Processo tributario e oneri incombenti sull’appellato per non incorrere nel divieto di reformatio in peius

10 Giugno 2025

Nel contesto di una controversia tributaria, la Corte tributaria di primo grado aveva accolto parzialmente il ricorso di un contribuente, rideterminando a zero il reddito accertato per un dato anno d'imposta, sebbene per le annualità successive fossero stati dichiarati redditi significativi (pari a 104.518 Euro per il 2007 e 121.228 Euro per il 2008). L'accertamento originario, di tipo analitico-induttivo ex art. 39, comma 1, lett. d), D.P.R. n. 600/73, si basava sull'applicazione di uno studio di settore.

La violazione del divieto di reformatio in peius nell'appello tributario: il caso di specie

Il giudice d'appello, pur confermando la decisione di primo grado, ha evidenziato che le giustificazioni addotte dal contribuente in merito alla mancata produzione di reddito per l'anno in questione (dovuta al non completamento dei lavori di costruzione di un immobile) erano già state oggetto di contraddittorio prima della notifica dell'avviso di accertamento e di esse si era già tenuto conto. Inoltre, la Corte ha stabilito che le differenze tra le rimanenze iniziali e finali non potevano essere qualificate come un costo, e ha valorizzato la presenza incontestata di ingenti redditi dichiarati per le annualità precedenti e successive a quella sotto accertamento.

Avverso questa decisione, il contribuente ha proposto ricorso per cassazione, sollevando una censura ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c., per violazione dell'art. 112 c.p.c. (ultra-petizione). In particolare, il ricorrente ha lamentato che la sentenza di secondo grado aveva riformato la decisione di primo grado in senso a lui sfavorevole, confermando integralmente l'atto impugnato, nonostante l'Ufficio non avesse proposto alcun appello incidentale avverso la sentenza di prime cure che aveva accolto parzialmente il ricorso.

La Suprema Corte, accogliendo tale motivo di censura, ha ribadito con fermezza che il divieto di reformatio in peius opera pienamente anche nel processo tributario. Ha precisato che, una volta definito il quantum devolutum (ovvero l'ambito della controversia sottoposta al giudice di appello) in assenza di un'impugnazione incidentale da parte della parte parzialmente vittoriosa, la decisione di secondo grado non può essere più sfavorevole all'appellante e più favorevole alla controparte di quanto non lo fosse stata la sentenza impugnata. Qualora ciò avvenga, come nel caso di specie, la pronuncia di secondo grado incorre nel vizio di extra-petizione, avendo il giudice pronunciato oltre i limiti delle domande formulate dalle parti, in violazione del principio dispositivo.

I precedenti conformi nella giurisprudenza della Corte di cassazione

La decisione della Corte di cassazione, merita di essere condivisa per le seguenti ragioni.  

Al riguardo va anzitutto osservato che il divieto di reformatio in peius è ricavabile dagli artt. 329 e 342 c.p.c., in tema di effetto devolutivo dell'impugnazione di merito ed in tema di acquiescenza, che presiedono alla formazione del thema decidendum in appello, per cui, una volta stabilito il quantum devolutum, l'appellato non può giovarsi della reiezione del gravame principale per ottenere effetti che solo l'appello incidentale gli avrebbe assicurato e che, invece, in mancanza, gli sono preclusi dall'acquiescenza prestata alla sentenza di primo grado.

In questo senso la costante giurisprudenza di legittimità in materia di effetto devolutivo dell'appello ritiene, con il favore della dottrina pressocché unanime della dottrina (v., anche per i richiami,  G.P. Califano, L'impugnazione incidentale tempestiva, in G.P. Califano-C. Perago, Le impugnazioni civili, Torino, 1999, p. 289 s.), che “Il divieto di reformatio in peius costituisce conseguenza delle norme, dettate dagli artt. 329 e 342 c.p.c., in tema di effetto devolutivo dell'impugnazione di merito ed in tema di acquiescenza, che presiedono alla formazione del thema decidendum in appello, per cui, una volta stabilito il quantum devolutum, l'appellato non può giovarsi della reiezione del gravame principale per ottenere effetti che solo l'appello incidentale gli avrebbe assicurato e che, invece, in mancanza, gli sono preclusi dall'acquiescenza prestata alla sentenza di primo grado” (Cass. n. 25244 del 08/11/2013) e che “Il potere del giudice di individuare l'esatta regola di diritto applicabile alla fattispecie, deve misurarsi con le preclusioni che derivano, per l'appello, dagli artt. 329 e 342 c.p.c. e, nel ricorso per cassazione, dalla natura del giudizio di legittimità, a critica vincolata, con oggetto delimitato dalle censure sollevate con i singoli motivi” (Cass. n. 11868 del 09/06/2016 (Rv. 640002 - 01).

Il divieto di reformatio in peius (come ricorda l'ordinanza in commento) opera anche nel processo tributario (cfr. Cass. n. 12275 del 18/05/2018). E non può che essere altrimenti anche alla luce della clausola di rinvio alle norme del codice di procedura civile contenuta nell'art. 1, comma 2, del decreto legislativo n. 546 del 1992 che disciplina il processo tributario.

Viola, dunque, tale divieto la sentenza di appello che, pur in assenza di appello incidentale dell'ufficio finanziario parzialmente soccombente, applichi una percentuale di ricarico più alta di quella decisa in primo grado e pari a quella originariamente indicata nell'avviso di accertamento. Con ciò si determina, infatti, un imponibile maggiore rispetto a quello deciso dal giudice di prime cure e quindi una “reformatio in peius” della sentenza della CTP da parte del giudice di appello. Nella fattispecie esaminata da Cass. 19 luglio 2017, n. 17778, la sentenza di appello (proprio come quella oggetto di decisione da parte della pronuncia in commento) produce proprio tale effetto, a seguito della riforma “di ufficio” della sentenza del primo giudice, che riduce la percentuale di ricarico, con la conseguente conferma dell'avviso di accertamento impugnato, pur in assenza di appello incidentale dell'Ufficio.

È questa un'ipotesi analoga a quella che nel processo civile si verifica quando l'impugnazione è proposta unicamente con riguardo all'accertamento dell'esistenza del diritto azionato, senza toccare la determinazione del suo ammontare. In tal caso pacificamente si afferma che il riesame del giudice superiore, nonostante la dipendenza tra le due statuizioni, non si estende alla pronuncia sul quantum debeatur (cfr. N. Rascio, L'oggetto dell'appello civile, Napoli, 1996, p. 200 ss., a cui si rinvia sia per i richiami sia per la ricostruzione dei possibili modelli argomentativi).

Secondo la giurisprudenza (fra le tante, v. Cass., 19 agosto 2003, n. 12176, in Arch. civ., 2004, 795; Id., 23 aprile 1998, n. 4186, in Mass. Giur. it., 1998; Id., 19 aprile 1993, n. 4588, ivi, 1993) la sentenza, in cui abbia trovato in tutto o in parte accoglimento una domanda “di quantità”, si compone, infatti, (almeno) di due “parti” o “capi”, relativi l'uno alla sussistenza del diritto, l'altro alla fissazione della misura della prestazione dovuta, con conseguente riduzione, ai sensi del comma 2 dell'art. 329 c.p.c., dell'ambito oggettivo della controversia dinanzi al giudice del gravame quando solo il primo di essi sia fatto oggetto di impugnazione, salva, in caso di accoglimento di questa, l'efficacia riflessa della riforma o della cassazione in applicazione dell'art. 336 c.p.c. (per questa ricostruzione, cfr. per tutti E.T. Liebman, “Parte” o “capo” di sentenza, in Riv. dir. proc., 1964, p. 53; v. anche R. Poli, I limiti oggettivi delle impugnazioni ordinarie, Padova 2002, p. 134. Questa ricostruzione è severamente criticata da altra dottrina: F. Carnelutti, Capo di sentenza, in Riv. dir. proc. civ., 1933, I, p. 127; S. Chiarloni, L'impugnazione incidentale nel processo civile, Milano, 1969, p. 49 ss.; E. Cerino Canova, Le impugnazioni civili. Struttura e funzione, Padova, 1973, p. 185 ss.; G. Monteleone, Limiti alla proponibilità di nuove eccezioni in appello, in Riv. dir. civ., 1983, I, 728 ss.).

In altre parole, la sfavorevole soluzione di questioni dà origine ad una vera e propria soccombenza, ancorché da essa possa non sorgere l'interesse ad impugnare per la parte che abbia ugualmente conseguito il successo sulla domanda. Tuttavia, l'iniziativa avversaria, comportando il pericolo di un diverso esito del giudizio, determina nell'impugnato l'interesse a rimuovere la soccombenza sulla questione, allo scopo di conservare intatta la propria posizione di vantaggio.

L'appellante incidentale deve, in ogni caso, individuare con i motivi gli errori commessi dal giudice di primo grado nel risolvere le questioni di cui vuole il riesame. La struttura dell'appello incidentale, infatti, non muta in considerazione del fatto che esso serve non ad ampliare l'oggetto quantitativo del gravame, ma semplicemente a riaprire, impedendo per esse la formazione del giudicato, le questioni risolte in primo grado a sfavore della parte risultata comunque vittoriosa in ordine ad una determinata domanda. Anche in queste ipotesi, cioè, l'impugnante chiede una certa decisione sulla res litigiosa e giustifica la sua richiesta adducendo l'erroneità dei singoli statuizioni relative a fattispecie costitutive, impeditive, modificativa o estintive. Non manca, invero, come si vede l'attacco alla sentenza il quale, dunque, non è incompatibile con la circostanza che il soccombente virtuale sollecita sul diritto controverso una pronuncia corrispondente nel dispositivo a quella impugnata (cfr. E. Grasso, Le impugnazioni incidentali, Milano, 1973, p. 80 s.).

La conseguenza è che in sede di impugnazione, il giudice, confermando la sentenza impugnata, può senza violare il principio dispositivo, anche d'ufficio, correggerne, modificarne o integrarne la motivazione, purché la modifica non concerna statuizioni adottate dal giudice di grado inferiore non impugnate dalla parte interessata, con la conseguenza che, in assenza d'impugnazione della parte parzialmente vittoriosa, la decisione non può essere più sfavorevole all'impugnante e più favorevole alla controparte di quanto non sia stata la sentenza impugnata e non può, quindi, dare luogo ad una reformatio in peius in danno del primo (Cass. n. 14127 del 27/06/2011).

L'appello incidentale nel processo tributario

I poteri del giudice di appello vanno, quindi, determinati con esclusivo riferimento all'iniziativa delle parti, con la conseguenza che, in relazione ai capi della sentenza che non sono stati oggetto di impugnazione incidentale, la decisione del giudice d'appello non può essere più sfavorevole all'appellante e più favorevole all'appellato di quanto non sia stata la sentenza impugnata, e non può, quindi, dare luogo alla reformatio in peius in danno dell'appellante (Cass. 21 luglio 2015, n. 15292; Cass. n. 14063/2006).

L'appello incidentale tempestivo è quello proposto, nel termine di 60 giorni, previsto per l'appello principale dall'art. 51, D.Lgs. n. 546/1992, in presenza della notifica della sentenza di primo grado; l'impugnazione incidentale tempestiva è quella che viene ad essere incardinata, quando la parte, che ha ricevuto l'impugnazione principale, sia ancora nei termini per proporre impugnazione poiché non è già decorso il termine breve o poiché in assenza della notifica della sentenza non è decorso il termine lungo.

L'appello incidentale tardivo può proporsi allorché la parte sia rimessa in termini dall'impugnazione principale effettuata dalla controparte.

L'appello incidentale tardivo (appello incidentale proposto con le controdeduzioni all'appello principale) è quello proposto, nel termine perentorio di 60 giorni, decorrenti dalla notifica dell'appello principale (cfr. art. 23, D.Lgs. n. 546/1992 richiamato dall'art. 53 dello stesso decreto), ma oltre il termine ordinario, previsto per la proposizione dell'appello in via principale. Il soggetto che lascia trascorrere il termine per la proposizione dell'appello principale, decorrente dalla notifica della sentenza di primo grado, può avvalersi dell'appello tardivo previsto dall'art. 334 c.p.c. anche per impugnare un capo autonomo ossia qualsiasi capo della decisione.

Ma se nel processo tributario d'appello, come in quello civile, la devoluzione al giudice del gravame dell'eccezione di merito, respinta in primo grado, formulata dalla parte comunque vittoriosa, esige dunque la proposizione dell'appello incidentale, se la parte ripropone tale eccezione contestando la statuizione sul punto, può procedersi alla sua riqualificazione, in applicazione del principio dell'idoneità dell'atto al raggiungimento dello scopo, tenuto anche conto che, nel contenzioso tributario, l'appello incidentale non deve essere notificato, ma è contenuto nelle controdeduzioni, depositate nel termine di costituzione dell'appellato, venendo così ad affievolirsi la distinzione tra appello incidentale, riproposizione dei motivi e difesa del resistente (cfr. Cass. n. 2805 del 31/01/2022; Cass. n. 18119 del 24/06/2021).

L'appello incidentale, proposto con le controdeduzioni all'appello principale, non va notificato all'appellante principale e a tutte le parti che hanno partecipato al processo di primo grado, ma va solo depositato, entro il termine perentorio di 60 giorni, decorrente dalla notifica dell'appello principale presso la segreteria della Corte regionale in tanti esemplari, pari alle parti in giudizio, corredati dai documenti offerti in comunicazione.

Il rilievo da ultimo svolto, pacifico nella giurisprudenza della Corte di cassazione (cfr. anche Cass. VI-5, n. 1200 del 22/01/2016 e n. 30525 del 23/11/2018), introduce un concetto molto interessante e specifico che riguarda il processo tributario d'appello. Vediamo di esplicitarlo in modo chiaro.

La regola generale: appello incidentale per le eccezioni respinte

Nel processo civile, e per analogia anche in quello tributario, vige il principio secondo cui se una parte è risultata vittoriosa in primo grado, ma in quel giudizio aveva sollevato delle eccezioni di merito (cioè argomentazioni difensive che, se accolte, avrebbero portato al rigetto della domanda avversaria o all'accoglimento di una propria domanda riconvenzionale, ma che sono state respinte dal giudice), per sottoporre nuovamente quelle eccezioni al giudice d'appello, deve necessariamente proporre appello incidentale.

Perché? Perché la parte, pur avendo vinto la causa, ha visto respingere una specifica sua eccezione. Se la sentenza viene impugnata dalla controparte (l'appellante principale), e la parte vittoriosa in primo grado si limita a difendersi senza proporre appello incidentale, la giurisprudenza tradizionale riterrebbe che abbia prestato acquiscenza alla statuizione di rigetto della sua eccezione. Di conseguenza, il giudice d'appello non potrebbe esaminare nuovamente quella questione, poiché non sarebbe stata oggetto di un'impugnazione specifica. L'appello incidentale, in questo scenario, serve a “riaprire” il punto specifico su cui si è perso, anche se globalmente si è vinto.

La peculiarità del processo tributario: riqualificazione e affievolimento delle distinzioni

La Cassazione (ad esempio con l'ordinanza n. 18119 del 2021 e la precedente n. 24456 del 2020) introduce una specifica attenuazione di questa regola nel processo tributario.

Il cuore del concetto è che, se la parte che è stata comunque vittoriosa in primo grado ripropone esplicitamente l'eccezione di merito già respinta, anche se non lo fa nella forma canonica di un “appello incidentale” ma semplicemente “contestando la statuizione sul punto” all'interno delle sue controdeduzioni, il giudice d'appello deve considerare valida questa riproposizione.

Questo avviene per l'applicazione di due principi fondamentali del diritto processuale, particolarmente sentiti in ambito tributario:

  1. principio dell'idoneità dell'atto al raggiungimento dello scopo: questo principio, previsto dall'art. 156 c.p.c. (applicabile in via generale anche al processo tributario), stabilisce che un atto processuale è valido se, pur non essendo formalmente perfetto, è idoneo a raggiungere lo scopo per cui è preordinato. Nel caso specifico, la riproposizione dell'eccezione, pur non essendo un appello incidentale “puro”, rende comunque chiaro al giudice e alla controparte che si intende rimettere in discussione quel punto.
  2. specificità delle forme dell'appello incidentale tributario: la Cassazione sottolinea che nel contenzioso tributario, l'appello incidentale non ha le stesse rigorose formalità dell'appello civile. Non deve essere notificato separatamente, ma è sufficiente che sia contenuto nelle controdeduzioni che l'appellato deposita nel termine di costituzione. Questa peculiarità della procedura tributaria porta a un “affievolimento della distinzione” tra:
  • appello incidentale: l'impugnazione vera e propria della parte che non ha totalmente vinto.
  • riproposizione dei motivi: la semplice richiesta al giudice di riesaminare questioni già dibattute in primo grado.
  • difesa del resistente: le argomentazioni con cui l'appellato si limita a sostenere la correttezza della sentenza di primo grado.

Le conseguenze pratiche di questo orientamento

In sintesi, la Suprema Corte riconosce una maggiore flessibilità formale nel processo tributario. Se una parte, pur vittoriosa, desidera che un'eccezione a lei favorevole ma respinta in primo grado venga comunque riesaminata dal giudice d'appello (magari per ottenere una motivazione più solida in caso di ulteriore ricorso o per prevenire future contestazioni), non è strettamente vincolata alla denominazione formale di “appello incidentale”. È sufficiente che, nelle sue controdeduzioni, contesti chiaramente la statuizione di primo grado su quel punto.

Questo orientamento mira a privilegiare la sostanza sulla forma e a garantire che le questioni rilevanti per la decisione siano effettivamente sottoposte all'esame del giudice di secondo grado, data la peculiare struttura e le finalità del processo tributario, orientato alla ricerca della verità materiale e alla corretta applicazione della normativa fiscale. Si evita così che mere questioni procedurali possano precludere l'esame di eccezioni sostanziali.

Questo chiarimento giurisprudenziale offre maggiore serenità agli avvocati tributaristi, permettendo loro di riproporre eccezioni senza il timore di decadenze formali eccessive, a patto che la volontà di rimettere in discussione il punto sia inequivocabile nelle controdeduzioni.

Mancato appello incidentale e la violazione del divieto di reformatio in peius nel processo tributario

Nel caso oggetto della decisione della Corte di cassazione è pacifico in atti, ed è altresì riportato nella sentenza impugnata, che l'Agenzia delle Entrate, parzialmente soccombente in primo grado, si era limitata a chiedere il rigetto dell'appello.

Occorre altresì evidenziare che l'istituto dell'impugnazione incidentale condizionata è rivolta ad attendere alle esigenze di tutela della parte processuale integralmente vittoriosa, rimasta, tuttavia, soccombente “teorica” su altre questioni (di rito o di merito), e ciò si verifica, dunque, quando la parte abbia ottenuto il rigetto della domanda proposta nei suoi confronti per ragioni diverse ed indipendenti dalle eccezioni sollevate e respinte.

Tali elementi rappresentano l'unico presupposto per l'impugnazione incidentale della parte vittoriosa, in essi soltanto essendo possibile ravvisare statuizioni sfavorevoli, passibili di subirne la censura in conformità alla natura tipica del mezzo d'impugnazione, rimanendo, così, l'impugnazione incidentale condizionata, l'unico strumento che assicura alla parte vittoriosa la conferma della sentenza a sé favorevole.

Nel caso in esame va dato atto sia della parziale soccombenza dell'Agenzia Comune in primo grado, che della richiesta, formulata in appello di conferma della suddetta pronuncia.

Ne consegue che, laddove l'Agenzia appellato avesse inteso ottenere la riforma della sentenza di primo grado con l'integrale rigetto del ricorso della contribuente, avrebbe dovuto proporre appello incidentale, ipotesi che non ricorre nell'odierna fattispecie, risultando inammissibile la richiesta di riforma della sentenza di primo grado, parzialmente favorevole alla contribuente, subordinata (“condizionata”) rispetto alla richiesta, proposta in via principale, della conferma di tale pronuncia.

In ragione di ciò la censura dell'odierna ricorrente è fondata, avendo la Commissione tributaria regionale nella sostanza confermato i contenuti dell'accertamento, così violando il divieto di reformatio in peius.

Origini e sviluppo del divieto di reformatio in peius

L'espressione “reformatio in peius” affonda le sue radici nel diritto romano. Sebbene la sua paternità precisa e l'interpretazione originaria siano ancora oggetto di dibattito tra gli studiosi, la locuzione, tratta da un passo del Digesto di Giustiniano, veniva inizialmente utilizzata per riferirsi alla “giustizia” della sentenza. Indicava, in quel contesto, che una decisione potesse essere modificata per renderla più giusta, e non necessariamente per peggiorare la posizione di una parte. È stato poi nel diritto comune, il sistema giuridico sviluppatosi in Europa a partire dal XII secolo, che il principio del divieto di reformatio in peius ha iniziato a delinearsi con l'accezione che conosciamo oggi: l'idea che un giudice, in sede di impugnazione, non possa peggiorare la situazione processuale della parte che ha proposto l'impugnazione stessa. Questo principio, pur non essendo direttamente desumibile dal testo giustinianeo, è stato successivamente accolto e positivizzato in diverse legislazioni moderne, inclusa quella italiana.

La reformatio in peius nel processo penale: un principio cardine

Nel diritto processuale penale italiano, il divieto di reformatio in peius è un pilastro fondamentale e trova una chiara e inequivocabile formulazione normativa nell'articolo 597, comma 3, c.p.p. Questo articolo stabilisce esplicitamente che il giudice dell'appello non può applicare una pena più grave per tipo o quantità, né disporre misure di sicurezza più sfavorevoli per l'imputato, né revocare benefici, qualora l'impugnazione sia stata proposta esclusivamente dall'imputato stesso.

La ratio di questa previsione è profondamente legata al principio del favor rei, ovvero la tendenza del sistema penale a tutelare la posizione dell'imputato. In un contesto processuale in cui le parti non sono sullo stesso piano – il Pubblico Ministero rappresenta l'accusa e lo Stato, mentre l'imputato difende la propria libertà personale – il divieto di reformatio in peius serve a mitigare gli effetti potenzialmente dissuasivi dell'impugnazione. Immaginiamo, ad esempio, che un imputato condannato in primo grado voglia appellare per ottenere una pena più mite o un'assoluzione; se esistesse il rischio che, per effetto del suo appello, la sua posizione potesse peggiorare (ad esempio, con la qualificazione del fatto come reato più grave o la revoca della sospensione condizionale della pena), sarebbe fortemente disincentivato dal ricorrere. Il divieto, quindi, garantisce all'imputato la possibilità di esercitare pienamente il suo diritto di difesa, senza temere un esito finale più pregiudizievole di quello già ottenuto. È una vera e propria scelta di campo del legislatore, volta a riequilibrare le forze in gioco e a promuovere l'esercizio del diritto di impugnazione.

Il divieto di reformatio in peius nel processo civile: una derivazione giurisprudenziale

Diversamente dal processo penale, nel diritto processuale civile italiano non esiste una norma specifica che positivizzi espressamente il divieto di reformatio in peius. Nonostante questa assenza, la giurisprudenza della Corte di cassazione ha (come in precedenza già rilevato) costantemente e unanimemente ammesso l'operatività di tale divieto anche in ambito civile.

Questa operatività viene comunemente fatta derivare dal principio dispositivo, che governa il processo civile anche nei gradi d'impugnazione. Il principio dispositivo, in sostanza, attribuisce alle parti il potere di determinare l'oggetto del giudizio e i suoi limiti. Tradotto in termini di appello, ciò significa che i poteri del giudice d'appello sono circoscritti dalle iniziative assunte dalle parti. Di conseguenza, se solo una delle parti (l'appellante) propone impugnazione e la parte parzialmente vittoriosa (l'appellato) non propone a sua volta un'impugnazione incidentale, la decisione del giudice d'appello non potrà essere più sfavorevole all'appellante e più favorevole all'appellato di quanto non fosse la sentenza impugnata.

La Suprema Corte ha costantemente ribadito questo orientamento in numerose sentenze (come Cass. nn. 14063/2006, 10965/2004, 10996/2003, 9646/2003, 135/2003, 8804/2001, 5273/1986 e 702/1965). In termini analoghi, e per applicazioni particolari che fanno derivare espressamente il divieto dal principio della domanda, si annoverano pronunce quali Cass. nn. 2028/2012, 23240/2011, 9526/1999, 7024/1997, 785/1997, 6480/1996 e 485/1994.

Questo divieto si applica pacificamente anche nel successivo giudizio di rinvio a seguito di cassazione, in virtù della sua natura di “giudizio chiuso” ai sensi dell'articolo 394 c.p.c. Tra le pronunce che confermano questa applicabilità si citano Cass. nn. 1823/2005, 9843/2002, 7974/2002, 4087/2001, 465/1999 e 3557/1994. Un'eccezione si riscontra solo riguardo al regolamento delle spese di lite in sede di rinvio (Cass. n. 209/1970).

La doppia chiave di lettura: natura e autonomia del divieto processuale civile

Nonostante l'unanime riconoscimento giurisprudenziale, è fondamentale analizzare la natura profonda e l'effettiva autonomia del divieto di reformatio in peius nel processo civile. Qui emerge una “doppia chiave di lettura” che ne svela le peculiarità.

Nel processo civile, a differenza di quello penale, non si riscontra una “efficienza” analoga del divieto. Nel processo civile, le parti sono in una condizione di perfetta parità, e il sistema non mira a correggere squilibri strutturali. Anzi, la recente tendenza del legislatore a introdurre strumenti volti a disincentivare il ricorso al secondo grado di giudizio civile (si pensi, ad esempio, alle norme sul filtro in appello introdotte dal D.L. n. 83 del 2012, convertito in L. n. 134 del 2012, con gli artt. 348-bis ss. c.p.c.) suggerisce una visione diametralmente opposta rispetto al processo penale. Se nel penale si vuole favorire l'impugnazione, nel civile si tende a contenerla.

Ma la differenza più sostanziale riguarda la natura del divieto stesso. Nel processo civile, il divieto di reformatio in peius non si configura come un “principio” autonomo con una propria forza euristica, ma piuttosto come una conseguenza logica e necessaria delle norme che presiedono alla formazione del thema decidendum in appello. Queste norme sono principalmente l'art. 342 c.p.c., che disciplina i motivi d'appello, e l'art. 329 c.p.c., in tema di acquiescenza.

L'essenza è questa: il divieto di riformare la sentenza in senso peggiorativo per l'appellante non deriva da un'ipotetica “domanda d'appello” intesa come richiesta onnicomprensiva di tutela, ma piuttosto dalla mancanza di un'impugnazione incidentale antagonista da parte dell'appellato. Se l'appellato non ha proposto appello incidentale, significa che ha prestato acquiescenza, cioè ha accettato tacitamente, le parti della sentenza che non lo hanno pienamente soddisfatto. Permettere al giudice di appello di riformare la sentenza a vantaggio dell'appellato che non ha impugnato significherebbe premiare la sua inerzia e vanificare il principio dell'acquiescenza.

In altre parole, non è l'esistenza di una norma implicita o di un principio generale a impedire modifiche della sentenza a danno dell'appellante, ma la contraddizione logico-processuale intrinseca nel consentire all'appellato, che non ha impugnato, di beneficiare della reiezione del gravame principale per ottenere un effetto che solo un suo appello incidentale gli avrebbe consentito. Da questo punto di vista, il divieto di reformatio in peius nel processo civile descrive un effetto, non ne è la causa.

Questa interpretazione trova ulteriore conferma in casi specifici, come l'applicazione dello ius superveniens (nuove norme sopravvenute) o di sentenze della Corte Costituzionale nel giudizio di cassazione. In particolare, il problema si è posto con la nota sentenza n. 348/2007 della Corte Costituzionale, in materia di indennità di espropriazione per pubblica utilità. Al riguardo, la giurisprudenza ha chiarito che, anche in presenza di innovazioni normative potenzialmente più sfavorevoli per il ricorrente, se la parte che ne beneficerebbe non ha proposto ricorso incidentale, la sentenza non può essere riformata in peggio. Si vedano, a titolo esemplificativo, Cass. nn. 26114/2008 (non massimata), 26619/2008 (non massimata) e 3175/2008.

Ciò dimostra ancora una volta che la preclusione non deriva da un principio autonomo di reformatio in peius, ma dalla mancata impugnazione incidentale e dalla conseguente cristallizzazione della posizione processuale per acquiescenza della parte appellata.

In conclusione

In conclusione, nel processo civile, il divieto di reformatio in peius non ha la valenza pervasiva di un principio generale, né possiede una vera autonomia di effetti processuali. Le sue conseguenze derivano piuttosto dal dinamico intreccio tra l'effetto devolutivo dell'appello e il principio dell'acquiescenza. È un corollario naturale di un sistema che assegna alle parti il controllo sull'oggetto del giudizio e che sanziona l'inerzia con la preclusione di determinate pretese.

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