’ente o associazione, la comunicazione, all’interessato e all’Ufficio interdistrettuale esecuzione penale esterna (U.E.P.E.), della presa in carico, della valutazione iniziale, del piano individualizzato e della calendarizzazione degli incontri, oltre che delle eventuali modifiche, sospensioni o interruzioni.

La specifica idoneità del programma in relazione alle complessive circostanze del fatto criminoso lo rendono infatti uno strumento duttile e mutevole; è del resto consentita, oltre a quanto giudizialmente stabilito, una modifica (o, più precisamente, una ulteriore personalizzazione) dei contenuti originariamente previsti proprio sulla base dell’andamento del caso specifico e delle informazioni rilevanti fornite o acquisite da enti e strutture della rete dei servizi socio-sanitari e assistenziali territoriali e dei servizi antiviolenza.

Di ogni attività svolta nel percorso è redatto un verbale che viene inserito nel fascicolo del programma e assume rilievo soprattutto nella fase conclusiva della valutazione finale; quest’ultima consiste nella verifica del raggiungimento degli obiettivi specifici del percorso (così come definiti nel programma) e comprende anche la valutazione finale del rischio, la autovalutazione dell’interessato ed una valutazione unitaria conclusiva.

Al riguardo, si specifica che la regolare partecipazione alle attività previste dal programma è elemento necessario ma non sufficiente ai fini dell’ottenimento di una valutazione positiva.

Ed infatti, se la mancata partecipazione (salvo sospensioni o interruzioni specificamente documentate) al percorso o la sua partecipazione con modalità incompatibili con il raggiungimento degli obiettivi definiti nel programma comportano l’interruzione del percorso, il quale conseguentemente si conclude con «esito negativo», all’opposto la valutazione positiva non può basarsi esclusivamente sulla regolare partecipazione alle attività previste dal programma.

Ciò significa che le valutazioni, svolte con metodi e strumenti validati dalla comunità scientifica (nazionale e internazionale) e trasmesse all’U.E.P.E., devono essere motivate – quanto ai criteri di riferimento seguiti e agli elementi posti a fondamento delle conclusioni raggiunte – da una equipe multidisciplinare, vale a dire costituita da professionisti adeguatamente e specificamente formati e aggiornati sul tema della violenza di genere e dell’intervento con gli autori, al fine di garantire la capacità di fornire risposte adeguate a bisogni complessi.

In particolare, l’equipe deve essere formata da almeno tre operatori (o operatrici) e deve comprendere almeno un professionista con la qualifica di psicoterapeuta o psicologo con una formazione specifica nel campo della violenza di genere; la multidisciplinarietà del gruppo di lavoro consente, evidentemente, oltre alla possibilità di avvalersi di una supervisione clinica, il coinvolgimento di altre figure professionali quali educatori, assistenti sociali, psichiatri, avvocati, criminologi, mediatori interculturali o linguistico-culturale (specialmente laddove gli utenti non utilizzino adeguatamente la lingua italiana).

Le equipes devono essere «dedicate», onde se nello stesso centro si svolgono attività e programmi sia con le persone che hanno subito violenza che con gli autori di comportamenti violenti, deve essere assicurato che le strutture siano separate e distanti e che non siano gli stessi operatori a seguire entrambe le parti, tanto che è esclusa in ogni caso l’applicazione di qualsiasi tecnica di mediazione tra le parti.

L’abuso e la disubbidienza alla legge non può essere impedita da nessuna legge: interventi educativi e formazione culturale

«L’abuso e la disubbidienza alla legge non può essere impedita da nessuna legge»: la efficace riflessione – annotata, nello Zibaldone, da Giacomo Leopardi, il 31 agosto 1820 – richiama, ieri come oggi, la componente etica e la formazione culturale dell’individuo perché la legge, di per sé, pur necessaria, non è sufficiente a prevenire e sconfiggere il fenomeno in discorso.

Parte della dottrina (C. Pecorella, Violenza di genere e sistema penale, in Dir. pen. proc., 1/2019; G. Marinucci, Politica criminale e riforma del diritto penale, in Jus, 1974) ritiene, al riguardo, che la difesa delle vittime dagli atti di violenza domestica e di genere non si realizza con la mera aumentata severità dello strumento penale (sicuramente «simbolica» e di «rassicurazione sociale», ma talvolta «sproporzionata e sostanzialmente inutile in termini di concreta deterrenza») bensì «con azioni di contrasto sul piano della politica criminale e, prima ancora, della politica sociale» nonché mediante «interventi educativi sugli autori di atti violenti contro le donne con elevato rischio di recidiva» (A. Merli, Violenza domestica e violenza di genere, in Enc. Dir., Famiglia, 2022).

Alcuni Autori, con specifico riferimento al c.d. Codice Rosso, hanno perfino sostenuto che «il legislatore è stato incapace sia di conferire organicità e sistematicità alla nuova disciplina, sia di bilanciare in modo equilibrato le concorrenti esigenze – da un lato – di garantire una risposta rapida ed efficace ai reati in questione e – dall’altro – di assicurare un adeguato rispetto dei diritti delle persone indagate e imputate» (G. Fiandaca, Quale “rieducazione” per gli autori di violenze di genere?, in Dir. Dif., 1/2020).

Non esiste, del resto, un unico fattore al quale ricondurre la violenza domestica e di genere, giocando un ruolo cruciale tanto l’ambiente (anche familiare) di riferimento quanto l’educazione ricevuta, al pari delle esperienze vissute.

L’immagine della famiglia, quale luogo del ristoro e del dialogo, si trasforma talvolta in un teatro di prevaricazioni morali e fisiche, ove sulla scena si presentano forme di tensione, rabbia, frustrazione, sfogo di insoddisfazioni: e così, all’amore, all’affetto, alla solidarietà, alla comprensione si contrappongono e sostituiscono l’odio, le invidie, le offese e le violenze (L. Ciaroni, Le forme di tutela contro la violenza domestica, in Giur. mer., 9/2006).

Del pari, la violenza contro le donne, quale «forma di violenza di genere» (già definita come qualsiasi violenza diretta contro le donne in quanto tale, o che colpisce le donne in modo sproporzionato), è «una manifestazione persistente della discriminazione strutturale nei confronti delle donne, derivante da rapporti di potere storicamente iniqui tra donne e uomini». Essa, quindi, appare come un fenomeno (di incultura) radicato «nei ruoli, nei comportamenti, nelle attività e negli attributi socialmente costruiti che una determinata società considera appropriati per donne e uomini» (Dir. 2024/1385, cit., considerando n. 10) e come tale deve essere affrontato.

Tale definizione – al pari di quella contenuta nella Convenzione di Istanbul – consente allora di individuare a livello culturale, di pregiudizi e orientamenti discriminatori, il substrato della violenza di genere.

Trattandosi di fenomeno culturale, occorre dunque domandarsi quale ruolo assumano, nella formazione ed educazione (anche giuridica) delle persone (più o meno giovani), quelle forme di rappresentazione che, attraverso una «spettacolarizzazione mediatica della violenza di genere», sembrerebbero «alimentare la diffusione e il consolidamento di un atteggiamento prevaricatorio nei confronti delle donne» (T. Alesci, Violenza di genere e rappresentazione mediatica, in Il Processo, 2/2022).

Non di rado si assiste a modelli descrittivi (nelle sue molteplici manifestazioni, compresi i social networks) in cui «le strutture narrative sono identiche, cambia il contesto locale e i nomi» e dove «viene messa in risalto l’efferatezza dell’atto individuale, la sua apparente casualità ed irrazionalità» prescindendo dal contesto socio-culturale; altre volte, sembrerebbe emergere una «tendenziale disinformazione sulla reale portata del fenomeno, nella misura in cui si offre una visione parcellizzata e frazionata della realtà» assistendosi «ad una sovra rappresentazione di alcuni fenomeni di violenza rispetto a quanto avviene effettivamente nella realtà», con conseguenti «distorsioni cognitive sulla reale offensività della condotta» (T. Alesci, Violenza di genere e rappresentazione mediatica, cit.).

Il conclusione

Il Decreto ministeriale del 22 gennaio 2025 si inserisce nell’ottica di quelle operazioni (giuridiche, sociali e culturali) volte ad individuare le cause degli errori commessi (vale a dire i perché sottesi al fatto criminoso). La realtà odierna, infatti, è complessa e complicata; ed il diritto non è che uno degli strumenti per migliorare la società.

In questa direzione, prescindendo dalla catena (tipicamente processuale) delle (pur legittime) accuse e controaccuse (tanto che, come detto, è esclusa ogni possibilità di mediazione o incontro tra le parti), l’elaborazione di linee guida per il percorso di recupero all’interno dei C.U.A.V., allora, si presenta diretta ad offrire risposte di natura intellettuale e scientifica (al pari degli strumenti e metodi utilizzati) a un fenomeno che deve essere contrastato anche per mezzo di quelle strutture specializzate (come tali riconosciute e accreditate) in cui operano professionisti di indiscussa competenza.

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